Un fenomeno che merita una certa attenzione è dato dal ritorno dell'antifascismo in periferia per merito del centrodestra in Piemonte. Accade a Rivoli dove il sindaco di Forza Italia Andrea Tragaioli celebra il 25 aprile con queste parole:
Un fenomeno che merita una certa attenzione è dato dal ritorno dell'antifascismo in periferia per merito del centrodestra in Piemonte. Accade a Rivoli dove il sindaco di Forza Italia Andrea Tragaioli celebra il 25 aprile con queste parole:
Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924.
Lo attesero sottocasa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L'onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l'ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all'ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.
Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell'infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania. In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l'omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944. Fosse Ardeatine, Sant'Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati". "Queste due concomitanti ricorrenze luttuose - primavera del '24, primavera del '44 - proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica - non soltanto alla fine o occasionalmente - un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell'ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l'argomento in campagna elettorale la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l'esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola "antifascismo" in occasione del 25 aprile 2023)". "Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell'anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola - antifascismo - non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.
Com’è noto, Italo Calvino ha pubblicato articoli sull’Unità negli anni tra il 1947 e il 1956. Alcuni di questi sono stati riveduti e corretti dall’autore e ristampati in Ultimo viene il corvo (1949) e in Racconti (1956). Qui vengono presentati in versione originale quelli presenti già nelle due raccolte, ma usciti in un primo tempo sull’Unità di Torino.
Si
tratta di racconti che hanno alcune caratteristiche comuni. I
protagonisti sono in genere dei marginali; lo stile della scrittura
mescola un realismo minuto alla fantasia; una grande attenzione è
riservata alla natura e agli animali; il paesaggio sullo sfondo in molti
casi appartiene alla riviera ligure di Ponente ed è ritratto con
estrema precisione naturalistica. Sono stati aggiunti altri articoli di
vario genere: un pezzo sul biologo Lysenko permette di mostrare quanto
fosse profonda l’adesione dello scrittore al comunismo staliniano del
suo tempo; altri articoli sono stati ripresi come pezzi di bravura
letteraria ancor prima che giornalistica: due recensioni (una per
Sartre, l’altra per Primo Levi), il resoconto di una partita di calcio
vista dalla parte della città, il reportage sul set di Riso amaro e La gran bonaccia delle Antille,
uscito nel 1957 su Città aperta; quest’ultimo è un racconto di tipo
allegorico. Ha per oggetto la politica del partito comunista italiano
nel dopoguerra e segna il distacco dello scrittore da quella esperienza.
La collaborazione di Calvino con l’Unità inizia nel 1946. L’anno dopo lo
scrittore è assunto dalla casa editrice Einaudi dove si occupa
dell’ufficio stampa e pubblicità. Alla fine di aprile 1948 diventa
invece redattore dell’Unità con l’incarico di curare la terza pagina.
Nel settembre 1949 c’è il ritorno all’Einaudi. Si chiude allora una fase
della sua attività letteraria. Stando a ciò che afferma Domenico
Scarpa, il 1948, il 1949, il 1950, il 1951 segnano per l’autore una
“rarefazione della produzione narrativa”.
Ancora qualche parola sul
rapporto con il paesaggio nei racconti di quel momento aurorale merita di
essere spesa. Quello che nell’opera compiuta appare come un elemento di
contorno è invece primordiale nel processo creativo. Si veda per questo la
prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno (1947): “Il mio
paesaggio era qualcosa di gelosamente mio. (…) Io ero della Riviera di Ponente;
dal paesaggio della mia città – Sanremo – cancellavo polemicamente tutto il
litorale turistico – lungomare con palmizi, casinò, alberghi, ville – quasi vergognandomene;
cominciavo dai vicoli della Città vecchia, risalivo per i torrenti, scansavo i
geometrici campi dei garofani, preferivo le ‘fasce’ di vigna e d’oliveto coi
vecchi muri a secco sconnessi, m’inoltravo per le mulattiere sopra i dossi
gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi i castagni, e così ero
passato dal mare – sempre visto dall’alto, una striscia tra due quinte di verde
– alle valli tortuose delle Prealpi liguri. – Avevo un paesaggio. Ma per
poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a
qualcos’altro: a delle persone, a delle storie “.
