martedì 24 settembre 2019
Il patto del 1939 in sintesi
Gianpasquale Santomassimo
... farei sommessamente osservare che nelle reazioni di sdegno che comprensibilmente abbiamo potuto leggere in questi giorni è presente anche una forma di sottovalutazione e fraintendimento della portata del patto Molotov-Ribbentrop che riproduce una diffusa giustificazione ufficiale retrospettiva di quell'accordo. In pratica, si ripropone la tesi di un semplice (e salutare) espediente, per guadagnare tempo e preparare la difesa da un attacco nazista che inevitabilmente si dà per scontato. Le cose non stanno proprio così. L'accordo prevede la spartizione della Polonia e l'acquisizione di altri territori, prelude all'attacco alla Finlandia che vedrà mutevoli fortune.
Ma soprattutto va notato che se da parte tedesca c'è la consapevolezza del carattere tattico di un accordo destinato ad essere rapidamente rovesciato, da parte sovietica si crede davvero al carattere durevole dell'alleanza. Non c'è la preparazione bellica asserita retrospettivamente, anzi al momento dell'attacco le linee verranno sfondate con troppa facilità. Con quegli eccessi di zelo tipici del potere sovietico si organizzano manifestazioni di amicizia talvolta imbarazzanti: ad esempio un grande Festival wagneriano a Mosca, con la rappresentazione di tutte le opere del grande compositore, alla presenza di ambasciatore e dignitari del Reich.
Eccessi di zelo si registrano anche da parte dei comunisti francesi, che assumono un atteggiamento collaborativo e vengono meno alle cautele della clandestinità. Qualcuno, come è noto, va a lavorare volontario in Germania.
Più in generale, si impone a tutto il movimento comunista di replicare l'interpretazione della prima guerra mondiale come conflitto tra imperialismi contrapposti, con una forzatura evidente dopo l'esperienza della guerra civile spagnola e la creazione di un vasto fronte antifascista, che di fatto viene dissolto. I rapporti tra i partiti antifascisti si bloccano e verranno riannodati con qualche fatica dopo il 1941.
I pochi dissidenti verranno espulsi, e sarà solo la saggezza di Togliatti a consentire il rientro a pieno titolo di Terracini e della Ravera.
lunedì 23 settembre 2019
In memoria di un patto scellerato
La risoluzione del Parlamento europeo sulla memoria del comunismo e del nazismo, con particolare riferimento alle responsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale, è stata approvata il 19 settembre ma la polemica è cresciuta con il passare delle ore, soprattutto attraverso i social. Perché – in diversi passaggi – il testo equipara i due regimi politici. E perché a votarlo è stato anche, con alcune eccezioni, il Partito democratico (insieme al gruppo dei Socialisti e democratici di cui è membro). Oltre al Ppe, in cui c’è anche Forza Italia, ai conservatori (con Fratelli d’Italia) e al gruppo Identità e democrazia, di cui fa parte la Lega. Il quotidiano il manifesto ha reagito pubblicando un editoriale indignato e sprezzante di Angelo d’Orsi. Forse l’argomento avrebbe meritato un approccio più equanime, come quello che si ritrova nello scritto di David Bidussa.
Angelo d’Orsi, Il mostro storico del «rovescismo» unisce il Pd e Orbán
La risoluzione del Parlamento europeo, fondata sulla equiparazione tra nazifascismo e comunismo, rappresenta insieme un mostro storico e una bestialità politica. Ma è anche una clamorosa conferma della superfluità “esistenziale” di questo organismo.
Se davvero si vuole una Europa unita, e se la si vuole come si dovrebbe, rifare a fundamentis, il Parlamento europeo sarà semplicemente da eliminare. Un gruppo di signori, godenti di privilegi, che hanno poco o nulla da fare nella vita, sono riusciti a formulare un testo basato su un modesto imparaticcio scolastico, senza capo né coda, un documento lunghissimo, farcito di premesse, di riferimenti interni alla legislazione eurounitaria, ma ahinoi, purtroppo, anche con una serie di ragguagli che pretendono di essere storici, ma sono un esempio di revisionismo ideologico all’ennesima potenza: insomma, il mai abbastanza vituperato «rovescismo», fase suprema del revisionismo, ed è il frutto finale di un lungo lavorio culturale, che dalle accademie è trapassato nel dibattito pubblico, tra giornalismo e politica professionistica.
