William A. Galston, Il destino segnato di Bibi Netanyhau, La Stampa, 12 ottobre 2023
Il 22 settembre il primo ministro
israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato in modo fiducioso davanti
all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Gli scettici avevano torto,
ha detto, Israele ha firmato gli Accordi di Abramo con Emirati Arabi
Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco senza un trattato di pace con i
palestinesi. Gli Accordi prefigurano «l'alba di una nuova era di pace»
in Medio Oriente, che raggiungerà il suo punto più alto con un'intesa
tra Israele e Arabia Saudita. Quando si arriverà a ciò – Netanyahu ha
detto «quando», non «se» – «i palestinesi saranno più propensi ad
abbandonare il loro sogno di cancellare Israele e, una buona volta,
imboccheranno la strada di una pace vera e propria con esso». Quindici
giorni dopo, Hamas ha perpetrato un attacco terroristico a sorpresa che
ha portato alla morte di almeno mille israeliani, perlopiù civili, e al
ferimento di altri 3400. I sauditi avrebbero potuto reagire denunciando
in modo esplicito gli omicidi commessi da un'organizzazione che, per la
sua stessa ideologia, si colloca tra le file dei nemici dell'Arabia
Saudita. Al contrario, il ministro degli Esteri del regno saudita ha
rilasciato una dichiarazione nella quale sottolinea di aver
«ripetutamente lanciato moniti sui pericoli legati a una situazione
esplosiva, derivante dall'occupazione continua, dall'esautorazione dei
diritti legittimi del popolo palestinese e dal ripetersi di sistematiche
provocazioni contro i suoi luoghi santi». Il messaggio saudita a
Netanyahu è dunque: non pensare neanche lontanamente che, lungo la
strada verso la normalizzazione dei nostri rapporti, siamo liberi di
mettere in secondo piano la questione palestinese.
A
prescindere da quello che ciò può voler dire per i palestinesi in
Cisgiordania, però, Hamas è un'altra faccenda. Non può esserci pace tra
Israele e Hamas perché, fin dall'inizio e tuttora, quest'ultima ha
giurato di spazzare via Israele. Non dovete credermi sulla parola.
Leggete i suoi "General Principles and Policies" pubblicati
dall'organizzazione nel 2007. Nel documento c'è scritto che la Palestina
si estende «dal fiume Giordano a est fino al Mediterraneo a ovest». È
una unità territoriale integra, vale a dire indivisibile. Inoltre, è
anche «una terra santa» nel cuore della comunità araba e islamica e gode
di uno «status speciale». Hamas dice che il progetto sionista – che è
«razzista, aggressivo, coloniale, ed espansionista» – è completamente
illegittimo, come lo sono anche la Dichiarazione Balfour, il Mandato
britannico della Palestina e la Risoluzione delle Nazioni Unite per la
spartizione della Palestina. L'istituzione di Israele è «del tutto
illegittima». Il documento prosegue affermando che Hamas crede che
«nessuna parte del territorio palestinese debba essere violata o
concessa e che non debba esserci riconoscimento alcuno della legittimità
dell'entità sionista».
Hamas
sostiene che il suo dissenso è nei confronti dei sionisti, non degli
ebrei e della loro religione. Il suo statuto fondativo, reso noto nel
1988, smentisce però questa affermazione. L'Articolo 7 di questo
documento riporta le parole del Profeta Maometto: «L'Ultimo Giorno non
verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i
musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno
dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: "O
musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e
uccidilo"». Come ci si comporta con un nemico implacabile che ha
giurato di annientarti politicamente e fisicamente? Israele ha fatto
affidamento a lungo sulla deterrenza e sulla difesa. Entrambe hanno
fallito. Adesso Israele deve affrontare una situazione nuova. La sua
reazione iniziale è consistita in lanci massicci di missili e nel blocco
totale di Gaza. Il ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant ha
annunciato che «non ci saranno elettricità, cibo, carburante. Sarà un
isolamento totale».
Questo non è che
l'inizio. Credo che Netanyahu abbia deciso di procedere a un'invasione
vera e propria della Striscia di Gaza e che, in queste circostanze,
qualsiasi leader israeliano farebbe la stessa cosa. Lunedì, durante un
briefing, il generale israeliano in pensione Noam Tibon, illustre e
stimato esperto di antiterrorismo, acceso sostenitore della Soluzione
Due Stati, ha detto: «Dobbiamo spingere la guerra dentro Gaza più a
fondo possibile». Ha sostenuto che «Hamas deve pagarla» e che a Israele
non resta altra scelta se non trionfare con una «vittoria decisiva». Ha
ammesso che l'invasione sarà feroce e orribile e che potrebbe portare
all'esecuzione degli ostaggi catturati da Hamas, ma ha anche lasciato
intendere che queste spaventose conseguenze non dovrebbero intralciare
l'operazione.
Non è questo il momento
delle recriminazioni, ma le recriminazioni ci saranno. Al termine
dell'operazione a Gaza, verosimilmente ci sarà una commissione
d'inchiesta, come ci fu dopo la Guerra dello Yom Kippur cinquanta anni
fa. Adesso è prematuro supporre che cosa riveleranno le indagini, ma
stando a quello che è stato riferito – e che il governo ha smentito
immediatamente –, Israele ha ignorato ripetuti avvertimenti provenienti
dall'Egitto. Aharon Ze'evi Farkash, ex capo dell'intelligence
dell'Israel Defence Forces (Idf), accusa il governo di aver dirottato in
operazioni in Cisgiordania i soldati addetti alla difesa delle
cittadine israeliane vicine alla Striscia di Gaza. Indubbiamente, da
parte dell'intelligence c'è stato un fallimento colossale, e la reazione
dell'Idf all'invasione è stata spaventosamente lenta.