Infine, bisogna rendere conto
della grazia che informa i racconti in particolare. Italo Calvino è uno
scrittore che cambia periodicamente il suo stile. Due elementi permangono come dati
immutabili: il linguaggio e la motivazione ultima della scrittura. Il
linguaggio è limpido e preciso, assai leggibile. La motivazione ultima della scrittura
è il bisogno inesausto di comprendere e di conoscere il mondo. Altre cose
mutano da una fase all’altra della produzione letteraria. All’inizio prevale un
realismo associato a una modalità fiabesca dell’invenzione. Già questo instaura
una atmosfera di incanto che si perde tra le righe. Il lettore è coinvolto
senza sapere bene perché. E poi c’è il lato rivelatore di un procedimento che
serve a superare una difficoltà nascosta. Calvino in un primo tempo non riesce a rappresentare la
realtà in modo frontale. Anche il riferimento alla sua biografia gli appare
involuto e artificioso. Presto individua una via d’uscita nell’approccio
indiretto al mondo e alle cose. Ed ecco lo scrittore da giovane, o prima
maniera se si preferisce. Una naturalezza leggera, segnata dal distacco e al
tempo stesso da una vicinanza in seconda battuta al senso della vita. Tutto questo viene
chiarito e spiegato dall’autore nella già citata prefazione del 1964 al Sentiero
dei nidi di ragno: “ogni volta che si è stati attori o testimoni d’un’epoca
storica ci si sente presi da una responsabilità speciale… A me questa
responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e
solenne per le mie forze. E allora proprio per non lasciarmi mettere in
soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio.
Tutto doveva essere visto dagli occhi di un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l'aspro sapore, il ritmo. (…) Il Sentiero dei nidi di ragno è nato da questo senso di nullatenenza
assoluta, per metà patita fino allo strazio, per metà supposta e ostentata. Se
un valore riconosco a questo libro è lì: l’immagine di una forza vitale ancora
oscura in cui si saldano l’indigenza del “troppo giovane” e l’indigenza degli
esclusi e dei reietti”. Ecco il segreto di una scrittura che lascia intravedere
una segreta armonia. Segreta e nascosta. In questo momento aurorale della sua
carriera lo scrittore ritrova l’impulso epico di altri tempi. In fasi e momenti
successivi dell’opera calviniana la storia e il progresso lasceranno il posto a
qualche filo residuo di speranza, come nelle Città invisibili (1972). L'ultimo libro, le Lezioni americane, uscite
postume (1988), sembra comportare tra le altre cose un bilancio dell’intero
percorso compiuto dall’opera dello scrittore. Il primo capitolo del libro ha
per titolo la leggerezza. L’ultimo ragiona della molteplicità. Su Calvino
autore molteplice convergono le analisi di Domenico Scarpa e Marco Belpoliti,
per non parlare delle conclusioni raggiunte dalla figlia Giovanna.
Nella versione poi pubblicata in Ultimo viene il corvo manca la parte riservata alla figura di Melpomene e le citazioni carducciane sono più corte. Per il resto la prospettiva resta inattesa. Sono i vecchi che non sopportano i giovani, rendendo più radicale l'emarginazione alla fine. La parte del fiabesco è affidata ai versi di Carducci che segnalano una volontà di evasione. I libri sono oggetti persi sullo sfondo.
Italo Calvino, I figli poltroni, l'Unità edizione piemontese, 8 gennaio 1948
All’alba io e mio fratello dormiamo con le facce affondate nei guanciali, e già si sentono i passi
chiodati di nostro padre che gira per le stanze. Nostro padre quando s’alza fa molto rumore, forse
apposta, e fa in modo di far le scale con le scarpe chiodate su e giù venti volte, tutte inutili. Forse è
tutta la sua vita così, uno spreco di forze, un gran lavoro inutile, e forse lo fa per protestare contro
noi due, tanto gli facciamo rabbia.