Il rovescismo riesce a produrre esiti a cui il revisionismo tradizionale non ha avuto il coraggio di spingersi: questo documento è un esempio preclaro di questi esiti.
La linea di fondo, che il rovescismo ha raggiunto, e di cui in Italia abbiamo avuto numerose manifestazioni, è il rovesciamento della verità storica, sulla base di un equivoco parallelismo, che ha illustri precedenti nella filosofia politica, tra fascismo e comunismo, tra fascismo e antifascismo, tra partigiani e repubblichini (per concentrarsi sul nostro Paese): e questo sulla base della nefasta teoria delle memorie condivise, nel documento “europeo” riproposta al singolare, come fonte della “identità” del Continente, a cui l’organo legislativo di una sua parte, sebbene numerosa, pretende di sovrapporsi. L’Unione europea, sarà opportuno ricordare, non è l’Europa, e il Parlamento della Ue non esprime sentimenti, pensieri, sensibilità e, aggiungo, volontà, di alcune centinaia di milioni di cittadini e cittadine dei 27 Stati aderenti.
Ciò detto, la risoluzione, con temerario sprezzo della verità, attribuisce paritariamente la responsabilità della Seconda Guerra mondiale alla Germania nazista e alla Russia sovietica, e in particolare sarebbe la «conseguenza immediata» del Patto Ribbentrov-Molotov, e avendo sottolineato, di nuovo con un esempio di grottesca violenza alla realtà fattuale, che l’istanza unitaria nel Vecchio Continente nasce come risposta alla «tirannia nazista» e «all’espansione dei regimi totalitari e antidemocratici», si richiama alla legislazione di alcuni Paesi membri, che ha già provveduto a «vietare le ideologie comuniste e naziste», e invita gli Stati dell’Ue a prenderli ad esempio.
Curiosamente il documento di questi nuovi analfabeti della storia, usa l’espressione «revisionismo storico» per riferirsi esclusivamente al nazismo, e al progetto genocidario insito in esso, e presenta la posizione a cui si ispira come corretta e indubitabile, al punto da pretendere di diventare legge. E la proposta cui giunge questo mirabile esempio di menzogna storica, e insieme di miseria politica e di bassezza morale, quale è mai? La sollecitazione agli Stati membri a provvedere a condannare i «crimini dei regimi totalitari comunisti e dal regime nazista», e di conseguenza a «formulare una valutazione chiara», che traduca praticamente questa raccomandazione. Ossia, evitare la diffusione e la presenza e la circolazione nei relativi Paesi di ideologie e simboli che richiamino nazismo e comunismo.
Insomma, è una Europa polonizzata e magiarizzata e ucrainizzata: l’Europa che dimentica il ruolo fondamentale della Russia, a cui viene sì attribuito l’etichetta di Paese martire, ma non certo quello, confermato da ogni ricerca storica, di barriera al nazifascismo. E il documento, che pare ispirato direttamente da tedeschi polacchi e ungheresi, si apre a parole di dolce accoglienza nel seno della famiglia dell’Europa “democratica” dei Paesi liberatisi dal giogo sovietico. E, incredibilmente, si precisa: «adesione all’Ue e alla Nato», con una inaccettabile confusione di europeismo e atlantismo.
Ebbene, questo documento è stato approvato con i voti della destra di Orbán e soci, ma anche dei popolari e dei “socialisti”, ivi compresi gli esponenti del Pd. Che con questo atto ha segnato la sua definitiva fuoruscita dal campo della sinistra internazionale, ma altresì dal campo della decenza e della dignità.
David Bidussa
Forse nessuno come Victor Serge nelle sue Memorie di un rivoluzionario ha saputo descrivere in poche righe la rottura che si consuma il 22 agosto 1939, nel momento in cui si arriva alla firma del trattato Molotov-Ribbentrop, ovvero il patto tra Russia sovietica e Germania nazista. Riprendo le sue parole:
«Il 22 agosto (1939), Molotov e Ribbentrop firmavano improvvisamente al Cremlino, mentre le missioni militari britannica e francese deliberavano con Vorošilov in un edificio vicino, un patto di non aggressione decennale, che era in modo evidente un patto di aggressione contro la Polonia. Daladier ebbe il torto di sospendere la pubblicazione della stampa comunista: sarebbe stato curioso, dopo aver denunciato la «barbarie fascista», vederla denunciare le «plutocrazie imperialistiche. La stampa comunista illegale adottò subito questo nuovo linguaggio».
