giovedì 14 settembre 2023

I bottai di Canelli

 

Giuliano Giovine, Re dei lavoratori e re dei vagabondi. I bottai di Canelli e dell'astigiano (1890-1945), Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2023 

Il libro offre ciò che il titolo lascia presagire. La storia appassionata di una categoria sociale in una zona periferica del Piemonte. Periferica in genere, ma non per i bottai. Canelli si rivela nel corso del tempo come la capitale italiana dei bottai, il posto in cui questa categoria ha ottenuto il trattamento migliore.
Si comincia dai fatti, da ciò che questi uomini di mestiere hanno combinato negli anni, come si sono organizzati, quali lotte hanno sostenuto, come hanno guardato al mondo circostante, quali alleanze hanno stretto, quali risultati hanno conseguito. Sarebbe questa una storia in forma narrativa, con la successione degli eventi. Se non che la prosa non è propriamente quella del resoconto freddo e distaccato. Il libro ha una forma corale, a parlare sono spesso i personaggi medesimi. Qui domina la voce solista di un bottaio che si fa giornalista e scrive delle corrispondenze da Canelli per il settimanale astigiano “Il Galletto”, Filippo Cirio. Questi viene presentato alle pagine 33-35 dalla figlia Teresa. A scuola si è fermato alla terza elementare ma ha una buona dimestichezza con la penna e con la letteratura. I suoi articoli sono citati spesso nel libro e forniscono una sorta di controcanto epico all’intera vicenda. Ecco due brani tanto per dare un’idea:
“Coraggio, dunque, amici e compagni, e facciamo vedere a questi clerici feudatari, i quali ci hanno vilmente calunniati per farci sciogliere e villipendere, ma che però lasciano libero campo ai clericali, qui in paese, di unirsi, e fare feste sociali degne del secolo XIV; facciamo loro vedere che non siamo invidiosi della loro libertà, che disprezziamo le insulse, stupide invettive da loro lanciateci, che sappiamo, anche divisi, conservare quell’entusiasmo che ci dà la coscienza nel vero, nel grande, nel santo ideale per il quale combattiamo” (p. 52).
“Mi sembra ancor di vederlo quel povero giovane barcollante, il sangue del quale mi colava sulle mani!
Egli rappresentava in quel momento la plebe cieca, sofferente e calpestata ed io sentivo per lui la pietà immensa e la venerazione del simbolo che esso incarnava” (p. 85). Cirio sa poi usare del sarcasmo e dell’ironia, è dotato di un respiro storico e riesce a collocare i singoli eventi in una prospettiva più ampia.  
Veniamo ora alla seconda parte. Qui l’aspetto corale è presente in pieno, la storia orale prende il sopravvento sulla documentazione scritta, sono gli stessi bottai sopravvissuti che parlano, le testimonianze si intrecciano per dar vita a un vasto affresco centrato sull’universo di una aristocrazia operaia, sulla sua cultura, sul suo modo di vita. Dall’epica di Filippo Cirio si passa all’elegia, il ricordo del tempo passato è doloroso e fiero al tempo stesso. Si comincia con le biografie di due imprenditori. Ogni volta è un figlio o una figlia a raccontare, e quella che emerge è una immagine in chiaroscuro. Poi si passa al destino di una cooperativa. Pagine dolenti sono dedicate all’apprendistato dei giovani bottai. Infine, si arriva al mestiere del bottaio. In questa che è la parte finale del libro l’operazione storiografica trova il suo compimento e la sua esaltazione. Al resoconto scrupoloso dei fatti si sostituisce la rievocazione della vita e delle persone. E la vita si ricostituisce coinvolgendo il lettore in una sorta di viaggio agli inferi. I protagonisti della vicenda prendono la parola ed è come se il tempo non fosse mai passato del tutto. Giuliano Giovine fa la sua parte completando e sviluppando il pensiero degli intervistati. Straordinarie per questo sono le considerazioni sulla pratica dell’assenza dal lavoro il lunedì e sulle osterie: “Il lunedì e il cottimo: un binomio indissolubile in cui alle sfrenatezze del divertimento del non lavoro facevano da contraltare i ritmi forsennati del tempo di lavoro, in un’inesausta e folle alternanza di piacere e fatica, di orgoglio e rimpianto” (p. 222). Più in là la tradizione permanente del lunedì libero viene vista come un rito di risarcimento. Nella prima parte erano state elencate le diverse mansioni che componevano il mestiere del bottaio (p.78). Nella seconda parte queste mansioni vengono riprese e descritte con cura, una per una (pp. 173-199).
Molto ci sarebbe da dire sul ruolo del socialismo nella lotta per l’emancipazione dei bottai. In fondo massimalismo e riformismo coesistevano. Non è dato sapere – scrive l’autore – quanto la dottrina marxista della proletarizzazione ineluttabile fosse condivisa all’interno del Partito Socialista canellese (p. 64).
Una curiosa tendenza stilistica porta nei racconti dei protagonisti a adottare il metodo della ripetizione, diretta o metaforica, con o senza rovesciamento della frase, per porre termine a un racconto. Il senso ultimo riassunto in una formula che deve rimanere impressa. Shakespeare riflette uno scetticismo assai diffuso, quando afferma: “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla” (Macbeth, atto V, scena V). Il libro si basa su una convinzione opposta: sono i sentimenti e i pensieri degli uomini che danno un senso alla vita. Bisogna reagire all’insensatezza esteriore degli eventi. Dare un senso, restituire alla memoria sono gli atti nei quali si esprimono la forza intellettuale e la pietà profonda di chi è venuto dopo e vuole capire ciò che è stato una volta e per sempre.  

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