Le
guerre cambiano le nazioni. Per tutta la sua carriera, Netanyahu si è
tratteggiato come il leader più adatto a garantire la sicurezza di
Israele. Gli eventi degli ultimi giorni hanno invalidato questa sua
affermazione. Suppongo che la sua carriera politica finirà subito dopo
la guerra, aprendo così la strada a cambiamenti radicali nella politica
di Israele. —
Francesca Mannocchi, I civili intrappolati senza via di scampo così Israele punisce i miliziani di Hamas, La Stampa, 10 ottobre 2023
Il
quotidiano israeliano Haaretz, ieri mattina, titolava un durissimo
editoriale con queste parole: «Netanyahu è responsabile di questa guerra
tra Israele e Gaza». Si legge: «Il primo ministro, che si vantava della
sua vasta esperienza politica e della sua insostituibile saggezza in
materia di sicurezza, non è riuscito a identificare i pericoli verso i
quali stava consapevolmente conducendo Israele quando ha istituito un
governo di annessione ed esproprio, quando ha nominato Bezalel Smotrich e
Itamar Ben-Gvir a posizioni chiave, abbracciando al tempo stesso una
politica estera che ignorava apertamente l’esistenza e i diritti dei
palestinesi». Tesi rafforzata anche da Anshel Pfeffer, corrispondente da
Israele per The Economist, che ieri scriveva: «Netanyahu ha cercato di
ignorare Gaza durante i suoi molti anni in carica. Non ha mai fatto
progetti per il suo futuro e dopo ogni round di combattimento si è
affrettato ad occuparsi di altro. Ora sarà ricordato per sempre dagli
israeliani per questo disastro. Questa è la sua eredità».
Marco Travaglio, Dagli amici li guardi Iddio, Il Fatto, 10 ottobre 2023
Chi
ama Israele perché è l’unica democrazia del Medio Oriente, per quanto
sfigurata da 16 anni di governi Netanyahu (salvo brevi intervalli),
dovrebbe leggere i suoi principali quotidiani e prendere esempio. Da
quelli conservatori a quelli progressisti, dal Jerusalem Post ad Haaretz
al Time of Israel, sono unanimi nel puntare il dito sull’unico vero
responsabile politico della débâcle che ha regalato ad Hamas una
vittoria insperata quanto inedita: “Bibi”, il premier più corrotto e più
incapace, ma anche più longevo della storia dello Stato ebraico. Il
“Mister Security” che non ha saputo garantire la sicurezza del suo Paese
e del suo popolo, mettendo la firma sulla più cocente sconfitta dai
tempi delle due guerre in Libano. Forse che la stampa israeliana se la
fa con i terroristi di Hamas? O non sa distinguere fra aggressore e
aggredito? O è al soldo dell’iran? No, assolve semplicemente al primo
dovere dell’informazione libera: raccontare, analizzare e commentare i
fatti senza sconti per nessuno. E i fatti dicono che Israele ha tutto il
diritto di esistere nei confini tracciati dall’onu nel 1948; ha tutto
il diritto di difendersi dalle aggressioni; merita tutta la solidarietà
per le stragi e i sequestri di innocenti subiti nell’attacco
terroristico di sabato. Ma oggi, trent’anni dopo gli accordi di Oslo fra
Rabin e Arafat, non regge più la giustificazione dei territori occupati
in attesa di restituirli in cambio del riconoscimento dai Paesi arabi,
come Begin fece con Sadat a Camp David nel 1978. Anche perché,
diversamente da allora, nessun vicino di Israele può (anche se volesse)
distruggerlo. E della causa palestinese i Paesi arabi si sono sempre
bellamente infischiati.
Persino un falco e
un eroe di guerra come Ariel Sharon si era rassegnato all’idea dei due
Stati, ritirandosi da Gaza e iniziando a farlo dalla Cisgiordania, e poi
mollando la destra del Likud col fido Olmert per fondare il partito
centrista Kadima. Non per bontà, filantropia o irenismo, ma per
pragmatismo: non puoi convivere a lungo con milioni di palestinesi che
ti odiano in casa tua o alla tua porta, reprimendoli dalla culla alla
tomba e violando le risoluzioni Onu. I dati demografici sono impietosi:
Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e il
resto di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in
Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza altri 2. Ebrei e
palestinesi ormai si equivalgono e, siccome i primi fanno molti più
figli dei secondi, il sorpasso è vicino. Annettere la Cisgiordania
significherebbe consegnare in pochi anni parlamento e governo ai
rappresentanti degli arabi: la fine dello Stato ebraico. Sharon e Olmert
l’avevano capito vent’anni fa. Netanyahu neppure oggi.
Daniela Preziosi, È morto Giorgio Napolitano, il riformista che non volle strappare con Berlinguer, Domani, 22 settembre 2023
Se ne va l’ultimo dei grandi comunisti.
Che in realtà fu il primo: ad andare negli Usa, a fare il ministro
dell’interno, a credere nell’Europa. Sulla scala mobile e sul rapporto
con il Psi il dissenso con il suo segretario fu grande. Ma la lettera di
dimissioni da presidente dei deputati non fu mai consegnata
L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
è morto oggi a 98 anni, dopo che le sue condizioni di salute si erano
aggravate negli ultimi giorni. La tentazione di dire che con lui se
ne va l’ultimo prestigioso comunista italiano vivente è forte, dopo la
morte del suo carissimo Emanuele Macaluso, compagno di una vita di
battaglie. È durata un secolo a cavallo di due secoli, la vita di
Napolitano, che era nato a Napoli nel 1925 da un padre, Giovanni,
avvocato liberale di finissima cultura e Carolina Bobbio, figlia di
nobili napoletani di origine piemontese. È stato deputato, senatore,
presidente della camera, ministro, eurodeputato e due volte capo dello
stato.
Un destino incrociato, quello dei due amici di origine sociale così
diversa. Macaluso è siciliano, per aiutare la famiglia non può studiare
– è perito industriale – ma diventa un dirigente, un giornalista,
un intellettuale nella militanza di partito e nel sindacato. Napolitano
è aristocratico, colto di famiglia, anglofilo.
Sono diversissimi anche nel temperamento, sanguigno uno, imperturbabile
l’altro. Ma entrambi sono monumenti alla loro cultura politica, che fu
quella di Paolo Bufalini, Luciano Lama, Gerardo Chiaromonte e Nilde
Iotti, e che venne definita dalla sinistra ingraiana con una venatura di
disprezzo «migliorista», e «la destra Pci» perché ispirata a un
miglioramento delle condizioni della classe operaia sui valori del
socialismo democratico e antifascista del partigiano Giorgio Amendola,
in un partito che usava con disprezzo la parola «socialdemocratico» come
un sinonimo di menscevico.
Dopo la morte di Amendola, Napolitano è il capo indiscusso della
corrente. Destini incrociati, i loro, forse anche nella morte: Macaluso
se n’è andato nel gennaio del 2021 a cent’anni quasi esatti dalla
nascita del suo Pci, Napolitano se n’è andato poco più di cent’anni dopo
la nascita di Enrico Berlinguer.