Mia madre non fa rumore ma è già in piedi anche lei in quella grande cucina, ad attizzare, a
sbucciare con quelle mani che diventano sempre più tagliuzzate e nere, e a nettare vetri e mobili, a
cincischiare nei panni. É una protesta contro di noi anche questa, di accudire sempre zitta e tirare
avanti la casa senza serve.
- Vendetevela, la casa e mangiamoci i soldi, - dico io, stringendomi nelle spalle quando mi
angosciano che non si può più andare avanti, ma mia madre continua a sfaticare zitta, mattina e sera
che non si sa quando dorme, e intanto le crepe s’aprono più lunghe nei soffitti e file di formiche
costeggiano i muri, e le erbe e i rovi salgono dal giardino incolto Forse tra poco della nostra casa
non resterà che una rovina coperta di rampicanti. Ma mia madre la mattina non viene a dire di
alzarci perché sa che tanto è inutile e quell’accudire zitta zitta con la casa che le cade addosso è il
suo modo di perseguitarci.
Mio padre invece alle sei già spalanca la nostra porta in cacciatora e gambali e grida: - Io vi
bastono! Pelandroni! In questa casa tutti si lavora tranne voi! Pietro, alzati se non vuoi che
t’impicchi! Fa’ alzare quel pendaglio di forca di tuo fratello Andrea!
Noi l’avevamo già sentito avvicinarsi nel sonno e stiamo con le facce sepolte nei guanciali e
nemmeno ci voltiamo. Protestiamo con grugniti ogni tanto, se tarda a smettere. Ma presto se ne va:
sa che tutto è inutile, che è tutta una commedia la sua, una cerimonia rituale per non dichiararsi
vinto.
Noi riannaspiamo nel sonno: mio fratello, il più delle volte, non s’è nemmeno svegliato, tanto ci
ha fatto l’abitudine e se n’infischia. Egoista e insensibile, è, mio fratello: alle volte mi fa rabbia. Io
faccio come lui, ma almeno capisco che non andrebbe fatto così e il primo ad esserne scontento
sono io. Pure continuo, ma con rabbia.
- Cane, - dico a mio fratello Andrea, - cane, ammazzi tuo padre e tua madre -. Lui non risponde:
sa che sono un ipocrita e un buffone, che più fannullone di me non c’è nessuno.
Di lì a dieci minuti, venti, mio padre è di nuovo lì dalla porta che s’angoscia. Adesso usa un altro
sistema: delle proposte quasi con indifferenza, bonarie: una commedia che fa pietà. Dice: - Allora
chi è che viene con me a San Cosimo? C’è da legare le viti.
San Cosimo è la nostra campagna. Tutto ci secca e non c’è braccia né soldi per mandarla avanti.
- C’è da scavare le patate. Vieni tu Andrea? Eh, vieni tu? Dico a te, Andrea. C’è da girare l’acqua
nei fagioli. Vieni, allora?
Andrea leva la bocca dal cuscino, dice: - No, - e dorme.
- Perché? - mio padre fa ancora la commedia, - era deciso Pietro? Vieni tu, Pietro?
Poi fa ancora una sfuriata e ancora si calma e parla delle cose che ci sono da fare a San Cosimo
come se fosse inteso che venissimo. Cane, io penso di mio fratello, cane, potrebbe alzarsi e dargli
una soddisfazione una volta, povero vecchio. Ma addosso non mi sento nessuna spinta ad alzarmi e
mi sforzo di farmi riprendere dal sonno che se n’è già andato.
- Bene, fate presto che vi aspetto, - dice nostro padre e se ne va come se fossimo già d’accordo.
Lo sentiamo camminare e sbraitare a basso, preparandosi i concimi, il solfato, le sementi da portare
in su; ogni giorno parte e ritorna carico come un mulo.
Già pensiamo che sia partito ed eccolo che grida ancora dal fondo delle scale: - Pietro! Andrea!
Cristo di Dio, non siete pronti?
É l’ultima sua gridata: poi sentiremo i suoi passi ferrati dietro la casa, sbattere il cancelletto, e lui
allontanarsi scatarrando e gemendo per la stradina.
