lunedì 29 giugno 2015

Tahar Ben Jelloun, L'ombra lunga della guerra



Scritto subito dopo la Guerra del Golfo del 1990, anche se parte dalle sponde del Tigri e dell'Eufrate, il tema di “Dalle ceneri” si estende alla drammatica e crudele attualità delle guerre di oggi, di quelle arcaiche o ipertecnologiche, alle migrazioni interrotte, alle fughe dalla violenza e dalla miseria, alle rotte in cerca di approdi. (Giuseppe Distefano)


Tahar Ben Jelloun
Dalle ceneri, traduzione di Egi Volterrani
Il Melangolo, Genova 1991 (
La remontée des cendres, 1991)



Quel corpo che già fu un corpo
non si attarderà più
sulle rive del Tigri o dell’Eufrate
raccolto da una pala che non avrà ricordo
di dolore alcuno
messo in un sacco di plastica nero
quel corpo che già fu un’anima,
un nome e un volto
ritorna alla terra delle sabbie
rifiuto e assenza.
Quella terra avida di acqua
non ha avuto che il sangue
per irrigare il grande silenzio
quel deserto afflitto ha aperto le trincee del sonno.
E in un baleno gli uomini
si sono riversati dentro a migliaia
la pelle scorticata
una candela accesa vegliava all’interno
della gabbia toracica defunta.
Un poco di cielo abitava quei corpi votati all’oblio.
Una coperta di sabbia è stata deposta
su quei sacchi neri da una mano metallica.
Niente si muove più.
Neanche i ricordi ardenti dei primi amori.
Nemmeno l’uccello sconosciuto venuto da un
giorno lontano per la preghiera dei morti. E’ nero
e immobile, con gli occhi bruciati, eterno.
Quel corpo che già fu parola
non guarderà più il mare pensando a Omero.
Non si è spento. E’ stato raggiunto da una scheggia
di cielo che gli ha spezzato la voce e il respiro.
Questi cristalli mescolati alla sabbia
sono le ultime parole pronunciate da quegli uomini
senz’armi.
Facce annerite da un fuoco che non trema.
Pagina di una vita calcinata
come un segreto illeggibile.
Lo sguardo, lentamente strappato dal volto: è
un sottile foglio di carta, bello e resistente, inquietante
e leggero: un velo tra la vita e la nostra morte:
un silenzio che trattiene qualche granello di sabbia.
Le facce lavate dallo stesso fuoco breve e preciso
non sono più facce.
La traccia del ricordo di un volto è sepolta
in quegli stessi sacchi neri.
Il disordine e la disfatta hanno confuso i giorni
e gli sguardi.
Quel corpo che già fu una risata
adesso brucia.
Ceneri portate via dal vento fino al fiume
e l’acqua le riceve come resti
di lacrime felici.
Ceneri di una memoria in cui traluce una piccola
vita molto semplice, una vita senza storia, con
un giardino, una fontana e qualche libro.
Ceneri di un corpo scampato alla fossa comune
offerte alla tempesta delle sabbie.
Quando si alzerà il vento quelle ceneri
si andranno a posare sugli occhi dei vivi.
E quelli senza saperne niente
camineranno trionfanti con un po’ di morte
sul viso.
Innumerevoli sono i segnali
che si svuotano della loro acqua
laggiù, nell’estremo tumulto
sul bordo di un cimitero in movimento.
In questo paese i morti viaggiano
come le statue e le fiamme.
Portano gli occhiali
e tendono le braccia bruciacchiate
per prendere il volo.
Dicono che sono diventati invisibili
e vanno offrendo ai vivi gli anni di vita
che ancora restano loro.
Quanti anni sparsi in quel modo sul deserto:
un secolo e oltre.
Vite da raccogliere come sciacalli impagliati
vite che tremano nel dire:
«La morte non è così fatale
come la notte che è l’ombra del sole».
[…]

***
 
Ce corps qui fut un corps
ne flânera plus
le long du Tigre ou de l’Euphrate
ramassé par une pelle qui ne se souviendra
d’aucune douleur
mis dans un sac en plastique noir
ce corps qui fut une âme,
un nom et un visage
retourne à la terre des sables
détritus et absence.
Cette terre avide d’eau
n’a eu que du sang
pour irriguer le grand silence
ce désert affligé a ouvert les tranchées du sommeil
et les hommes s’y sont engouffrés
par milliers en un éclair
la peau déchirée
une bougie allumée veillait à l’intérieur
de la cage thoracique défunte.
Un peu du ciel habitait ces corps voués à l’oubli.
Une couverture de sable a été déposée
sur ces sacs noirs par une main en métal.
Plus rien ne bouge.
Par même les souvenirs ardents des premières amours.
Ni l’oiseau inconnu venu du jour lointain pour
la prière des morts. Il est noir et immobile, les
yeux brûlés, éternel.
Ce corps qui fut une parole
ne regardera plus la mer en pensant à Homère.
Il ne s’est pas éteint. Il a été touché par un
éclat du ciel brisant la parole et le souffle.
Ces cristaux mêlés au sable
sont les derniers mots prononcés par ces hommes
sans armes.
Visages noircis par un feu qui ne tremble point.
Page d’une vie calcinée
comme un secret illisible.
Le regard, lentement arraché du visage: c’est une
mince feuille de papier belle et résistante, troublante
et légère; un voile entre la vie et notre mort; un
silence qui retient quelques grains de sable.
Les visages lavés par le même feu bref et précis
ne sont plus des visages.
L’épure d’un souvenir de visage est enseveli
dans les mêmes sacs noirs.
Le désordre et la défaite ont mêlé les jours
et les regards.
Ce corps qui fut un rire
brûle à présent.
Cendres emportées par le vent jusqu’au fleuve
et l’eau les reçoit comme les restes
de larmes heureuses.
Cendres d’une mémoire où perle une petite vie
bien simple, une vie sans histoire, avec un jardin,
une fontaine et quelques livres.
Cendres d’un corps échappé à la fosse commune
offertes à la tempête des sables.
Quand le vent se lèvera, ces cendres iront
se poser sur les yeaux des vivants.
Ceux-ci n’en sauront rien
ils marcheront triomphants avec un peu de mort
sur le visage.
Innombrables sont les signes
se vidant de leur eau
dans le tumulte de l’extrême
là, au bord d’un cimetière mouvant.
Dans ce pays les morts voyagent
comme les statues et les flames.
Ils portent des lunettes
et tendent les bras roussis
pour s’envoler.
On dit qu’ils sont devenus invisibles
et s’en vont offrir aux vivantes les années
qui leur restaient à vivre.
Ainsi, que d’ans jonchent le désert:
un siècle et plus.
Des vies qui tremblent pour dire:
«La mort n’est pas fatale
comme la nuit est l’ombre du soleil».
[…]