Entrambe sono biografie di comunisti che volevano evolvere in
socialista il loro partito, forse salvandolo. L’occasione mancata fu la
fine del Pci, dopo la caduta del Muro di Berlino. Nel centenario della
nascita del Pci, due anni fa, tutta la vecchia guardia ha ammesso che
Macaluso e Napolitano avevano visto bene e avevano visto lungo.
Ma la battaglia fu persa, non solo per responsabilità della loro
corrente minoritaria e neanche per solo per colpa del Pci. Di
fatto storia di quel partito è andata da tutt’altra parte. Forse
spingendo da tutt’altra parte anche la storia del paese.
In realtà però è più corretto dire che se ne va non l’ultimo, ma il
“primo” comunista. Il primo a ricevere un visto per volare negli Usa nel
1978, dove va a «spiegare il Pci agli americani», come poi raccontò su
Rinascita («Il Pci spiegato agli americani: le conferenze a Harvard,
Princeton e Yale, le domande degli studenti sulla politica italiana,
l’incontro con economisti come Tobin, Modigliani e Samuelson»); in pieno
sequestro Moro.
Fu più tardi Giulio Andreotti
a rivelare di aver favorito quel viaggio per ragioni di
stato: «Napolitano potè spiegare agli americani l’evoluzione del Pci e
il senso della politica che il suo partito perseguiva in quegli
anni». Napolitano in quell’occasione spiega a chi considera il comunismo
italiano ancora un’appendice di Mosca, che «il Pci non si opponeva più
alla Nato come negli anni Sessanta». Sono le basi del compromesso
storico.
Nella famosa intervista rilasciata a Giampaolo Pansa del Corriere della
Sera pochi giorni prima delle elezioni del giugno 1976, Enrico
Berlinguer aveva già impresso quella svolta, anche se in termini
diversi: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico» aveva
detto il segretario, «non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe
l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua», sapendo
che se «all’Est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo
come piace a loro», d’altro canto in Occidente «alcuni non vorrebbero
neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Napolitano
invece scavalca l’Atlantico per esprimere una
linea di «piena e leale» solidarietà agli Stati Uniti e alla Nato;
quella che con malizia portò poi Henry Kissinger a dichiarare che
Napolitano era «my favourite communist», «il suo comunista preferito».
Napolitano
è anche il primo comunista a pensare di dimettersi per dissenso con il
suo austero e carismatico segretario sassarese, che era stato preferito a
lui come successore di Luigi Longo. Ma non era una questione personale,
era tutta politica, in un partito-chiesa in cui non era neanche
immaginabile un gesto di rottura dall’interno (quelli del gruppo del
manifesto erano stati radiati nel 1969 con l’accusa di filomaoismo).
Siamo nel 1981.
Berlinguer ha rilasciato a Eugenio Scalfari
la famosa intervista sulla questione morale. Uno schiaffo in piena
faccia per la corrente dei miglioristi che si batte per costruire un
rapporto positivo con il Psi di Craxi.
«Eravamo
entrambi sbigottiti – ricorda lo stesso Napolitano – perché in quella
clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo un’esasperazione
pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica visto che
non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che gli
altri partiti, ridotti a “macchine di potere e di clientela”,
esprimessero posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo
confrontarci».
Dopo
un mese Napolitano, in occasione dell’anniversario della morte di
Togliatti, esprime il suo dissenso sull’Unità: attraverso il Migliore
contro la linea del segretario. Un gesto fortissimo.
I
socialisti avviati al governo con la Dc, per bocca di Claudio Martelli,
sono sprezzanti. A settembre, in una riunione di direzione, i
berlingueriani accusano Napolitano, lo racconta lui stesso, di aver
favorito gli attacchi contro il segretario e di aver nobilitato «il
riformismo del Psi» in marcia verso palazzo Chigi, senza e contro i
comunisti.
L’articolo
sull’Unità, dice Adalberto Minucci, è «un errore politico», bisogna
«evitare che in un momento di crisi acuta le opinioni, lecite, di un
dirigente possano essere usate come momento di contrapposizione».
L’episodio è citato in molti saggi. Vi si sofferma Giampiero Cazzato
in «Il custode» (Castelvecchi, 2011), che racconta di un Pci capace di
ricomporre i dissensi: di lì a poco Napolitano diventa capogruppo del
gruppo comunista a Montecitorio.
Ma
le distanze riesplodono poco dopo con la riforma della scala mobile. È
Macaluso a ricordarlo, nel 2005 sul quotidiano Il Riformista. Napolitano
«con Formica, capogruppo dei socialisti, aveva trovato un’intesa per
rendere il testo accettabile anche per i comunisti. Intesa che poi venne
mandata all’aria da entrambe le parti. Ma in quel momento Berlinguer
comincia a vedere di cattivo occhio sia Napolitano sia Nilde Iotti,
allora presidente della Camera.
A Nilde Iotti
sembra rimproverare di tutelare più il governo che il suo partito,
mentre su Napolitano pesa il sospetto di morbidezza per via della sua
nota contrarietà alla linea scelta in quella fase dal Pci, durante la
dura battaglia parlamentare che precedette il referendum. Da lì in
avanti i rapporti si inasprirono a tal punto che quando Berlinguer morì
(7 giugno 1984, ndr) Napolitano aveva già in tasca la lettera di
dimissioni da capogruppo». Una lettera che però non fu mai consegnata.
E
ancora è il primo (ormai ex) comunista a ricoprire la carica di
ministro dell’interno, nel 1996, posto cruciale che solo grazie allo
sdoganamento atlantista poté ricoprire. È Romano Prodi a sceglierlo.
E
ancora e soprattutto, dieci anni dopo, Napolitano è il primo comunista a
diventare presidente della Repubblica, e sette anni dopo il primo a
essere rieletto al Colle. Gestisce la crisi del governo Prodi, nel 2007,
e il ritorno di Silvio Berlusconi
a palazzo Chigi. In una legislatura segnata dalla crisi economica,
dagli avvisi dell’Europa al governo. E dalla crisi interna della
maggioranza di centrodestra, con la scissione di Gianfranco Fini. .
Uno
degli episodi più contestati accade nella fine del 2010. Fini ha
presentato una mozione di sfiducia, Berlusconi non ha più i voti per
andare avanti ma il voto viene calendarizzata a fine anno, quando il
Cavaliere ha avuto il tempo di riacquistare – in una maniera che poi
sarà oggetto di indagini e condanne – i consensi. Secondo i
detrattori è proprio il Colle a chiedere il rallentamento di quel voto e
a dare la possibilità al governo di navigare ancora.