Da una parte un mondo politico che si trova complessivamente disorientato dalla doppiezza politica dell’Urss, dall’altra una caduta verticale di quel patto di intesa dell’antifascismo internazionale al cui interno il movimento comunista si era da sempre collocato e, soprattutto, si era dichiarato mettendo al centro – con la tattica del fronte popolare e poi con le scelte maturate a metà degli anni ’30 – la questione della difesa dei regimi democratici.
L’atto del 22 agosto segna una crisi irreversibile proprio in quel campo antifascista che, fino a quel momento, aveva vissuto il movimento comunista come l’alleato solido che nella lotta al fascismo non demorde. Quella scena stravolge convinzioni profonde, lacera amicizie e rapporti di fiducia, ma soprattutto certifica in maniera irreversibile un vero blocco emozionale. La sinistra europea e il mondo comunista non si trovano più associati, non solo rispetto alla difesa della democrazia, ma soprattutto su quella che debba essere la priorità di fronte alla minaccia sia di guerra sia di una possibile egemonia dei totalitarismi di destra nelle realtà governative europee. Per esempio, questo è quello che accade all’interno del socialismo italiano fuoriuscito. Il Psi, fino a quel momento egemonizzato da Pietro Nenni, convinto sostenitore dell’alleanza di fronte popolare, e perciò decisamente favorevole all’alleanza con il Partito comunista, e che ora deve cedere la direzione del partito a coloro che su quell’alleanza e su quella convergenza politica hanno sempre nutrito dubbi (Tasca, Faravelli, Modigliani).
Ma è anche la crisi che attraverso L’internazionale Operaia e Socialista, come testimonia il testo del rapporto sulla situazione politica all’Interno dell’IOS steso dal Segretario Friedrich Adler, nell’estate 1939 dichiara la crisi politica del socialismo internazionale. Per certi aspetti la seconda morte politica, dopo quella già avvenuta nei giorni dello scoppio della Prima guerra mondiale.
Per molti quella ferita politica, anche emozionale, in parte si riconnetterà con il rovesciamento delle alleanze nel 1941 e dunque con il ritorno anche dei comunisti nella lotta al fascismo come nemico principale che poi sfocerà nelle esperienze nazionali delle Resistenze.
Eppure quella crisi dell’agosto 1939, ha un significato molto più profondo e, per certi aspetti, ancora ci riguarda.
Il tema non è il tradimento o il passaggio a stendere accordi col nemico di ieri (una scena che in politica è avvenuta molte volte, anche in tempi recenti), ma rispetto a che cosa sentirsi leali e dunque considerare che valga la pena sacrificarsi, e dunque rinunciare a qualcosa della propria quotidianità in nome del bene collettivo. Molti hanno concentrato lo sguardo, e dunque riversato la propria disapprovazione, su un gesto politico messo in atto da un leader politico. Ha un suo senso, nonché una sua rilevanza. Ma forse a molti anni di distanza quello che principalmente si dovrà valutare è come per molti non avesse rilevanza un altro dato.
In quella scelta dell’Urss nel 1939, ha detto più volte Hobsbawm, i partiti comunisti occidentali riuscirono ad assorbire e a spiegare sulla base di elementi di razionalità, meglio di identità politica. In quella congiuntura, sottolinea lo storico inglese, fu infatti la memoria dell’Union sacrée e del nazionalismo cui si erano votati i partiti della Seconda Internazionale nell’agosto 1914, una causa che rimandava all’atto fondativo stesso dei partiti comunisti, a consentire la tenuta strutturale dei partiti. In breve in quella congiuntura, aderendo al senso politico del Patto russo-tedesco, i partiti comunisti rendevano indirettamente omaggio alla loro scelta di venti anni prima. Dunque, il tema era la questione della verità e della doppiezza: si è disposti a sottoscrivere il patto anche con il proprio avversario radicale, in nome della coerenza, del non venir meno alla critica ai fondamenti politici e culturali del sistema che si vuole abolire o contribuire a distruggere.