domenica 28 giugno 2015

Perché Alexis Tsipras ha scelto il referendum

Luca Gaballo
Crisi greca, retroscena. Perché Tsipras gioca la carta del referendum
Rai News, 28 giugno 2015


Fu l'annuncio dell'intenzione di indire un referendum sull'Euro, nell'ottobre del 2011, a provocare la caduta rovinosa dell'allora primo ministro greco Papandreou. Dietro le quinte del vertice del G20 di Cannes Angela Merkel e Nicolas Sarkozy lo contrinsero a fare marcia indietro prima e a abbandonare il potere poi. Il referendum non ebbe mai luogo. 4 anni dopo Alexis Tsipras, anch'egli con le spalle al muro, compie la stessa mossa, ma stavolta il rischio è calcolato perché il contesto è profondamente mutato. Sono gli scenari che in queste ore disegnano le banche d'affari a lasciare poca scelta a Tsipras. E' ormai scontato che la Grecia non sarà in grado di pagare il Fondo monetario il prossimo 30 di giugno. Questo non innescherà immediatamente un evento di default, più insidiosa è la scadenza di metà luglio con la Bce: se la Grecia non dovesse onorare il debito, l'istituto di Francoforte avrebbe sostanzialmente l'obbligo di interrompere la liquidità di emergenza e di provocare in Grecia una crisi bancaria del tipo già visto a Cipro e prima ancora in Islanda ed in Argentina. (Vedi intervista di Rainews ad Alberto Gallo di Royal Bank of Scotland). Banche chiuse, sportelli automatici che non funzionano, carte di credito bloccate, scene di rabbia e di panico nelle strade creerebbero una situazione politicamente ingestibile. Stipendi, pensioni e piccoli fornitori della pubblica amministrazione verrebbero pagati con una sorta di valuta ombra, mentre i ceti sociali più abbienti avrebbero buon gioco nell'esportare i capitali residui. La Grecia resterebbe formalmente nell'euro mantenendo le sue obbligazioni intatte. Gli avversari interni al partito e le opposizioni porterebbero un attacco concentrico al premier tale da rovesciare il governo e provocare nuove elezioni in un contesto di altissimo rischio per Tsipras. Non è escluso che, qualcuno, in Europa, conti proprio su questo auspicando nei fatti un "regime change" ad Atene, in modo da riproporre le stesse condizioni poste a Syriza ad interlocutori più affini o più malleabili. La tranquillità dei mercati mentre la scadenza si approssima si spiega anche con questo scenario di riserva. Tsipras non ha avuto dai suoi elettori un mandato ad uscire dall'Euro ma solo a trattare condizioni più vantaggiose per gli strati sociali più deboli. I sondaggi indicano che, da quando Syriza è al potere, la percentuale dei Greci che intendono restare nell'Euro è salita fino a sfiorare l'85%. La mossa del referendum gli consente di trasformare questi vincoli in un potenziale vantaggio, perfetta anche la scelta della data: il 5 luglio, dopo la scadenza del 30 con l'Fmi ma prima del redde rationem con la Bce. È un messaggio politico forte ai creditori europei e, comunque vada, riapre per Tsipras scenari politicamente gestibili. Se i Greci voteranno sì il premier metterà a tacere l'opposizione interna ed eviterà un insidiosissimo passaggio parlamentare sui contenuti della proposta dei creditori, intestandosi un successo politico. Se i greci voteranno no la sua forza negoziale nei confronti delle istituzioni creditrici aumenterà, e gli consentirà di andare a vedere da posizioni meno fragili quanto il gruppo di Bruxelles è pronto ancora a concedere per non rompere l'indissolubilità della zona euro. Senza contare che i tanti movimenti anti euro che, per comodità, chiamiamo populisti, in Spagna, in Francia ed anche in Italia osservano con attenzione il finale di questa partita.

sabato 27 giugno 2015

Tre libri, un percorso di lettura sul Califfato

Il percorso ideale (e in lingua italiana) per comprendere come si è arrivati alla creazione dello Stato Islamico è costituito da tre libri molto diversi fra loro: Storia dei popoli arabi di Marco Demichelis, Isis. Lo Stato del terrore di Loretta Napoleoni e Il Grande Califfato di Domenico Quirico. Si tratta di un percorso per approcciare il discorso da tre diverse direzioni: il libro di Demichelis fornisce uno straordinario affresco del mondo arabo da Maometto ai giorni nostri, quello di Loretta Napoleoni è un’attenta analisi politica e comunicazionale del fenomeno Isis, quello di Quirico è il reportage di un cronista puro abituato a mescolarsi alla realtà che racconta.