Chi
lavorava al suo fianco nega con forza. «L’esigenza di approvare in
Parlamento le leggi di stabilità e di bilancio, dandole la precedenza
sulla discussione di una mozione di sfiducia al governo Berlusconi,
derivava da una necessità oggettiva, di fronte alla difficile situazione
finanziaria internazionale, e si muoveva nel solco di una decisione
simile presa alla fine del 1994 dal presidente Scalfaro», racconta
Giovanni Matteoli, il dirigente e amico di una vita che poi diventerà
suo segretario.
«Del
resto, sull'importanza di dare un segnale di continuità e di rigore
approvando nei tempi stabiliti le leggi di stabilità e di bilancio per
il 2011 tutti allora convennero», «Quel che accadde poi, con la ricerca
affannosa in Parlamento di voti favorevoli al governo – la cosiddetta
"campagna acquisti"- fu un ulteriore segno della crisi delle forze
politiche, dell'indebolimento del ruolo del Parlamento e della pochezza
delle classi dirigenti».
Chi la pensa diversamente è convinto che se si fosse andati subito al voto il centrosinistra guidato da Pier Luigi Bersani avrebbe
potuto vincere. Certo Bersani non chiede il voto, perché «al Colle c’è
il vero segretario del Pd», dicono le voci di palazzo.
Altra
tesi contestata dai “napolitanos”: «Ricordo, e sarebbe difficile
scordare, che la coalizione che si opponeva alle destre e al populismo
era una riassunta nella famosa foto di Vasto, il Pd, Sel, e Italia
viva», racconta Umberto Ranieri, «Ma era coalizione striminzita che non
sarebbe stata in grado né di sconfiggere la destra né di fronteggiare il
populismo. Il risultato che arrivò nel 2013 lo dimostra. Perdemmo
milioni di voti. La strategia politica del Pd si risolveva nella
ricostituzione di uno schieramento di sinistra ristretta, i risultati
parlano chiaro. E intanto però è chiaro che il governo Monti era
inevitabile, le sue misure furono difficili ma indispensabili per
evitare il tracollo. Il Pd pagò un prezzo certo».
Per
Ranieri il “dirigismo” di Napolitano è un mito: «Napolitano è stato un
impeccabile presidente della Repubblica, rispettoso e difensore sempre
della Costituzione . È stato al Quirinale in anni molto difficili,
quelli della crisi economica. Grazie alla sua determinazione aprì una
prospettiva di salvezza per il paese. Fu evitato il rischio del
tracollo, in una situazione di crisi dei partiti, e di debolezza del
governo».
E anche
Pasquale Cascella, all’epoca era il suo portavoce, contesta la tesi di
un Napolitano interventista: «Ha messo sempre davanti a tutto il senso
delle istituzioni, è stato un uomo delle istituzioni, e però un
politico. L'esplosione della crisi del sistema politico portò a a
dilatare i poteri del presidente a fisarmonica», la definizione è di Giuliano Amato, ma è di molto precedente a questi tempi difficili.
Un
anno dopo le cose vanno diversamente. Il 5 agosto arriva la famosa
lettera della Banca comune europea a firma del presidente uscente Claude
Trichet e da quello designato Mario Draghi.
A novembre Berlusconi prende atto di non avere più una
maggioranza parlamentare alla camera. I titoli di stato sono sotto una
serie di attacchi speculativi.
Napolitano
si accorda con Berlusconi: approvata la finanziaria il premier si
dimetterà. Così avviene. Napolitano intanto ha nominato Monti senatore a
vita. Subito dopo l’approvazione della legge di Bilancio viene chiamato
a palazzo Chigi. Ed è per questa mossa che “salva” l’Italia – secondo
alcuni, la rovina secondo altri – che il New York Times definisce Napolitano "Re Giorgio", per la sua volitiva scelta di andare oltre le prerogative presidenziali e dirigere dal Quirinale la scelta.
Da
qui in avanti la sinistra si divide sul giudizio sul capo dello stato.
Di certo la mossa Monti gonfia i consenso dei Cinque stelle. Nel maggio
del 2012 alle amministrative i grillini fanno un salto di qualità, sono
250 gli eletti.
Napolitano
commenta con distacco «dalle elezioni escono motivi di riflessione per
le forze politiche e per i cittadini sul rapporto con la politica e sui
problemi di governabilità oggi a livello locale». Ma a domanda dei
cronisti sul «boom» della nuova forza politica, è lapidario: «Di boom
ricordo quello degli anni Sessanta, altri non ne vedo».
Alle
elezioni politiche del 2013 non sarà possibile non vedere il «boom»,
M5S arriva al 25 per cento. «Napolitano non li sottovalutava», spiega
oggi Cascella, «e più che preoccupato del boom dei Cinque stelle era
preoccupato del fatto che si chiamassero fuori dal sistema, e che la
politica non cercasse in qualche modo di far valere la propria ragione
d'essere rispetto alle spinte populiste».
I
grillini non lo voteranno alla sua rielezione, nel 2013, dopo la
bocciatura clamorosa di Romano Prodi e Franco Marini dalle stesse file
della coalizione, due candidature dal senso opposto entrambe firmate da
Bersani che ha guidato l’alleanza Italia bene comune alla «non
vittoria». Neanche la Sel di Nichi Vendola vota Napolitano. «Sono
Stato», è il titolo di prima del manifesto.
Nasce
il governo le larghe intese guidate da Enrico Letta. «La rielezione
sbloccò la situazione, consentendo la nascita di un governo di larga
coalizione e l'avvio delle riforme costituzionali», ricorda Matteoli,
«ma poi la sentenza di condanna definitiva di Berlusconi e le lotte
dentro la maggioranza e il Pd si scaricarono sull’azione del governo e
del Parlamento vanificando gli impegni presi».
Berlusconi,
in forza delle sentenze, decade da senatore, la destra si riunisce
davanti a palazzo Grazioli gridando al «colpo di stato». Napolitano
viene indicato come il regista della caduta del Cavaliere per via
giudiziaria da una destra ormai in confusione. Il governo di Letta
sopravvive pochi mesi.
Presto il presidente del consiglio deve cedere all’assalto politico dell’astro nascente, il nuovo segretario del Pd Matteo Renzi.
Il Colle non benedice volentieri quell’operazione. Ma Renzi, in una
cena al Quirinale in cui si autoinvita, mette l’anziano capo dello stato
di fronte all’evidenza dei numeri che stanno dalla sua parte.