Ora si può ripigliare un sonno filato, ma io non riesco a riaddormentarmi e penso a mio padre che
sale carico per la mulattiera scatarrando, e poi sul lavoro che s’infuria contro i manenti che gli
rubano e lasciano tutto andare alla malora. E guarda le piante e i campi, e gli insetti che rodono e
scavano dappertutto e il giallo delle foglie e il fitto dell’erbaccia, tutto il lavoro della sua vita che va
in rovina come i muri delle fasce che diroccano a ogni pioggia, e sacramenta contro i suoi figli.
Cane, dico pensando a mio fratello, cane. Tendendo l’orecchio mi arriva da basso qualche
acciottolare, qualche cadere in terra di manico di scopa. Mia madre è sola in quella enorme cucina e
il giorno appena schiarisce i vetri delle finestre e lei sfatica per gente che le volta le spalle. Così
penso, e dormo.
Non sono ancora le dieci che è nostra madre a gridare, dalle scale: - Pietro! Andrea! Sono già le
dieci! - Ha una voce molto arrabbiata, come si fosse stizzita d’una cosa inaudita, ma è così tutte le
mattine. - Sìii... - gridiamo. E restiamo a letto ancora una mezz’ora, ormai svegli, per abituarci
all’idea di alzarci.
Poi io comincio a dire: - Dài, svegliati, Andrea, alé, alziamoci. Su, Andrea, comincia a alzarti -.
Andrea grugnisce.
Alla fine siamo in piedi con molti sbuffi e stiramenti. Andrea gira in pigiama con movimenti da
vecchio, la testa tutta arruffata e gli occhi mezzo ciechi ed è già lì che lecca la cartina e si mette a
fumare. Fuma alla finestra, poi comincia a lavarsi ed a sbarbarsi.
Intanto ha incominciato a borbottare e a poco a poco dal borbottio ne esce fuori un canto. Mio
fratello ha voce da baritono ma in compagnia è sempre il più triste e mai che canti. Invece da solo,
mentre si rade o fa il bagno attacca uno di quei suoi motivi cadenzati a voce cupa. Canzoni non ne
sa e ci dà sempre dentro in una poesia di Carducci imparata da bambino:
Sul castello di Verona -
batte il sole a mezzogiorno
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno
Io son di là che mi vesto e faccio coro, senz’allegria, con una specie di violenza:
Mormorando per l’aprico
verde il grande Adige va
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.
Mio fratello continua a cantare senza saltare una strofa fino alla fine, lavandosi la testa e spazzolandosi le scarpe e accanendocisi come fosse una questione di vita.
Nero come un corvo vecchio
e negli occhi aveva carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Più canta e più io mi riempio di rabbia e m’inferocisco anch’io a cantare:
Mala sorte è questa mia
mala bestia mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò.
É l’unico momento che facciamo del chiasso. Poi stiamo zitti quasi per tutta la giornata.
Scendiamo giù e ci scaldiamo il latte, poi dentro ci inzuppiamo pane e mangiamo con grande
rumore. Mia madre ci è intorno e parla lamentandosi ma senza insistenza di tutte le cose che ci sono
da fare, delle commissioni che occorrerebbero. - Sì, sì, - rispondiamo e ce ne dimentichiamo subito.
Al mattino di solito non esco, resto a girare per i corridoi con le mani in tasca, o riordino la
biblioteca. Da tempo non compro più libri: ci vorrebbero troppi soldi e poi ho lasciato perdere
troppe cose che m’interessavano e se mi ci rimettessi vorrei leggere tutto e non ne ho voglia. Ma
continuo a riordinare quei pochi libri che ho nello scaffale: italiani, francesi, inglesi, o per
argomento: storia, filosofia, romanzi, oppure tutti quelli rilegati insieme, e le belle edizioni, e quelli
malandati da una parte.