Storia dei popoli arabi, Marco Demichelis

 

Nel Medio e Vicino Oriente l’Occidente ha tracciato – un secolo fa – confini che sono stati subiti dalla popolazioni arabe e che, nel caso specifico di Israele, sono corrisposti a un’occupazione da parte dei coloni e a una ghettizzazione della popolazione palestinese. Il vulnus da cui scaturisce il conflitto con l’Occidente ha radici antiche, Storia dei popoli arabi di Marco Demichelis (Ananke) abbraccia quattordici secoli di storia dell’Islam, come specifica il sottotitolo “Dal profeta Muhammad alle primavere arabe”. Si tratta del libro ideale per chi voglia storicizzare i fenomeni che hanno sconvolto il Medio e Vicino Oriente negli ultimi anni. Ricercatore di Storia del Medio Oriente e Islamistica presso l’Università Cattolica di Milano, Demichelis individua i principali eventi della storia dei popoli arabi: dalle tribù preislamiche all’espansione degli omayyadi sino alla penisola iberica, dalle crociate all’ascesa dell’impero ottomano, dal colonialismo europeo alle guerre del Novecento, per concludere con le primavere arabe. La complessità storica, politica e religiosa dell’evolversi della società araba viene raccontata da Demichelis con una scrittura agile ed estremamente efficace per chiarirsi le idee su molti concetti che ritroviamo spesso nelle cronache senza conoscerne il background. Un libro che attraversa quattordici secoli di storia dei popoli arabi – e che inevitabilmente allarga lo sguardo ai “vicini” Israele, Turchia e Iran – consente una visione d’insieme nella quale lo stretto legame fra politica, religione e società si manifesta in tutta la sua evidenza sin dall’avvento del profeta Muhammad che coincide non soltanto con l’inizio dell’Islam, ma con lo sviluppo di una koinè linguistica che facilita il processo di unificazione delle tribù arabe. Secoli dopo questo processo di autodeterminazione, il colonialismo europeo compirà il peccato originale da cui deriverà l’instabilità cronica della regione mediorientale: l’accordo Sykes-Picot. Il “virus” inoculato dall’occidente, insomma, ha contagiato i paesi arabi ben oltre la fase della decolonizzazione.


st popoli arabi


Come sottolinea Demichelis:

in seguito alla fase di decolonizzazione nessun tentativo di unità tra due o più stati arabi (tra gli anni Cinquanta e Sessanta) ha mai avuto successo. E quindi importante rimarcare come dopo il fallimento del nazionalismo arabo, a partire dagli anni Settanta del XX secolo, l’Islam è tornato a giocare un ruolo eminente in queste società, esprimendo una fede alla quale aggrapparsi per arginare gli effetti di un mondo globalizzato che si fatica a comprendere. Tuttavia il settarismo arabo unito alle idiosincrasie causate dall’ideologia nazionalista, ha generato, in antitesi a un prevedibile ecumenismo religioso, un Islam politico ancorato o a singoli partiti (Fratellanza Musulmana egiziana, Ennhada tunisina, Hamas, ecc…) o a ideologie, come il wahhabismo, che sembrano compiacersi della disunità araba.

In questo contesto sono fiorite le primavere arabe e, successivamente, il Daesh, la cui ascesa e le ripercussioni su tutta la regione verranno descritte nell’aggiornamento del libro previsto per la fine dell’anno.

 

Isis. Lo stato del terrore, Loretta Napoleoni


Loretta Napoleoni è un’economista e un’analista politica, consulente di numerosi enti internazionali e forze di sicurezza. Il suo libro Isis. Lo stato del terrore, edito da Feltrinelli, è un approfondimento serio e documentato sui fattori scatenanti che hanno reso possibile l’ascesa dell’Isis, sulla sua strategia politica, sulle differenze con le altre organizzazioni jihadiste e, soprattutto, sul marketing della paura con il quale l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi si è affermata agli occhi dell’Occidente. Erede di al Zarqawi, il gruppo di al-Baghdadi è, secondo Napoleoni, un terrorismo nuovo: cinico, pragmatico e aperto alla modernità che i suoi predecessori (Al Qaeda, per esempio) rifiutavano.


Il primo segnale del pragmatismo dell’Isis è l’opportunismo con il quale i suoi vertici sfruttano la guerra per procura in Siria, contro il regime di Assad, per costruire la propria base finanziaria. È, questo, un elemento che trova poco spazio nelle cronache mainstream e che Loretta Napoleoni ripropone a più riprese come una delle prove più evidenti del carattere inedito del gruppo armato:
La guerra per procura combattuta in Siria non solo dava a membri dell’Isi l’addestramento militare, ma forniva anche i mezzi finanziari per un rilancio del gruppo, non come una delle tante organizzazioni jihadiste, bensì come un attore politico chiave in grado di conquistare un suo caposaldo territoriale e di gestire una sua macchina militare.
Nulla a che vedere con Al Qaeda, dunque, che non ha mai pensato allo sviluppo della sua rete in termini territoriali. L’Isis ha sfruttato le ambizioni degli sponsor della Penisola Arabica per poi rendersene indipendente. Il suo leader al-Baghdadi ha creato intorno a sé un’aura di mistero, ha capitalizzato al massimo la sua unica apparizione pubblica e poi ha portato avanti la sua strategia espansionistica in due direzioni: l’offerta di un nuovo Welfare ai territori conquistati e un’aggressiva propaganda a sostegno dei vari canali di autosostentamento (riscatti per i rapimenti di occidentali, estrazione e distribuzione di petrolio a basso costo e persino vendita di opere d’arte trafugate dai siti archeologici).
L’altro segno di discontinuità con il passato è, come nota giustamente Napoleoni, il fatto che gli jihadisti proiettavano il loro riscatto nell’aldilà, mentre gli uomini dell’Isis sono sì pronti al martirio, ma vogliono che la rifondazione di uno stato islamico e la salvezza si realizzino nella vita terrena.
La parte più affascinante dell’analisi di Loretta Napoleoni è quella che riguarda la strategia del Daesh sui social network. La brutalità delle esecuzioni caricate su Youtube, così come la distruzione di opere d’arte e le esplosioni in mezzo al deserto sono una pura e semplice operazione di marketing:
lo Stato Islamico sa bene che la violenza estrema è un elemento che fa vendere bene la notizia: in un mondo sovraccarico di informazioni, il ciclo mediatico di ventiquattr’ore cerca immagini sempre più crude; da qui la sovrabbondanza di foto e video di brutali punizioni e torture caricate in formati che possono essere visti facilmente sugli apparecchi di telefonia mobile. Nella nostra voyeuristica società virtuale, quel che appare come una forma di sadismo confezionato in maniera attraente è diventato un grande spettacolo mediatico.
Non c’è più nulla del luddismo talebano, ma nemmeno dello sciatto utilizzo dei video da parte di Al Qaeda: i video dell’Isis sono montati alla maniera dei documentari occidentali. E sui social network i gruppi jihadisti si agganciano ai grandi eventi (come i Mondiali di calcio) sfruttandone gli hashtag per attirare l’attenzione di chi sta in realtà cercando tutt’altro. Detto ciò, il Califfato è ben conscio del fatto che per costruirsi una legittimazione attraverso il consenso popolare occorre molto di più di un’abile campagna di propaganda attraverso i social network. Ecco, allora, che l’eliminazione degli sciiti nei territori sotto il controllo dello Stato Islamico diventa importante per tre motivi: 1) garantisce l’appoggio della popolazione sunnita locale, 2) produce una società etnicamente più omogenea, scongiurando la formazione di fronti di opposizione laica, 3) libera risorse economiche da offrire ai combattenti come bottino di guerra.
Che il Califfato riesca o meno ad affermarsi nel prossimo futuro, il nuovo modello che ha sperimentato ispirerà inevitabilmente altri gruppi armati,
conclude Loretta Napoleoni che in 140 densissime pagine fornisce ai lettori uno straordinario approfondimento che si legge tutto di un fiato.