Napolitano
si dimetterà allo scoccare del secondo anno del suo secondo mandato. Un
mandato accettato perché la richiesta era stata avanzata da quasi tutti
i partiti, cui si aggiunse l'appello dei Presidenti delle Regioni. Il
paese era senza un governo e con un parlamento profondamente diviso, un
alto livello dello spread e una procedura d'infrazione europea sui conti
pubblici.
Da lì fa una
vita ritirata. Ma vigile e consapevole, quasi fino all’ultimo. A gennaio
scorso ha risposto a Sergio Mattarella, che lo ha chiamato dal Colle
per le consultazioni delle imminenti elezioni; finirà con un reincarico,
e il precedente è proprio quello di Napolitano.
La sua lunga vita contiene anche molto altro. Anche la storia di un
comunista che, con i suoi compagni, diventa europeista, come ha
raccontato poi nella sua autobiografia politica. «Dal
PCI al socialismo europeo» (Laterza, 2005) accogliendo la
trasformazione della sua cultura politica con un «grave tormento
autocritico», partita dall’adesione «acritica alle posizioni negative
verso l’integrazione europea», anzi «la ripulsa», «la drastica
pregiudiziale», dominata dalla scelta di campo fra Usa e Urss.
«L’errore
maggiore», poi lo definì. Il cambio di segno avvenne negli anni 60,
«con il determinante concorso» dell’eurocomunismo di Berlinguer. Sulla
lezione di Altiero Spinelli medita in profondità: «La sua resta una
grande lezione di metodo: non chiudere le proprie analisi in alcuno
schema, confrontarsi creativamente con la realtà nella sua evoluzione,
ispirarsi tenacemente a idealità non passeggere come quelle dell'unità e
del comune destino dell'Europa, saper risollevarsi da ogni sconfitta».
Anche
per questo la storia di Napolitano è la biografia collettiva di una
parte della generazione dei comunisti che, come ancora ha scritto lui
stesso, non è «rimasta eguale al punto di partenza» ma è «passata
attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e
attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni».
«C’è
una frase di Berlinguer che di rado ho sentito richiamata», dice a
Walter Veltroni che lo intervista per un libro uscito nel 2014, «”Che
cos’è il Partito comunista italiano? È un partito comunista diverso da
tutti gli altri”. Quel concetto di diversità mi andava bene»,
ragiona, «nonostante ciò, superare quella che ormai era una crisi fatale
dell’ideologia, del movimento rivoluzionario, del processo politico del
socialismo in Unione sovietica e in quel blocco di stati… Alla morte di
Berlinguer, il mio stato d’animo fu perciò non solo quello del dolore
personale, ma quello del senso del fatale declino del partito con cui
avevamo entrambi identificato la nostra vita».
Stefano Petrucciani, Dai libri alle candidature politiche. Addio al filosofo torinese il manifesto, 21 settembre 2023
Con
Pier Aldo Rovatti, introduce il concetto di «pensiero debole» che, nel
1983, diventa un libro. Se il suo maestro Luigi Pareyson aveva importato
e sviluppato in modo profondo e originale l’esistenzialismo di Jaspers,
lui «traduce» in Italia Heidegger. Quella parte degli anni Ottanta
caratterizzata da una temperie postmodernista vede nell’autore, insieme
a Lyotard e Rorty, le punte più significative
Gianni
Vattimo non si può ridurre alla fortunata, ma anche vituperata formula
del «pensiero debole». Nel suo percorso c’è molto altro di interessante.
Dal punto di vista biografico, si può dire che Vattimo ha vissuto
un’esistenza «esposta», tutto il contrario di quella appartata che di
solito si attribuisce al filosofo tradizionale. La sua vita pubblica
comincia quando negli anni Settanta si candida alle elezioni nelle liste
del Fuori, il movimento di liberazione omosessuale. Continua con le
diverse e anche spregiudicate candidature politiche (tra l’altro anche
con Di Pietro e con i comunisti di Rizzo) e finisce nelle pagine di
cronaca con il processo che ha visto imputato il suo segretario e
compagno per «circonvenzione di incapace». Tutto si può dire, tranne che
sia stata una vita conformista.
Ma anche in filosofia, Vattimo porta il coraggio dell’innovazione.
Nato nel 1936, appartiene (come un altro grande del secondo Novecento,
Remo Bodei, che era del ’38) a una generazione filosofica che non ha
vissuto le esperienze della guerra e dell’antifascismo, e che si muove
su un terreno più aperto e libero. Come molti altri filosofi italiani
però (anzi, come quasi tutti) Vattimo costruisce la sua personalità
intellettuale attingendo a esperienze filosofiche d’oltralpe.
SE IL SUO MAESTRO Luigi Pareyson aveva importato e
sviluppato in modo profondo e originale l’esistenzialismo di Jaspers,
Vattimo «traduce» in Italia un pensiero destinato a segnare i decenni
successivi: quello del cosiddetto secondo Heidegger, dello Heidegger che
non si concentra più sull’esistenza dell’individuo e che si volge verso
l’Essere: a questi temi è dedicato il primo importante libro di Vattimo
(Essere, storia e linguaggio in Heidegger, del 1963). Ma il
filosofo che così si avvia a una brillante carriera (e che si lascia
alle spalle la parentesi in Rai, dove era stato collega di Umberto Eco e
di Furio Colombo) non può non farsi coinvolgere dal ’68 torinese,
quello degli studenti di Palazzo Campana e degli operai Fiat. Dopo un
iniziale disagio, perché è già professore incaricato e sta dall’altra
parte della barricata, Vattimo, che si era formato politicamente
nell’Azione Cattolica, si mette in sintonia con i conflitti presenti
cercando di proporne anche una chiave di lettura filosofica.
Il pensiero dell’emancipazione, però, non passa più soltanto per
Marx, ma anche e soprattutto per Nietzsche: nel 1974, Umberto Eco gli fa
pubblicare per Bompiani il grande testo nietzscheano (Il soggetto e la maschera),
il cui sottotitolo significativamente recita: «Nietzsche e il problema
della liberazione». Sono gli anni in cui l’esigenza di una liberazione
non solo politica, ma soprattutto esistenziale, attraversa i movimenti
radicali, da Lotta continua al Settantasette. Vattimo li precorre, nel
suo libro, proponendo un modo diverso di pensare i percorsi
dell’emancipazione: un modo che non esorcizza i temi del corpo, del
desiderio, della sessualità vissuta senza censure, ma anzi li pone al
centro, utilizzando come strumento di comprensione un pensiero, come
quello di Nietzsche, che la cultura di sinistra fino a quel momento
aveva tenuto prudentemente a distanza.