Ciò che, invece, non matura è la dimensione dell’interesse generale. Ovvero di saper andare oltre se stessi per vedere un tema di rilevanza pubblica. Ovvero di essere parte dello sviluppo.
Quello stesso meccanismo che nel 1939 esprime il dato di solidarietà (complessivamente non molti se ne andarono dai partiti comunisti) si manifesta apertamente nel 1956, quando di fronte alle rivelazioni del Rapporto Kruscev, l’esodo dai partiti comunisti fu più consistente, tanto da parlare di una crisi che obbligava a ripensarsi. Perché ciò che comunicava il Rapporto Khruscev era appunto la mancanza di verità e dunque la sfera delle convinzioni.
Anche per questo la data del 22 agosto 1939, alla fine, non ha mai dato luogo a una riflessione collettiva, né è entrata nella memoria di chi ruppe il patto antifascista.
È rimasta nella memoria come una mossa scaltra e come la scelta di solitudine di alcuni esponenti e militanti. Nella realtà italiana Leo Valiani, per esempio; in quella francese, Paul Nizan.
È significativo che a riscoprire la parabola politica di Nizan, compresa la sua uscita clamorosa dal Pcf per protestare contro l’appoggio e la difesa del Patto Molotov-Ribbentrop da parte della stragrande maggioranza degli iscritti, sia riproposta molto tempo dopo, nel 1960. Ed è significativo che la voce capace di promuovere la sua figura sia Jean-Paul Sartre (di nuovo allora con una replica del Pcf alquanto supponente e liquidatoria). Fare i conti con quella figura politica e culturale, controversa e inquieta, infatti non voleva dire solo riconsiderare la scena dell’agosto 1939, a prendere in carica la scena della morte di Nizan, morto “in esilio” sulla spiaggia di Dunkerque nel maggio 1940, con le «spalle rivolte al mare», insieme a ciò che rimaneva dell’esercito francese e delle truppe inglesi, mentre la maggior parte dei suoi ex-compagni di partito arrivano persino a gioire dell’ingresso delle truppe del Reich a Parigi a fine giugno 1940 e”L’Humanité” faceva richiesta pubblica e formale di riprendere le pubblicazioni (a fine giugno 1940) confidando nella benevolenza del governo nazista, in nome della propria “indifferenza” alla caduta della Francia.
http://fondazionefeltrinelli.it/22-agosto-1939-il-patto-molotov-ribbentrop/
giovedì 19 settembre 2019
Un omaggio alla Hollywood di una volta
Simone Lorenzati, Il nono film di Tarantino
Los
Angeles, nel 1969. E' probabilmente questa, prima ancora della storia
coi suoi personaggi, la vera protagonista di C'era una volta
a... Hollywood, film di Quentin Tarantino uscito ieri in Italia.
Il periodo è noto, quello del Flower Power, un mondo che si illude
di cambiare tra sogni e Comuni, tra felicità e utopia
rivoluzionaria, mentre la realtà statunitense lo riporta al
quotidiano orrore della Guerra in Vietnam. Tuttavia il movimento
hippy cresce, la protesta, che carica di giovani le strade, si
percepisce anche nel Cinema, eclissando vecchi miti a favore di
qualcosa di nuovo. E Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) rappresenta
esattamente questo. Protagonista, ad inizio decennio, di una serie
western di successo, si ritrova ora a fare i conti con il tempo che,
inesorabilmente ma velocemente, passa. Rick non ha ormai più alcun
ruolo da protagonista positivo, insomma non veste da tempo i panni di
un qualche personaggio che crei empatia con il pubblico. Al contrario
viene utilizzato come una vecchia gloria da far prendere a pugni dal
nuovo eroe di turno, che cambia, al contrario del suo ruolo di
cattivo ad aeternum. Accanto a lui c'è la sua controfigura, l'amico
fraterno Cliff Booth (Brad Pitt), che oltre ad essere anche suo
autista, è quasi il factotum di Rick. E partendo da loro due
Tarantino porta effettivamente lo spettatore all'interno di quel
mondo e di quell'epoca, grazie a un eccezionale lavoro degli
scenografi che ci proiettano nella Los Angeles di mezzo secolo fa. Il
tutto condito dalla perfezione dei costumi, delle musiche, nonché