Il Grande Califfato, Domenico Quirico

Se il libro di Demichelis e quello di Napoleoni sono la testa, Il Grande Califfato è il cuore e le viscere. Domenico Quirico è un cronista di razza, uno di quei giornalisti che rischiano di venire presto spazzati via dall’egemonia del desk e del “giornalismo quantitativo”. Il libro nasce nei giorni della prigionia, in quei cinque mesi fra il 9 aprile e l’8 settembre 2013 nei quali il giornalista de La Stampa è sequestrato dagli uomini di Jabat al Nusra. In quel periodo Quirico percepisce sulla propria pelle che qualcosa sta cambiando:
Ho superato, nel momento in cui sono stato catturato, una frontiera fatale, sono entrato, me ne accorgo vivendo con loro, nel cuore di tenebra di una nuova fase storica, di un nuovo groviglio avvelenato dell’uomo e del secolo che nasce: il totalitarismo islamico globale.
Una volta tornato a casa, Quirico cerca di trasmettere l’idea di un cambio di strategia delle formazioni jihadiste, dell’idea della rifondazione di un califfato, ma la questione sembra non interessare i nostri media. Ci vorranno le esecuzioni di giornalisti e fotoreporter su Youtube per risvegliare l’interesse dell’Occidente che pensa, almeno fino all’estate 2014, che la guerra in Siria e gli attentati di sciiti e sunniti in Iraq siano una questione che riguarda esclusivamente quelle terre.
Quirico cerca di comprendere, ma lo fa da cronista più che da analista, con una scrittura che viene dalle viscere, profondamente umanista e che a tratti sfiora il misticismo. Quirico si interroga sulla natura del fondamentalismo, scavando in una sorta di inconscio collettivo:
Il radicalismo islamico si nutre della sproporzione che c’è tra l’umiliazione che l’Occidente ha imposto all’Islam, fino a farla diventare quasi senso di fatalità, e la nostra pochezza, la nostra fragilità attuale.
L’umiliazione del passato è la forza del presente:
Quello che fa la forza dei loro eserciti, spesso numericamente modesti, è che, da loro, tutti si occupano di tutto e di tutti, e l’ultima recluta ha l’impressione di essere responsabile della condotta della guerra e dell’avvento del regno di Dio. Così questi ragazzi la prendono sul serio. Obbediscono inflessibilmente agli ordini, fanno economie, senza che gli venga richiesto, sulle razioni e le munizioni. Perché sentono che quella che fanno è la loro guerra. Non quella di Bashar o Obama.
Leggere Napoleoni e Quirico, affondare nelle loro differenti narrazioni è come osservare un dipinto da lontano, in una visione d’insieme oppure da vicino, per studiarne le pennellate. Sono due letture per certi versi complementari, anche se non prive di punti di contatto, come, per esempio, quando Quirico parla dell’invisibilità del Califfo:
Al contrario di Bin Laden il califfo non si mostra perché la sua essenza è in ciò che incarna, la carica di comandante dei Credenti e il progetto che guida, creare cioè uno Stato Islamico che cancelli le nazioni imposte dal colonialismo e possa affrontare, faccia a faccia, le potenze dell’Occidente infedele.
Secondo Quirico è il concetto stesso di frontiera ad avere cambiato natura:
in questo mondo ormai i confini esistono non tanto per etnie, nazioni o fedi, piuttosto tra percezioni del mondo, comportamenti, razionalità e fanatismo, pazienza e isterismo, creatività e sete di potere distruttivo.

Per capire il Daesh la razionalità e l’analisi possono essere sufficienti, allo sguardo che abbraccia il contesto (quello di Demichelis e Napoleoni) va accompagnato quello che scava nei particolari e che cerca le ragioni nel quotidiano, quello che per comprendere ha bisogno di vedere davvero. 