GUARDANDO retrospettivamente al lavoro degli anni
Settanta, Vattimo ha avuto occasione di ricordare, in più di una
intervista, che il suo intento era, per così dire, quello di scrivere la
filosofia del manifesto, cioè di un modo innovativo e diverso di fare
politica. Anche se, aggiungeva, al manifesto nessuno se n’era accorto.
La svolta verso il pensiero debole matura negli Ottanta. A motivarla,
come ha raccontato lo stesso Vattimo, c’è anche la delusione politica:
il disfacimento delle nuove sinistre, le derive verso la lotta armata,
il nuovo spirito dogmatico che le accompagna. Alla ricerca di una nuova
idea di liberazione subentra quindi, in buona sostanza, il disincanto
rispetto al «grande racconto» dell’emancipazione. La Crisi della ragione, dichiarata in un fortunato volume einaudiano curato nel 1979 da Aldo Gargani, prelude al Pensiero debole,
un’antologia dal titolo azzeccato, destinata a non passare inosservata,
che Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo pubblicano nel 1983 con
Feltrinelli. Nel frattempo era uscito anche La condizione postmoderna,
un testo influente quanto pochi che Jean Francois Lyotard aveva dato
alle stampe nel 1979. Gli anni Ottanta, ma purtroppo anche i seguenti,
sono dunque caratterizzati da una koiné postmodernista di cui Vattimo,
Lyotard e Rorty sono a mio avviso le punte più significative. Le parole
d’ordine condivise sono la critica della ragione fondativa, la fine
delle «grandi narrazioni», la tesi che non c’è una realtà, ma solo
interpretazioni, lo scetticismo sui progetti politici troppo ambiziosi,
l’elogio sempre e comunque delle «differenze», la critica di ogni idea
che appaia come universalistica o totalizzante. Rispetto a questa
litania, che sicuramente aveva le sue brave motivazioni, ma che ha fatto
anche tanti danni, Vattimo si distingue comunque per la finezza
intellettuale che, nei suoi scritti, caratterizza la presentazione delle
tesi postmoderne.
LA TESI ERMENEUTICA secondo la quale non c’è
rapporto col mondo che non sia filtrato dalle tradizioni culturali e dai
linguaggi storici, è in Vattimo solidamente radicata negli ampi studi
che egli ha dedicato a questo tema, dal libro su Schleiermacher
filosofo dell’interpretazione (Mursia 1968) al confronto decisivo con il
Gadamer di Verità e metodo e con la sua «urbanizzazione»
dell’heideggerismo. Ma nel pensiero debole declinato alla maniera di
Vattimo c’è anche un elemento teorico di matrice propriamente
heideggeriana che segna la specificità dell’approccio che caratterizza
il filosofo torinese. Per Vattimo, lo dico con le parole di una sua
intervista (ma anche i suoi scritti sono sempre molto nitidi, nonostante
la complessità delle questioni teoriche) «pensiero debole non è solo
l’apologia di una ragione non universalistica, non argomentativa. È
anche la teoria di un filo conduttore ontologico di indebolimento».
In parole semplici, la tesi che Vattimo sostiene è che non siamo solo
noi a pensare in modo diverso, ma questo indebolirsi è un aspetto della
realtà stessa, dell’essere stesso (in una qualche sintonia con il Dio
cristiano che si indebolisce fino al punto di farsi uomo). Ma qui,
paradossalmente, il pensiero debole trapassa in pura speculazione
filosofica.
IL VOLGERE DEL MILLENNIO, però, è segnato dal
declino del postmodernismo e, per Vattimo, non solo dall’esperienza
politica nel Parlamento europeo, ma anche da una rinnovata radicalità,
che lascia la sua traccia soprattutto in due libri. Il titolo del primo
fa il verso a Nietzsche: Ecce Comu. Come si ri-diventa ciò che si era (Fazi 2007). Il secondo, scritto con Santiago Zabala, è un vero e proprio manifesto: Comunismo ermeneutico
(Garzanti 2014). Si tratta quasi di un testamento filosofico e
politico, dove il pensiero debole si trasforma in un pensiero dei
deboli, e dove la critica del capitalismo neoliberista a egemonia Usa si
salda con lo sguardo verso i processi di emancipazione (complicati e
contraddittori, aggiungiamo noi) di alcuni Paesi dell’America Latina. Un
pensiero «esposto» e arrischiato, come lo era la personalità di Gianni
Vattimo.
A Schlein non manca il dono della parola. Si destreggia molto bene con le frasi. le allinea una dietro l'altra con disinvoltura ed esattezza. Come mai, allora, di fronte a certe questioni la macchinetta si inceppa? Questione di repertorio. Se il tema sul tappeto è sgradito, o scivoloso, le risorse vengono meno, le possibilità si restringono. Elly a quel punto non si vuole scoprire. Perché vuole accontentare tutti. Vuole restare al suo posto senza correre rischi. "Io ho un mandato di quattro anni". "Ce ne occuperemo quando saremo al governo". Altro che nuovo Pd. Altro che spostamento a sinistra. Il campo largo è una scelta obbligata e per il resto si vedrà. Abbiate fiducia in noi: Bersani e Zingaretti non dicevano altro, Letta si è perso dietro l'agenda Draghi, trovando appena il coraggio di scegliere la pancetta contro il guanciale. Nessuno è stato capace di prosciugare la palude. Anzi, la palude regna, continua a regnare.
Maria Teresa Meli, La Schlein e l'imbarazzo in diretta tv da Gruber tra esitazioni e slalom, Corriere della Sera, 16 settembre 2023
Puntata alquanto movimentata quella dell’altro ieri sera di Otto e mezzo. L’ospite di Lilli Gruber su La7 era Elly Schlein, affiancava la conduttrice il direttore de La Stampa Massimo Giannini. La segretaria del Pd, che aveva appena disdetto l’intervista programmata con Francesca Fagnani
sulla Rai, temendo domande personali troppo aggressive, si è trovata
più volte in difficoltà durante la trasmissione, mentre sia Gruber sia
Giannini la incalzavano con le loro domande. La puntata di mercoledì è
partita dai migranti, tema caro alla segretaria dem.