della pellicola in 35mm, 16mm (e addirittura 8mm) utilizzata dal
direttore della fotografia Robert Richardson per riportare quel tipo
di d'immagine, pastosissima, distante anni luce dall'odierno
digitale. A ciò si aggiunga che il viaggio, sia nel tempo sia in
quel Cinema, è ulteriormente accentuato da continui passaggi tra
colore e bianco e nero e da un aspect ratio che passa dal classico
2.39:1 fino al televisivo 1.33:1, dando una reale vita autonoma al
grande schermo. Da ogni inquadratura trasuda la passione del regista
nei confronti di quell'epoca e del Cinema di quegli anni. Insomma
assistiamo ad una vera e propria dichiarazione d'amore che si traduce
in lunghissimi quadri dedicati ai paesaggi o al percorso in macchina
da un luogo all'altro della LA che fu. Ma non solo il Cinema, in
quanto anche la televisione di quel momento, anche gli stessi
mestieranti di tv e Cinema, vengono racchiusi in quello stesso
abbraccio. Basti pensare che uno dei protagonisti della pellicola
nella vita fa lo stuntman, ossia uno che si sporca le mani, e si
rompe le ossa, per vivere di Cinema. Ed è sostanzialmente qui la
profonda, profondissima differenza, rispetto ai precedenti otto
lavori tarantiniani, compreso il penultimo, The Hateful Eight. Niente
dialoghi intensi (meglio ci sono, ma più sfumati), molto meno
splatter (ad eccezione del finale) poiché in C'era una volta a...
Hollywood tutto ciò viene meno. Tarantino sceglie, questa volta, di
parlarci e di illustrarci un mondo, piuttosto che di raccontarci una
storia. E così Rick Dalton e Cliff Booth, senza poi dimenticare la
presenza sullo sfondo di una certa Sharon Tate (Margot Robbie),
compagna del regista Roman Polański, diventano i protagonisti di un
racconto di vita vissuta che ama fondere la realtà storica con la
fantasia sfrontata, tuttavia rispettosa, tipica di Tarantino. Cosa ne
esce è un lungo (due ore e quaranta di durata) omaggio al cinema di
fine anni ’60 inizio ’70, in cui emerge un regista diverso,
probabilmente più attempato, che punta meno su violenza e parolacce
e più su dettagli e inquadrature. Certo, molti appassionati del suo
cinema potrebbero non accettare una scelta simile. Deludente,
allora? Chi scrive, che è da sempre un amante del regista
italoamericano, ritiene assolutamente di no, se si riesce a concepire il
film ponendosi nell’ottica con cui il regista desiderava
realizzarlo. Un Tarantino diventato cineasta che, tuttavia, non
rinuncia, anche qui, ad alcune sue prerogative (si pensi ai dialoghi
tra Rick e la piccola attrice, tra lui e Booth). Insomma un intimo
omaggio a un cinema, ad una intera industria cinematografica verrebbe
da dire, ormai persi nei ricordi dei loro stessi protagonisti.
Fine della conversazione in chat
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martedì 17 settembre 2019
sabato 14 settembre 2019
Donne in cerca di un marito
La copertina del libro di Irene Soave «Galateo per ragazze da marito. Come non concedersi quasi mai, quasi a nessuno e riuscire a non sposarsi lo stesso» (Bompiani, pagine 384, euro 17) |
Beppe Severgnini, Irene Soave, il libro. Il bon ton millennial dell’amore, Corriere della Sera, 10 settembre 2019
Soave non è solo il cognome: è la modalità d’indagine, la tecnica con cui l’autrice di Galateo per ragazze da marito (Bompiani) dispensa giudizi e punizioni. Questo è il caso fortunato di un libro con un titolo apparentemente frivolo che si rivela una lettura appassionante (spesso accade il contrario: titoli appassionanti, letture frivole). Sotto la copertura del gioco letterario, c’è la condizione femminile contemporanea (matrimonio, reputazione, dignità, libertà, lavoro, sesso, piacere) e la storia sociale del rapporto tra donne e uomini, estratta dai manuali per signore e signorine pubblicati tra l’Unità d’Italia e il Sessantotto, di cui l’autrice è un’appassionata collezionista. Non so come sia riuscita a creare questo intreccio, Irene. Ma c’è riuscita.