 



giovedì 25 giugno 2015

Un uomo, uno stile: Marco Travaglio su Sofri














Lotta contigua
Il Fatto quotidiano, 24 giugno 2015

È con sincero rammarico che apprendiamo la notizia della rinuncia di Adriano Sofri – ex leader di Lotta continua condannato a 22 anni in quanto mandante dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi – a partecipare agli Stati Generali sull’Esecuzione della Pena, organizzati dal ministero della Giustizia, in qualità di esperto di “Cultura, istruzione e sport nel carcere” (soprattutto sport). Rinuncia seguita alle polemiche dei soliti sofistici, tipo alcuni sindacati di polizia e Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato e direttore de La Stampa, che si è addirittura permesso di chiedere spiegazioni al ministro Andrea Orlando, come se in Italia le vittime dei reati e i loro parenti avessero diritto di parola.
Rinuncia comunicata dal noto mandante pregiudicato con una nota giustamente risentita contro chi ha “sollevato un piccolo chiasso attorno alla mia ‘nomina’” e motivata col fatto che lui ne ha “abbastanza delle fesserie in genere e delle fesserie promozionali in particolare”. In attesa di sapere chi si autopromuoverebbe dicendo fesserie sul suo conto, a parte lui, diciamo subito che orbare l’insigne consesso, non a caso denominato “Stati Generali” (e destinato – immaginiamo – a tenersi nella reggia di Versailles), di una così preclara presenza sarebbe un errore imperdonabile. E un’occasione mancata. Nessuno meglio di Sofri, che dei 22 anni di pena è riuscito a scontarne a malapena 7, peraltro seguitando a scrivere per vari giornali di destra e di sinistra e a pontificare con interviste a destra e a manca dalla cella di Pisa, e uscendo poi per gravissimi problemi di salute da cui si è prontamente e fortunatamente ripreso, potrebbe illustrare all’inclita e al colto il concetto tutto italiano di “certezza della pena”. Anzi, la sede di Versailles per l’augusto simposio consentirebbe la presenza aggiuntiva del suo complice Giorgio Pietrostefani, l’altro mandante del delitto Calabresi e anche lui condannato a 22anni, che ha scontato solo in minuscola parte perché dal 24 gennaio 2000 è felicemente latitante proprio a Parigi: latitante si fa per dire, visto che nessuno degli otto governi da allora succedutisi ha mai mosso un dito per ottenerne l’estradizione. Entrambi, Sofri e Pietrostefani, potrebbero insegnare alle giovani generazioni come ordinare un omicidio, scontare meno di un terzo della pena e al contempo tirarsela da intellettuali e da vittime innocenti della malagiustizia, e venire persino creduti; previa iscrizione alla lobby giusta, si capisce.


Ascanio Celestini
Sofri e Travaglio, la galera e il teatro
Internazionale, 25 giugno 2015 


... La forza persuasiva di Travaglio ha qualcosa di molto teatrale e tra i capolavori della persuasione mi ricorda il celebre discorso di Marco Antonio di Shakespeare. Cesare è stato ucciso dai congiurati e sulla sua salma Antonio parla proprio col loro permesso. Anche per questo la plebe gli crede. Bruto ha ucciso Cesare per combattere la tirannia e Antonio utilizza proprio i suoi argomenti per rovesciarne il senso.
Travaglio lo fa in un modo più semplice di Shakespeare, ma ci prova.
La questione che cerco di affrontare nasce dal fatto che Sofri viene invitato dal ministro Orlando a parlare di carcere e giustizia e Travaglio scrive che nessuno meglio di lui può farlo, ma lo dice ricordando che non ha scontato tutti e 22 gli anni di carcere al quale è stato condannato. Scrive che “è riuscito a scontarne a malapena 7” e gioca tralasciando il fatto che per un altro mucchio di anni è uscito di giorno per lavorare e poi è tornato di sera tra le sbarre.
La galera solo di notte, per lui, è villeggiatura come per Berlusconi era il confino ai tempi del fascismo?
Tutti quegli anni non se li è fatti in cella perché, ricorda Travaglio, è uscito “per gravissimi problemi di salute da cui si è prontamente e fortunatamente ripreso”, insomma fa pensare ad un malessere passeggero, forse persino un pretesto, ma non dice che gli si è squarciato l’esofago ed è stato un mese in coma farmacologico.
E conclude la parte in cui parla di Sofri ricordando che “era stato invitato al tavolo proprio in veste di ex detenuto, quindi di profondo conoscitore della materia carceraria, per quel poco che l’aveva sperimentata”.

Sette anni di reclusione per lui sono pochi.
In un testo del 1949 pubblicato su Il Ponte Vittorio Foa scrive che “nessuna pena detentiva dovrebbe superare i tre, al massimo cinque anni”. Foa scriveva cose del genere perché conosceva il carcere. Lo conosceva perché c’era stato rinchiuso. 
... 

 




Simone Lorenzati

Travaglio (che per inciso metterebbe in carcere anche sua madre se potesse) si inserisce benissimo in un Paese che ancora non concepisce il principio che il patto sociale va reintegrato quando chi l’ha violato ha pagato il suo debito. E non concepisce che su questo principio si regge tutto il sistema della pretesa punitiva dello Stato: perchè il valore della pena e della sua esecuzione esistono soltanto se il loro effetto è la riabilitazione del condannato, la sua restituzione al circuito civile e sociale, in tutti i termini che la legge prevede e consente. Altrimenti alla pena legale scontata segue un’espiazione eterna che fa del condannato un ladro, un assassino, un corruttore, un evasore a vita. E l’ergastolo civile e sociale non è proprio compatibile con uno stato di diritto e con il rispetto della garanzia che governa anche l’esecuzione della pena, mettendole termini di durata e obiettivi di risocializzazione. Visto che si autoelegge a difensore della Costituzione che almeno la legga.

mercoledì 24 giugno 2015

Cenerentola ragazza da marito

Nella favola di Cenerentola sono presenti i temi della rivalità fraterna, con conseguenti angosce, della speranza di riscatto, e soprattutto quello dell’identità femminile.