Mio fratello invece va al caffè Imperia a vedere giocare al biliardo. Non gioca perché non è
capace: sta ore e ore a vedere i giocatori, a seguire la biglia negli effetti, nei rinterzi, fumando,
senz’appassionarsi, senza scommettere perché non ha soldi. Alle volte gli dànno da segnare i punti,
ma spesso si distrae e sbaglia. Fa qualche piccolo commercio, quanto gli basta per comprarsi da
fumare; da sei mesi ha fatto domanda per un posto nell’azienda dell’acquedotto che gli darebbe da
mantenersi, ma non si dà da fare per averlo, tanto il mangiare per ora non gli manca.
A pranzo mio fratello arriva tardi, e mangiamo zitti tutt’e due. I nostri genitori discutono sempre
di spese e introiti e debiti, e di come fare a tirare avanti con due figli che non guadagnano, e nostro
padre dice: - Vedete il vostro amico Costanzo, vedete il vostro amico Augusto -. Perché gli amici
nostri non sono come noi: han fatto una società per la compravendita dei boschi da taglio e son
sempre in giro che trafficano, e contrattano, anche con nostro padre, e guadagnano mucchi di soldi e
presto avranno il camion. Hanno una grassona con loro, che si chiama Melpomene, e se la passano dall'uno all'altro. Sono degli imbroglioni e nostro padre lo sa: però gli piacerebbe vederci
come loro, piuttosto che come siamo: - Il vostro amico Costanzo ha guadagnato tanto in
quell’affare, - dice. - Vedete se potete mettervici anche voi -. Noi pensiamo a Melpomene che ride forte, e si fa tastare da tutti, pensiamo agli imbrogli che fanno, magari anche a nostro padre. Però con noi i nostri amici vengono a spasso, ma affari non ce ne propongono: sanno che siamo dei fannulloni e dei buoni a nulla.
Al pomeriggio mio fratello torna a dormire: non si sa
come faccia a dormire tanto, pure dorme. Io
vado al cinema: ormai i film nuovi non mi attirano più, vado in certi cinemetti popolari con le panche in platea dove rivedo film di sette otto anni fa, che so ormai a memoria: "Notti messicane", "Napoli terra d'amore", forse per non far fatica a tener dietro alla storia.
Dopo cena, sdraiato sul divano, leggo certi lunghi romanzi tradotti che mi imprestano: spesso nel
leggere perdo il filo e non riesco mai a venirne a capo. Mio fratello s’alza appena mangiato ed esce:
va a veder giocare al biliardo.
I miei vanno subito a dormire perché al mattino si alzano presto. - Va’ in camera tua che qui
sprechi luce, - mi dicono salendo. - Vado, - dico, e rimango.
Già sono a letto e dormo da un po’, quando verso le due torna mio fratello. Accende la luce, gira
per la stanza e fuma l’ultima. Racconta fatti della città, dà giudizi benevoli sulla gente. Quella è
l’ora in cui è veramente sveglio e parla volentieri. Apre la finestra per fare uscire il fumo,
guardiamo la collina con la strada illuminata e il cielo buio e limpido. Io mi alzo a sedere sul letto e
chiacchieriamo a lungo di cose indifferenti, ad animo leggero, finché non ci torna sonno.
Dizionario Treccani, orgoglio, 2.
Piero Sansonetti, La svolta di Bari Giuseppe Conte, il qualunquista che si era travestito da uomo di sinistra: un politico bello e finito, l'Unità, 6 settembre 2024
Conte l’altra sera ha rotto le relazioni con il Pd e ha deciso – non so se su richiesta – di consegnare Bari alla destra. Per quale ragione lo ha fatto? Ci sono due ipotesi.
La prima è che essendo Conte una persona del tutto estranea alla politica – Conte è un funzionario dell’establishment che considera la politica nient’altro che una delle strade possibili per l’accesso al potere – abbia pensato di poter trarre qualche vantaggio elettorale da questo gesto, e dunque abbia calcolato che mettendo su un piatto della bilancia gli interessi di una città e nell’altro piatto la possibilità di un beneficio elettorale, il piatto pesante è il secondo.