Un esempio? Il capitolo Il rapporto con le sposate si apre con l’esilarante racconto di una festa dove l’autrice si presenta con grandi aspettative e in abiti seducenti — «top nero, jeans neri, rossetto scarlatto, tacchi che potevano configurare un abuso edilizio» — e trova soltanto mamme con bambini (ventotto), che la guardano storto se parla coi mariti. Altri capitoli fulminanti: l’abitazione, il ballo, la vacanza, il ristorante (chi paga?), i consigli («Per le più negate, il manualetto Come si conquistano gli uomini, 1948, propone qualche frase da dire ai maschi: “A occhi chiusi riconoscerei la sua stretta di mano. Così leale!”, “Già le nove, come passa in fretta il tempo con lei…” e così via. Fa sorridere, ma sospetto che funzioni»).
A questo punto, prima di proseguire, devo confessare il mio conflitto di interesse. Ho conosciuto Irene alla scuola di giornalismo, e quando nel 2017 mi è stato chiesto di dirigere «7», il settimanale del «Corriere», l’ho voluta in squadra (ora lavora alla redazione Esteri). Ottimo acquisto per noi, ma — posso dirlo? — una buona palestra per lei. Irene scriveva bene, ma non così bene. Aveva in testa troppe idee, troppe letture, troppa esuberanza, troppe battute, troppe secondarie: e spesso cacciava tutto nella stessa frase. Ma scrivere è rinunciare. Irene lo ha capito: è rimasta brillante, ed è diventata precisa. Questo libro ne è la prova.
Scrittori si diventa. Credo che Galateo per ragazze da marito collochi Irene Soave tra le migliori osservatrici del costume italiano. L’autrice mostra un’autoironia formidabile, quasi rischiosa; e la freschezza che altre firme femminili hanno perduto. Erano ironiche, sono diventate sarcastiche; erano affascinate dal mondo, sono stancamente mondane; erano attente ai cambiamenti sociali, ora curano il proprio profilo social. Leggendo Galateo per ragazze da marito mi è successo di scoppiare a ridere (buon segno). Come quando l’autrice, nel capitolo Farsi corteggiare, saltando da Donna Letizia (un suo mito) alla Marchesa Colombi, elenca con sorridente ferocia alcuni tipi contemporanei (la preziosa, la reclusa, la spregiudicata, etc). Sulla gattamorta, si esalta. Sentite qui: «La gattamorta migliore che conosco è una signorina con un discreto prognatismo e il culo un po’ equino, che tende addirittura a dimenticarsi spesso la ceretta per i baffi. È irresistibile. Anche per le femmine. È la prima cui le amiche chiedono un parere e la prima che le colleghe, accortesi dell’ascendente che ha sui capi e i vicini di scrivania, emarginano in ogni ufficio in cui mette piede (…). Per gli uomini invece è una mina vagante. Negli anni abbiamo visto capitolare al suo cospetto chiunque. Brutti cui dava ascolto, belli da cui non era intimidita, potenti che faceva sentire potentissimi, sfigati che faceva sentire potenti, un collega con fama di imprendibile che ci aveva sedotte e abbandonate tutte». Credo che nella Milano dei media scatterà la corsa a riconoscere i personaggi. Irene, prepàrati.
Un saggio femminista, a suo modo: perché è un libro femminile. Un libro con una tesi provocatoria, che non viene mai dichiarata, ma percorre le pagine. Questa: in alcuni dei nuovi comportamenti sentimentali dei millennial — generazione cui l’autrice, classe 1984, appartiene — si intravedono preoccupazioni e abitudini classiche: la cura per l’abbigliamento, la villeggiatura tattica, l’intromissione delle mamme, l’addio al nubilato, l’anello di fidanzamento, l’importanza spropositata della coreografia nei matrimoni. In sostanza: tutto cambia e poco cambia. Questo Galateo delle ragazze da marito è un gioco, non più un codice. Ma è così diverso da quello che ha dominato le vite delle nostre mamme e delle nostre nonne?