Per quanto riguarda il tema della rivalità si hanno esempi biblici: Caino/Abele, Esaù/Giacobbe, che evidenziano la distruzione di un fratello ad opera di un altro.
Nella Fiaba dei fratelli Grimm, come in quella di Perrault, questa distruzione è rappresentata dall’umiliazione subita dalla fanciulla ad opera delle sorellastre. Nella fiaba dei fratelli Grimm, però, si colgono echi di un antico racconto in cui Aschenputtel era un ragazzo “cenerentolo” in seguito divenuto re.
Vivere in mezzo alla cenere è un’espressione che denota una condizione di inferiorità, inadeguatezza e sottomissione a cui Cenerentola è posta: essa fu costretta a vivere in mezzo alla cenere ma questo ha un significato importante e non è un dettaglio di poco conto.
Se ci fermiamo alla superficie allora non c’è complessità, perché possiamo molto sbrigativamente risolvere la cosa dicendo che la cenere è il simbolo di umiliazioni, di declassamento da una posizione di prestigio di cui essa beneficiava in una posizione di umile sguattera. Ma se torniamo indietro nel tempo e operiamo una equiparazione con il mito, occuparsi del focolare era una posizione importante, addirittura desiderabile - custodi del focolare erano le vergini vestali – era una carica  prestigiosa cui una donna potesse aspirare.
Un'altra implicazione delle ceneri si collega al lutto: il giorno delle Ceneri ci si cosparge il capo; nell’Odissea viene narrato l’atto di sedersi fra le ceneri in segno di cordoglio ed era praticato da molti popoli (James Hastings, Ashes, cit. in B.Bettelheim, Il Mondo incantato), in seguito i richiami alla purezza, al lutto, si sono trasformati nei significati di sporcizia e straccioneria.
Nei racconti moderni, l’accento viene posto sulla rivalità/ostilità nutrita dalle sorelle.
Le diverse versioni aiutano a comprendere quanto il tema della rivalità sia così presente nella vita del Bambino/a e quanto sia un archetipo universale dell’inconscio collettivo: Armonia opposta ad Animosità ed è per questo motivo che si assiste alla trasformazione delle sorelle in sorellastre, dei fratelli in fratellastri, della madre in matrigna o in strega, del padre in orco.
La rivalità si riferisce a una costellazione complessa di sentimenti e sulle loro cause espressione di come, nelle diverse epoche dello sviluppo del bambino/a, le figure della madre e dei fratelli vengano scisse, per proiezione di sentimenti ostili, anche se appartengono alle stesse persone.
Solo attraverso l’assimilazione degli aspetti negativi rimossi e degli aspetti positivi giacenti nell’Ombra,  il bambino/a può ricongiungere le figure scisse in figure intere, in un processo interiore che ha luogo ogni qualvolta l’energia psichica lotta per superare ostacoli, difficoltà,  per conquistare un rinnovamento. Il/la Bambino/a si trova ad esperire sentimenti opposti: talvolta si sente spregevole e sporco, pieno di odio nei confronti dei genitori e dei fratelli, immediatamente dopo è l’innocente maltrattato da creature malvage.

 










Al di là di quelle che possano essere le condizioni esterne, ciò che importa è che questi anni si connettono ad un periodo di sofferenza interiore, privazione, esperienze fatte di incomprensioni, di solitudine, di emarginazione. L’infelicità provata è talmente profonda che agli occhi del/della bambino/a sembra durare all’infinito, e Cenerentola pare provare la stessa intensità di dolore. Così, gli anni trascorsi da Cenerentola in mezzo alla cenere suggeriscono al bambino/a che nessuno può sfuggire a tale esperienza, anche se ci sono momenti in cui sembrano prevalere  forze ostili, il sollievo ottenuto da Cenerentola grazie all’intervento di forze benevole rassicura e tranquillizza il bambino/a.
Altri temi centrali sono: il nocciolo, la scarpina, il piedino, l’identità femminile, che esamineremo in seguito. 