Ieri sul Corriere della Sera è uscito un bell’articolo di Tommaso Labate, nel quale si racconta come e perché la simpatia tra Conte e Salvini non si è mai interrotta, nonostante il Papeete. Non si è interrotta perché Conte ha una evidente simpatia per Salvini.
Io non ho mai capito bene quali siano le differenze tra loro, in termini di aspirazioni politiche. Conte è un giustizialista. Salvini (tranne che per i processi che lo riguardano) è un giustizialista. Salvini è un nemico dell’immigrazione, e Conte è del partito che ha inventato la polemica dei “taxi del mare”.Salvini ritiene che la sicurezza e le politiche cosiddette “securitarie” siano il problema principale di uno Stato moderno, e Conte lo segue. A Salvini piace Trump (e un po’ Putin) e Orban. A Conte piace Trump, e Orban (e un po’ Putin).
Dunque, qual è la differenza? L’unica differenza che vedo è che Salvini si rivolge essenzialmente all’elettorato del Nord e Conte all’elettorato del Sud. L’equivoco che in tutti questi anni ha sviato gran parte dei politologi e anche ampi settori della politica, è quello del populismo. Ogni volta che si parla di Conte si parla di leader “populista”. Non è così.
La categoria politica alla quale appartiene Conte è una categoria molto più grezza ma anche più complicata: il qualunquismo. Qualunquismo e populismo sono cose molto diverse. Il populismo sicuramente è un fenomeno e una “para-ideologia” che ha al suo interno forti componenti ribellistiche e di sinistra.
Il populismo spesso contagia i piccoli partiti di estrema sinistra e certamente è stato un elemento fondamentale del grillismo, e ancora lo è del Movimento Cinque Stelle. Penetrò largamente anche nel Pci e nel partito di Pannella.
Ma il populismo si fonda su sentimenti, emozioni e convinzioni profonde. Quasi sempre, a mio parere, sbagliate, ma robuste e radicate. Il qualunquismo è un’altra cosa. È la negazione di ogni principio, la certezza che la politica sia solo un mezzo per acquisire potere, è l’uso strumentale di alcuni elementi del populismo (diciamo: della demagogia) per conquistare consensi che sono considerati essenzialmente materia prima da trasformare in potere.
Il qualunquismo non si riferisce mai a una comunità. O a una classe. O a una concezione dello stato e della società. Con il populismo ha un solo punto in comune: il rifiuto della politica. Che è il punto debole del populismo. La differenza tra populismo e socialismo è sempre stata questo: amore per la politica o rifiuto della politica.
Il più celebre e dotato leader qualunquista fu Guglielmo Giannini, subito dopo la guerra, e lo stesso Togliatti in una certa fase pensò alla possibilità di un’intesa o di un accordo con Giannini. Togliatti era un leader molto spregiudicato, del resto fu lui, negli anni Trenta, a scrivere l’appello ai fratelli in camicia nera.
Il Pd e il suo gruppo dirigente sono pienamente consapevoli, io credo, delle caratteristiche e dell’inaffidabilità di Conte. Perché allora ci fanno gli accordi (talvolta anche con successo, vedi Sardegna)?
Per una ragione semplice e molto comprensibile. Per come sono state combinate in questi anni le leggi elettorali (sfregiando la democrazia politica) le alleanze sono obbligatorie. Perché regni una incertezza sui risultati elettorali, i partiti più grandi devono scegliere dei compagni di viaggio.
E il Pd si è trovato a dover scegliere tra l’andare da solo, o con i piccoli partiti alla sua destra e alla sua sinistra (coi quali difficilmente, oggi, può superare il 30 per cento dei consensi), oppure accettare l’alleanza con il diavolo.
Non so cosa sceglierà il Pd nelle prossime settimane e mesi. La mia opinione è che con Conte mai. Che nessuna sinistra, seppure fosse una sinistra moderata, può convivere con un leader reazionario.
Che la strada maestra sia quella di prendere atto che ora si sta all’opposizione, e si fa seriamente l’opposizione. Verrà il tempo per essere maggioranza, sicuramente verrà, ma non è questo il tempo. E non si aggira la realtà fingendo che un modesto avvocato reazionario sia un leader di sinistra.