A un certo punto la conduttrice ha chiesto a Schlein: «La interrompo subito,
lei oggi ha detto, parlando di Lampedusa, che è la dimostrazione del
fallimento delle politiche di esternalizzazione del governo. Ma chi la capisce se parla così?». La leader pd ha avuto un trasalimento e poi ha spiegato che cosa intendesse: «Vuol dire che pagare i dittatori per tentare di bloccare i flussi
non solo vìola i diritti delle persone, ma non blocca nemmeno i
flussi». Quindi Gruber e Giannini hanno chiesto a Schlein se andrà
avanti sulla riduzione delle spese militari. «Ce ne occuperemo quando
saremo al governo», ha glissato la segretaria. Ma Giannini non ha voluto
mollare l’argomento: «Lei non dice una parola chiara.
Io penso che questo sia il vero limite della sua segreteria: non è che è
troppo di sinistra, è che non è chiara su alcune questioni
fondamentali».
Altra domanda, altro siparietto.
Viene chiesto a Schlein se sarà capolista in tutte le circoscrizioni
alle Europee. «L’argomento non è all’ordine del giorno». «No, no, non ci
risponde», è stata la replica corale di Gruber e Giannini. Cambio di
argomento: forse meglio parlare di «colore» (in tutti i sensi). «Per
vestirsi usa ancora la sua armocromista?», ha chiesto Gruber. «Si sono scritte un sacco di fake news.
Ho letto di camicie da 2.500 euro di Dior, che in realtà erano scontate
a 82 euro sulla Rete», è stata la replica. «Rifarebbe quell’intervista a
Vogue?», è intervenuto a quel punto Giannini. Sì, Schlein la rifarebbe: «Io non devo andare dove già mi conoscono ma come Pd dobbiamo ricostruire la nostra credibilità presso mondi che non ci hanno più guardato». Comunque c’è stata una domanda a cui la segretaria ha dato una risposta inequivocabile. Quando
Giannini le ha fatto osservare che se va sotto il 20% alle Europee
rischia di perdere la segreteria, Schlein è stata netta: «Io ho un
mandato di quattro anni».
Claudio Marazzini intervistato da Tommaso Rodano per il Fatto Quotidiano
Secondo Claudio Marazzini, professore emerito
di linguistica e presidente onorario dell’accademia della Crusca, il
problema di Elly Schlein “non è la chiarezza delle parole che usa”. Ma
un altro, forse peggiore. Lilli Gruber l’ha bacchettata per termini
oscuri come “esternalizzazione”. E ha aggiunto: “Così chi la capisce?”
Al
di là di quella parola infelice, a me sembra che gli interventi di
Schlein abbiano una certa dose di prevedibilità e semplicità. La
questione è un’altra: la reticenza. Si manifesta quando il politico non
può o non vuole dire in maniera esplicita quello che pensa. Quando
Gruber le fa una domanda diretta sulla spesa per le armi, lei non
risponde. Lo stesso, per esempio, sul termovalorizzatore di Roma, su cui
il Pd è diviso. Nessuna oscurità, semplice reticenza: è un problema di
natura retorica.
Politica, non linguistica.
Esatto,
anche se i linguisti si occupano di retorica, a partire da Aristotele e
Platone. Un altro esempio di reticenza: Schlein parla di
“redistribuzione”, ma non spiega in cosa consista: si può immaginare che
intenda una tassazione dell’asse ereditario o una patrimoniale; ma se
parli di tasse invece che di “redistribuzione” perdi una valanga di
voti. Retorica, quindi.
Come parla invece Giorgia Meloni?
Ha
un problema ricorrente: il salto a cui è costretto un politico quando
raggiunge il potere. Basti confrontare la popolaresca vivacità di Meloni
quando guidava un partito di opposizione con la cautela che manifesta
adesso che è al governo. Negli ultimi giorni è tornata a battere su
parole care alla destra tradizionale.
Ci
sono delle spie lessicali – “famiglia”, “Dio”, “patria” –, parole che
appartengono alla sfera semantica tipica dell’area culturale di Meloni.
Oggi deve contendere i voti dell’elettorato di destra alla Lega di
Salvini, deve rivendicare un’identità conservatrice e queste spie
riemergono con forza. La moderazione e l’epurazione linguistica a cui si
è sottoposta da quando è presidente del Consiglio hanno aperto uno
spazio in cui qualcuno si può inserire per occupare aree che prima
presidiava lei.
Il controllo del linguaggio e delle parole è un campo di battaglia per la conquista del potere.
La
parola è importante ma non è tutto: conta la verità, non solo la
risonanza. Nella politica italiana il peso delle parole è troppo
leggero: le promesse di quasi tutti i politici non corrispondono alle
loro azioni. Cito ancora Meloni e la promessa retorica del blocco
navale. Gli elettori hanno un basso livello di memoria: sarebbe
auspicabile una società nella quale si parlasse di meno e ci si
ricordasse di più di ciò che è stato detto.
A
Giuseppe Conte viene rimproverato il lessico da professore, una
retorica a volte legnosa, avvocatizia. Pesa il suo passato accademico,
come pure per Mario Draghi: sono politici che usano una lingua
“aristocratica” rispetto ad più diretti nel parlare al popolo, come
Meloni e Salvini. Penso che sia una caratteristica a cui non potrebbero
rinunciare nemmeno se volessero.
Giuliano Giovine, Re dei lavoratori e re dei vagabondi. I bottai di Canelli e dell'astigiano (1890-1945), Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2023
Il libro offre ciò che il titolo lascia presagire. La
storia appassionata di una categoria sociale in una zona periferica del
Piemonte. Periferica in genere, ma non per i bottai. Canelli si rivela nel
corso del tempo come la capitale italiana dei bottai, il posto in cui questa
categoria ha ottenuto il trattamento migliore.