Cenerentola è nota principalmente in due forme diverse: una dovuta ai fratelli Grimm e l'altra a Perrault, le due versioni hanno notevoli differenze.
La fiaba presentata da Perrault ha un inconveniente -peraltro comune a tutte le sue favole - di essere stata in qualche misura "depurata" di contenuti a suo avviso volgari, per rendere il racconto un prodotto più adatto a corte. Egli prese spunto dal materiale tratto dalla tradizione orale, forse anche da Basile, certamente ha operato, però, tagli e aggiustamenti inserendo elementi più raffinati, inventando particolari e modificando altri in modo che la storia risultasse conforme ai suoi concetti estetici, come ad esempio l'invenzione della "scarpina di vetro". Questo è un dettaglio importante che si ritrova esclusivamente nelle versioni derivate da quella di Perrault e che è stato ed è ancora oggetto di controversie.
Sembra, infatti, che Perrault udita la storia abbia scambiato il termine vair (che significa pelliccia variegata) per  verre (che significa vetro); in francese le due parole hanno la stessa pronuncia e quindi è probabile che il favolista abbia scambiato una pantofola foderata di pelliccia per una fatta di vetro. Ad ogni modo, non vi è dubbio alcuno che la scarpetta di vetro sia una deliberata invenzione di Perrault così come tutte le favole di Cenerentola da lui derivate, si trascinano dietro questa modifica.
La versione scozzese di Rashin Coatie è molto più antica della Gatta Cenerentola di Basile e di quella di Perrault, è citata da Murray (1872); si racconta della pantofola di pelliccia indossata dalle sorellastre di Rashin Coatie, dopo che la madre le ha costrette ad amputarsi il tallone e le dita dei piedi. Se la scarpetta fosse stata di vetro il sangue si sarebbe visto immediatamente, mentre sembra che sia stato un uccello a rivelare l'inganno.
La versione dei Fratelli Grimm  ha il pregio di rimanere fedele ai racconti tradizionali, come d'altra parte lo sono tutte le fiabe da loro recuperate; le storie raccolte dai fratelli, trattengono vivo il folklore locale come è stato tramandato oralmente, le immagini sono più vicine a persone reali, così ad esempio, in Cenerentola si evidenzia l'assenza di autosvilimento della fanciulla che viene presentata non come un'eroina melensa e sdolcinata, senza iniziativa che si auto emargina, al contrario, ella è una ragazza che chiede, tanto per portare un altro esempio, di partecipare al ballo, ubbidisce sì alle richieste assurde della matrigna e delle sorellastre, ma non demorde continua a chiedere, desidera partecipare al ballo.
E va al ballo, se ne va spontaneamente e si nasconde al principe che cerca di seguirla. Nella versione di Perrault, allo scoccare della mezzanotte Cenerentola fugge non perché le sembra giusto farlo, ma soltanto in ottemperanza all'ordine della fata madrina: ella rischia che la carrozza si trasformi in zucca, i valletti in topini, i suoi bellissimi abiti in stracci.
Un altro aspetto che sottolinea le differenti versioni dei due autori si presenta quando viene il momento di fare la prova della deliziosa scarpetta: nella fiaba di Perrault, non è il principe che va alla ricerca della fanciulla, egli invia il suo ciambellano alla ricerca della proprietaria del prezioso oggetto. Prima che Cenerentola incontri il principe, interviene la fata madrina che la veste con un abito meraviglioso; qui si perde un particolare importante presente, invece, nella versione dei Fratelli Grimm: è il principe che si muove alla ricerca della ragazza, egli non si lascia influenzare dall'aspetto trasandato, misero e cencioso di Cenerentola, egli riconosce le qualità intrinseche della giovane a dispetto della sua apparenza esteriore.
Il principe porge la "scarpetta" a Cenerentola ed è lei ad indossarla, dimostrandogli - come dice Bettelheim - che "sarebbe stata in grado di determinare il suo destino e il suo piacere"; in termini di psicologia analitica Cenerentola presenta il suo Animus, la componente maschile della sua psiche, ma solo dopo che il principe, nel porgerle la scarpetta, compie un gesto importante:il riconoscimento della sua identità e della sua femminilità.
Nella versione dei Fratelli Grimm quando il padre di Cenerentola parte, chiede cosa desiderino come doni, le figliastre chiedono vestiti e gioielli mentre Cenerentola un ramo di nocciolo. In alcune versioni, invece del nocciolo è un Pero, in altre un albero di datteri. Nel mondo della simbologia l'albero di nocciolo e il frutto hanno grande rilevanza nella popolazione germanica e nelle popolazioni nordiche: Iduna, dea della vita e della fertilità è liberata da Locki che, trasformatosi in Falco, la rapisce sottoforma di Nocciola. Al ritorno del padre Cenerentola ottiene il dono richiesto e va subito sulla tomba della madre, pianta il ramo e lo innaffia di lacrime unitamente alle preghiere più volte al giorno fin quando il ramo non diventa albero.
 La nocciola, nei riti matrimoniali (ad Hannover in particolare) è presente nel grido tradizionale della folla "nocciole, nocciole" e  il terzo giorno dopo le nozze, la sposa distribuisce nocciole per indicare che il matrimonio è stato consumato. In seguito questo albero della fertilità è stato trasformato dall'immaginario collettivo - condizionato dal Cattolicesimo del Medioevo - in albero della dissolutezza e in alcuni canti folkloristici il nocciolo è opposto all'Abete considerato l'albero della costanza.
  Nella Tradizione celtica il Nocciolo è da sempre collegato a pratiche magiche: in tutti i testi celtici insulari, il nocciolo, insieme al Sorbo, è considerato albero sacro dal carattere magico e, a questo proposito, entrambi sono impiegati dai Druidi come supporto di incantesimi. Sul suo legno vengono incisi Ogam o lettere misteriose dal sapore magico. Per il tempo lungo impiegato dai suoi frutti per giungere a maturazione, si associa il simbolo della pazienza e della costanza nello sviluppo dell'esperienza mistica i cui frutti si fanno attendere.
  Il Pero in Cina era simbolo di lutto per i suoi fiori bianchi che rappresenterebbero e significherebbero il carattere effimero dell'esistenza; i fiori sono di estrema fragilità e durano poco. Il suo frutto - la Pera - "è un simbolo tipicamente erotico e pieno di sensualità, ciò è probabilmente dovuto al suo sapore dolce, all'abbaondanza di succo, ma anche alla sua forma che evoca qualcosa di femminile" (E. Aeppli, I sogni e la loro interpretazione, 1949).
La simbologia della Scarpa è vasta e di questo oggetto di abbigliamento se ne parla anche nella Bibbia. In lingua germanica Skarpa, significa "tasca di pelle" ed è facile la vicinanza a "pantofola di pelliccia" invece che a "scarpetta di vetro". Oggetto dell'evoluzione dallo stato selvaggio alla civiltà, la scarpa è collegata allo spostamento e, se accostata al forma mitica, ha proprietà magiche che permettono al possessore di liberarsi delle leggi fisiche che lo ancorano alla terra, alla materia.
Le origini del simbolismo della scarpa vengono da lontano, forse a partire dall'immagine del Potere (Re, Faraoni, Sacerdoti, Cavalieri,ecc.) i cui piedi sono calzati come pure quelli di uomini liberi in contrasto con gli schiavi che camminano a piedi nudi.
Anticamente lo scambio o il dono delle scarpe assumeva il valore di firma di patti e di contratti; questo rituale aveva particolare importanza nel matrimonio. Nella Bibbia vi sono diversi accenni alla scarpa: lanciando la scarpa della giovane sposa, il padre trasferisce la sua autorità al futuro marito, gesto che allude simbolicamente all'appropriazione, cioè che da quel momento in poi la moglie "appartiene", diventa proprietà del suo sposo. Una tradizione che si è perpetuata nel tempo, se ancora oggi in alcuni paesi è in uso attaccare le scarpe al veicolo degli sposi.
Nella favola di Cenerentola la scarpetta assicura il legame tra il principe e la fanciulla oltre a chiarire il simbolismo sessuale della scarpa e del piede. Esiste un'espressione popolare "trovare la giusta scarpa per il proprio piede" indicante anche l'identità del possessore.
Non c'è che un unico piede al mondo che può calzare quella "scarpetta di vetro" anzi, "quella preziosa pantofola di pelliccia", metafora inequivocabile per dire che il cuore del principe non può che battere per una sola fanciulla: Cenerentola, appunto.
Nella lettura psicoanalitica il simbolismo della scarpa è la incarnazione della vagina e il piede del pene. La penetrazione del secondo rivela la necessità di un adattamento che può arrivare all'adeguamento perfetto. In quanto oggetto che contiene, la scarpa è simbolo del femminile, esattamente come lo sono la matrice, la conchiglia, la coppa; il piede, di contro, per la sua forma e in quanto parte del corpo che entra nella scarpa, è il simbolo del maschile. Appartenendo entrambi alla stessa persona si rappresentano i due lati della personalità il lato maschile e femminile sia nella donna sia nell'uomo.