P.S. Nella prefazione, l’autrice rivela la passione per i galatei e i manuali femminili. Scrive: «Alcuni li ho trovati in casa, molti li ho comprati e fotocopiati, qualcuno l’ho rubato (lo so! Ma certi titoli sono introvabili!)». Ebbene: i volumi che le avevo prestato sono stati recuperati dopo un anno, in maniera rocambolesca. Come, non posso dirlo. Magari Soave lo metterà nel prossimo libro. Vero, Irene?
giovedì 12 settembre 2019
La luna in esposizione
Simone Lorenzati
Era il 21 Luglio 1969. E l'uomo metteva piede sulla luna, ossia sul corpo celeste che più di ogni altro ne ha, da sempre, ispirato grandi avventure, esplorazioni fantastiche e letterarie, che vanno da Luciano di Samosata a Dante, da Ariosto a Leopardi, da Verne a Calvino. Nel 1865, poi, esce il libro di Jules Verne “Dalla Terra alla Luna”. Ed è proprio questo il titolo della mostra, a Torino (Palazzo Madama), in programma fino al prossimo 11 Novembre. A cinquant’anni esatti dallo sbarco del primo uomo sulla Luna, insomma, si possono ammirare oltre sessanta opere tra dipinti, sculture, fotografie, disegni e oggetti di design che raccontano l’influenza dell’astro d’argento su arte, ed artisti, dall’Ottocento al 1969. Ed ecco libri, romanzi, fumetti, giocattoli e gadget, appartenenti a Piero Gondolo della Riva, in un ambiente che diventa una sorta di stanza delle meraviglie lunari. Già a partire dall’Ottocento nell’arte appare il tema del viaggio lunare, legandosi spesso a tematiche di esotismo, di progresso delle nazioni, di colonialismo anche se la Luna rimane luogo raggiungibile unicamente se dotati di fantasia. I pittori romantici, nello specifico, affrontano il tema del chiaro di luna (De Gubernatis, Bagetti e Carutti di Cantogno) muovendosi tra la malinconia ed il sogno. Non mancano nemmeno opere delle avanguardie storiche: le atmosfere rarefatte e fiabesche di Marc Chagall, la metafisica decisa di Felice Casorati, la calligrafia raffinata e minuta di Paul Klee, il surrealismo esistenziale di Max Ernst e di Alexander Calder. Nella seconda parte del Novecento lo spazio diventa, invece, una vera sorta di ossessione per l’arte: si guarda ad un mondo che vada oltre al nostro, lo si vorrebbe afferrare, in bilico tra fantasia e realtà. In effetti Concetto spaziale è il titolo dei lavori più famosi di Lucio Fontana. Giulio Turcato, poi, definisce Superfici lunari i suoi monocromi prodotti con materiali particolarissimi, mentre Robert Rauschenberg realizza la serie di multipli Stoned Moon (1968) e Mario Schifano ne riporta la visione attraverso la televisione, con Paesaggi TV. In mostra, oltre ad altri autori più importanti come Yves Klein, il pittore simbolista Karl Wilhelm Diefenbach, Emilio Isgrò, Arturo Nathan e il concettuale belga Paul Van Hoeydonck la cui opera fu portata sulla Luna e lì lasciata dalla missione Apollo 12. Presenti, infine, alcune immagini della Nasa e oggetti di design degli anni ’60 di autori come Vico Magistretti, Achille Castiglioni, Piero Fornasetti. Giunti al 1969 la mostra termina con una scultura di Fausto Melotti. Le opere esposte, a cura di Luca Beatrice e Marco Bazzini, provengono da musei torinesi (GAM, Fondazione Accorsi-Ometto, Pinacoteca Albertina e Museo Nazionale del Risorgimento), nonché da importanti musei, istituzioni e collezioni private italiane ed europee, tra i quali Palazzo Reale di Napoli, Museo Correr di Venezia, Certosa di San Giacomo di Capri, Mart di Trento e Rovereto, Collezione Intesa San Paolo, Fondazione Marconi e Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano, Fondazione Barilla di Parma, Archivio Gastone Novelli di Roma.
Un viaggio tra Terra e Luna che, complice la cornice sempre affascinante di Palazzo Madama, si rivela un misto di storia e di fantasia, di realtà e di pensieri sognanti. Una meta verso cui tendere o, semplicemente, da cui rimanere incantati.
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