Giuliano Giovine, Re dei lavoratori e re dei vagabondi. I bottai di Canelli e dell'astigiano (1890-1945), Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2023
Il libro offre ciò che il titolo lascia presagire. La
storia appassionata di una categoria sociale in una zona periferica del
Piemonte. Periferica in genere, ma non per i bottai. Canelli si rivela nel
corso del tempo come la capitale italiana dei bottai, il posto in cui questa
categoria ha ottenuto il trattamento migliore.
Si comincia dai fatti, da ciò che questi uomini di mestiere hanno combinato
negli anni, come si sono organizzati, quali lotte hanno sostenuto, come hanno
guardato al mondo circostante, quali alleanze hanno stretto, quali risultati
hanno conseguito. Sarebbe questa una storia in forma narrativa, con la
successione degli eventi. Se non che la prosa non è propriamente quella del
resoconto freddo e distaccato. Il libro ha una forma corale, a parlare sono
spesso i personaggi medesimi. Qui domina la voce solista di un bottaio che si
fa giornalista e scrive delle corrispondenze da Canelli per il settimanale
astigiano “Il Galletto”, Filippo Cirio. Questi viene presentato alle pagine
33-35 dalla figlia Teresa. A scuola si è fermato alla terza elementare ma ha
una buona dimestichezza con la penna e con la letteratura. I suoi articoli sono
citati spesso nel libro e forniscono una sorta di controcanto epico all’intera
vicenda. Ecco due brani tanto per dare un’idea:
“Coraggio, dunque, amici e compagni, e facciamo vedere a questi clerici
feudatari, i quali ci hanno vilmente calunniati per farci sciogliere e
villipendere, ma che però lasciano libero campo ai clericali, qui in paese, di
unirsi, e fare feste sociali degne del secolo XIV; facciamo loro vedere che non
siamo invidiosi della loro libertà, che disprezziamo le insulse, stupide
invettive da loro lanciateci, che sappiamo, anche divisi, conservare quell’entusiasmo
che ci dà la coscienza nel vero, nel grande, nel santo ideale per il quale
combattiamo” (p. 52).
“Mi sembra ancor di vederlo quel povero giovane barcollante, il sangue del
quale mi colava sulle mani!
Egli rappresentava in quel momento la plebe cieca, sofferente e calpestata ed
io sentivo per lui la pietà immensa e la venerazione del simbolo che esso
incarnava” (p. 85). Cirio sa poi usare del sarcasmo e dell’ironia, è dotato di
un respiro storico e riesce a collocare i singoli eventi in una prospettiva più
ampia.
Veniamo ora alla seconda parte. Qui l’aspetto corale è presente in pieno, la
storia orale prende il sopravvento sulla documentazione scritta, sono gli
stessi bottai sopravvissuti che parlano, le testimonianze si intrecciano per
dar vita a un vasto affresco centrato sull’universo di una aristocrazia operaia,
sulla sua cultura, sul suo modo di vita. Dall’epica di Filippo Cirio si passa
all’elegia, il ricordo del tempo passato è doloroso e fiero al tempo stesso. Si
comincia con le biografie di due imprenditori. Ogni volta è un figlio o una
figlia a raccontare, e quella che emerge è una immagine in chiaroscuro. Poi si
passa al destino di una cooperativa. Pagine dolenti sono dedicate all’apprendistato
dei giovani bottai. Infine, si arriva al mestiere del bottaio. In questa che è
la parte finale del libro l’operazione storiografica trova il suo compimento e
la sua esaltazione. Al resoconto scrupoloso dei fatti si sostituisce la
rievocazione della vita e delle persone. E la vita si ricostituisce
coinvolgendo il lettore in una sorta di viaggio agli inferi. I protagonisti
della vicenda prendono la parola ed è come se il tempo non fosse mai passato
del tutto. Giuliano Giovine fa la sua parte completando e sviluppando il
pensiero degli intervistati. Straordinarie per questo sono le considerazioni
sulla pratica dell’assenza dal lavoro il lunedì e sulle osterie: “Il lunedì e
il cottimo: un binomio indissolubile in cui alle sfrenatezze del divertimento
del non lavoro facevano da contraltare i ritmi forsennati del tempo di lavoro,
in un’inesausta e folle alternanza di piacere e fatica, di orgoglio e rimpianto”
(p. 222). Più in là la tradizione permanente del lunedì libero viene vista come
un rito di risarcimento. Nella prima parte erano state elencate le diverse
mansioni che componevano il mestiere del bottaio (p.78). Nella seconda parte
queste mansioni vengono riprese e descritte con cura, una per una (pp.
173-199).
Molto ci sarebbe da dire sul ruolo del socialismo nella lotta per l’emancipazione
dei bottai. In fondo massimalismo e riformismo coesistevano. Non è dato sapere –
scrive l’autore – quanto la dottrina marxista della proletarizzazione
ineluttabile fosse condivisa all’interno del Partito Socialista canellese (p.
64).
Una curiosa tendenza stilistica porta nei racconti dei protagonisti a adottare
il metodo della ripetizione, diretta o metaforica, con o senza rovesciamento
della frase, per porre termine a un racconto. Il senso ultimo riassunto in una
formula che deve rimanere impressa. Shakespeare riflette uno scetticismo assai
diffuso, quando afferma: “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero
commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua
ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di
rumore e di furore, che non significa nulla” (Macbeth, atto V, scena V). Il
libro si basa su una convinzione opposta: sono i sentimenti e i pensieri degli
uomini che danno un senso alla vita. Bisogna reagire all’insensatezza esteriore
degli eventi. Dare un senso, restituire alla memoria sono gli atti nei quali si
esprimono la forza intellettuale e la pietà profonda di chi è venuto dopo e
vuole capire ciò che è stato una volta e per sempre.
Nessun commento:
Posta un commento