Si comincia dai fatti, da ciò che questi uomini di mestiere hanno combinato
negli anni, come si sono organizzati, quali lotte hanno sostenuto, come hanno
guardato al mondo circostante, quali alleanze hanno stretto, quali risultati
hanno conseguito. Sarebbe questa una storia in forma narrativa, con la
successione degli eventi. Se non che la prosa non è propriamente quella del
resoconto freddo e distaccato. Il libro ha una forma corale, a parlare sono
spesso i personaggi medesimi. Qui domina la voce solista di un bottaio che si
fa giornalista e scrive delle corrispondenze da Canelli per il settimanale
astigiano “Il Galletto”, Filippo Cirio. Questi viene presentato alle pagine
33-35 dalla figlia Teresa. A scuola si è fermato alla terza elementare ma ha
una buona dimestichezza con la penna e con la letteratura. I suoi articoli sono
citati spesso nel libro e forniscono una sorta di controcanto epico all’intera
vicenda. Ecco due brani tanto per dare un’idea:
“Coraggio, dunque, amici e compagni, e facciamo vedere a questi clerici
feudatari, i quali ci hanno vilmente calunniati per farci sciogliere e
villipendere, ma che però lasciano libero campo ai clericali, qui in paese, di
unirsi, e fare feste sociali degne del secolo XIV; facciamo loro vedere che non
siamo invidiosi della loro libertà, che disprezziamo le insulse, stupide
invettive da loro lanciateci, che sappiamo, anche divisi, conservare quell’entusiasmo
che ci dà la coscienza nel vero, nel grande, nel santo ideale per il quale
combattiamo” (p. 52).
“Mi sembra ancor di vederlo quel povero giovane barcollante, il sangue del
quale mi colava sulle mani!
Egli rappresentava in quel momento la plebe cieca, sofferente e calpestata ed
io sentivo per lui la pietà immensa e la venerazione del simbolo che esso
incarnava” (p. 85). Cirio sa poi usare del sarcasmo e dell’ironia, è dotato di
un respiro storico e riesce a collocare i singoli eventi in una prospettiva più
ampia.
Veniamo ora alla seconda parte. Qui l’aspetto corale è presente in pieno, la
storia orale prende il sopravvento sulla documentazione scritta, sono gli
stessi bottai sopravvissuti che parlano, le testimonianze si intrecciano per
dar vita a un vasto affresco centrato sull’universo di una aristocrazia operaia,
sulla sua cultura, sul suo modo di vita. Dall’epica di Filippo Cirio si passa
all’elegia, il ricordo del tempo passato è doloroso e fiero al tempo stesso. Si
comincia con le biografie di due imprenditori. Ogni volta è un figlio o una
figlia a raccontare, e quella che emerge è una immagine in chiaroscuro. Poi si
passa al destino di una cooperativa. Pagine dolenti sono dedicate all’apprendistato
dei giovani bottai. Infine, si arriva al mestiere del bottaio. In questa che è
la parte finale del libro l’operazione storiografica trova il suo compimento e
la sua esaltazione. Al resoconto scrupoloso dei fatti si sostituisce la
rievocazione della vita e delle persone. E la vita si ricostituisce
coinvolgendo il lettore in una sorta di viaggio agli inferi. I protagonisti
della vicenda prendono la parola ed è come se il tempo non fosse mai passato
del tutto. Giuliano Giovine fa la sua parte completando e sviluppando il
pensiero degli intervistati. Straordinarie per questo sono le considerazioni
sulla pratica dell’assenza dal lavoro il lunedì e sulle osterie: “Il lunedì e
il cottimo: un binomio indissolubile in cui alle sfrenatezze del divertimento
del non lavoro facevano da contraltare i ritmi forsennati del tempo di lavoro,
in un’inesausta e folle alternanza di piacere e fatica, di orgoglio e rimpianto”
(p. 222). Più in là la tradizione permanente del lunedì libero viene vista come
un rito di risarcimento. Nella prima parte erano state elencate le diverse
mansioni che componevano il mestiere del bottaio (p.78). Nella seconda parte
queste mansioni vengono riprese e descritte con cura, una per una (pp.
173-199).
Molto ci sarebbe da dire sul ruolo del socialismo nella lotta per l’emancipazione
dei bottai. In fondo massimalismo e riformismo coesistevano. Non è dato sapere –
scrive l’autore – quanto la dottrina marxista della proletarizzazione
ineluttabile fosse condivisa all’interno del Partito Socialista canellese (p.
64).
Una curiosa tendenza stilistica porta nei racconti dei protagonisti a adottare
il metodo della ripetizione, diretta o metaforica, con o senza rovesciamento
della frase, per porre termine a un racconto. Il senso ultimo riassunto in una
formula che deve rimanere impressa. Shakespeare riflette uno scetticismo assai
diffuso, quando afferma: “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero
commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua
ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di
rumore e di furore, che non significa nulla” (Macbeth, atto V, scena V). Il
libro si basa su una convinzione opposta: sono i sentimenti e i pensieri degli
uomini che danno un senso alla vita. Bisogna reagire all’insensatezza esteriore
degli eventi. Dare un senso, restituire alla memoria sono gli atti nei quali si
esprimono la forza intellettuale e la pietà profonda di chi è venuto dopo e
vuole capire ciò che è stato una volta e per sempre.
Nicola Mirenzi, Onore al merito, Il Foglio, 7 settembre 2023 Intervista a Luca Ricolfi
...Si dovrebbero recuperare allora le culture
antiche? “Non penso né che si possa, né che sia giusto farlo. Io sono
per andare avanti, ma custodendo il buono che c’è – anzi che c’era – nel
mondo che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ad esempio: la
trasmissione della cultura, la capacità di differire la gratificazione,
il rispetto dei ruoli, l’esercizio dell’autorità nell’educazione dei
figli. Più in generale, l’accettazione del limite, che è il vero nucleo
della visione conservatrice del mondo, da Edmund Burke a Roger Scruton,
da Raymond Aron a Simone Weil”.
In Italia,
però, i conservatori hanno un handicap. “Nel nostro paese non si
scontrano in realtà due grandi visioni del mondo. Ma ne esiste solo una:
quella progressista. E’ la sinistra che conduce le battaglie di
civiltà: afferma diritti, combatte privilegi, sempre in nome di un’idea
più alta. La destra non fa altro che reagire a questa spinta. Rintuzzare
gli eccessi. Scalpitare per non essere soffocata. La destra non ha
un’idea di mondo alternativa a quello progressista. Si limita a
schierarsi contro. Passando spesso per reazionaria, oscurantista,
appunto perché non oppone a un’idea di mondo un’altra idea di mondo, ma
si limita a reagire all’unica idea in campo. Ecco in cosa consiste la
vera egemonia culturale della sinistra. Non il potere. Non le poltrone.
Non i ruoli. Ma un’idea di civiltà”.
La
difesa della cultura come strumento di emancipazione, “abbandonata dai
progressisti”, “non ancora raccolta” dalla destra. “Distinguere don
Milani dal ‘donmilanismo’”. Parla l’autore de “La rivoluzione del
merito”, un riformista radicale