http://guidapsicologiadsteck.blogspot.it/2012/03/fiabe-2.html
con adattamenti 

 

martedì 23 giugno 2015

Recalcati, lo straniero in casa


Massimo Recalcati
Lo straniero interiore che preme alle frontiere
L’emergenza migranti e la difesa del confine: cosa ci fa davvero paura
la Repubblica, 23 giugno 2015


LA DIFESA del confine o il suo allargamento ha armato da sempre la mano degli uomini. L’origine della violenza trova nel confine l’oggetto della sua passione più fondamentale: la distruzione del nemico-rivale muove Caino nel suo sogno narcisistico di essere l’unico, di far coincidere il proprio confine con il confine del mondo. È il delirio di tutti i grandi dittatori. Innumerevoli volte, nel corso della storia, il confine è diventato una questione di vita e di morte. Eppure l’esistenza del confine è necessaria alla vita. Alla vita di una città o di una nazione, ma anche alla vita individuale. Abbiamo bisogno di confini per esistere. È un problema di identità. Si può esistere senza avere un senso di identità? Senza radici e senza sentimento di appartenenza? La psicoanalisi insegna che la vita psichica necessita di avere i propri confini. Questa necessità non è in sé patologica, né delirante, ma concerne un polo fondamentale del processo di umanizzazione della vita. Ecco perché la famiglia (al di là di ogni sua versione tradizionale — naturalistica) resta una istituzione culturale essenziale alla vita umana. In essa si esprime il bisogno di radici, di casa, di discendenza, di appartenenza, di riconoscimento che definisce la vita in quanto vita umana. Non bisogna sottovalutare l’incidenza di questa forte dimensione simbolica dell’identità.
NEI MOMENTI di crisi tendiamo ad accentuare il polo dell’appartenenza per ritrovare in esso un rifugio contro l’angoscia e lo smarrimento. Per questa ragione le grandi svolte reazionarie sono storicamente sempre state precedute da profonde destabilizzazioni dell’ordine sociale. Il bisogno di conservazione è strettamente connesso alla vertigine provocata dalla caduta del confine identitario. Senza confini la vita perde se stessa, si polverizza, si frammenta. È quello che insegna drammaticamente la psicosi schizofrenica: senza senso di identità la vita si disgrega, non ha più un centro, non sa più differenziarsi, non sa più riconoscersi nella sua differenza. Per scongiurare questo rischio, come la psicologia delle masse insegna, si può invocare un rafforzamento del confine, una sua impermeabilizzazione estrema. Il “protezionismo” economico diventa in questo caso sintomatico: si tratta di proteggere l’identità di una città o di una nazione minacciata nella sua integrità e nella sua storia; si tratta di difendere il prodotto “interno” dall’invasione di quello che viene dall’”esterno”; si tratta di ristabilire i confini, di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro. È questa una spinta sempre presente nella vita psichica che, come Freud ha indicato, manifesta una resistenza strutturale al cambiamento: di fronte al pericolo dell’alterazione dell’identità l’apparato psichico reagisce, infatti, rafforzando la sua tendenza omeostatica: ridurre le tensioni al più basso livello possibile, evacuare, scaricare l’eccitazione ingovernabile.
E tuttavia esiste un altro polo – altrettanto essenziale allo sviluppo della vita psichica come a quello di una città o di una nazione – che è quello dell’apertura, della necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti, la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno di appartenenza verso una contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. In questo senso la famiglia è tanto essenziale alla vita quanto lo è il suo declino. Per questo Lacan affermava che il compito più difficile che attende il soggetto nel suo processo di umanizzazione è quello di fare “il lutto del padre”. La vita, come insegna del resto anche Spinoza, può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine che gli è stato necessario alla sua istituzione. Quando la vita di un gruppo, di una città , di una nazione, di un soggetto si ammala? Cosa davvero fa declinare la vita, cosa la rende patologica? La psicoanalisi propone una risposta sconcertante: la vita che si ammala è quella che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. Se il confine serve a rendere la vita propria, questo confine, per non diventare soffocante, deve, come si esprimeva Bion, divenire “poroso”, permebabile, luogo di transito. Se invece il confine assume la forma della barriera, della dogana inflessibile, se diviene presidio, luogo impossibile da valicare atrofizza e non espande la vita. Venendo meno l’ossigeno indispensabile dell’alterità, la vita si ammala e declina. La necessità del confine va quindi unita con la necessità del movimento e del transito al di là del confine. In questo senso la difesa della purezza identitaria è sempre animata da un fantasma fobico che non lascia spazio allo straniero. Ma a quale straniero? Il nero, l’ebreo, l’extracomunitario? Un altro insegnamento prezioso viene dalla psicoanalisi: lo straniero prima di venire da fuori, abita in noi stessi. Ciascuno di noi porta con sé il proprio “nemico”; ciascuno di noi è Caino, ciascuno di noi è straniero a se stesso. Per questo Freud suggeriva di definire l’inconscio come un “territorio straniero interno”. Dove l’ambiguità di quella espressione (“straniero interno”) dovrebbe essere sufficiente per scalfire l’irrigidimento paranoico-immunologico del confine identitario. Non si tratta di esaltare un nomadismo senza radici che cancellerebbe le differenze particolari, di negare ingenuamente la necessità del confine, ma di integrare innanzitutto lo straniero-interno rendendo i nostri confini più plastici. Avevano ragione Deleuze e Guattari in Mille piani ad ammonirci: attenzione al «fascista che siamo noi stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla conservazione di noi stessi che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente realizzata che anziché rendere porosi i suoi confini li sa solo armare.