martedì 6 dicembre 2022

Clarissa Dalloway: apparenza fisica e pensieri


 

Virginia Woolf, La signora Dalloway, 1925, traduzione di Nadia Fusini

Si irrigidì appena sul marciapiede, aspettando che passasse il furgone di Durtnall. Una donna affascinante, pensò di lei Scrope Purvis, (che la conosceva come ci si conosce tra vicini a Westminster): somigliava a un uccello, a una gazza verde-azzurra, esile, vivace, malgrado avesse più di cinquant'anni, e le fossero venuti tanti capelli bianchi dopo la malattia. Se ne stava posata lì, senza neppure vederlo, in attesa di attraversare la strada ben diritta.

Increspava le labbra quando si guardava allo specchio. Era per dare espressione al volto. Quelle era lei - tesa, appuntita, precisa. Era lei quando un qualche sforzo, un richiamo a essere se stessa, la obbligava a costringere tutte insieme le sue parti, lei sola sapeva quanto diverse, quanto incompatibili tra loro, e soltanto per il mondo ricomposte intorno a un centro, un diamante, una donna che, seduta nel suo salotto, costituiva un punto fermo, un centro di luce, non c'è dubbio, per alcune vite, un rifugio in cui ripararsi per i solitari, forse. Aveva contato per dei giovani che le erano grati, aveva cercato di essere sempre la stessa, senza mai mostrare neppure un segno di tutti gli altri suoi aspetti - i difetti, le gelosie, le vanità, i sospetti. 

Sotto sotto, era molto furba - sapeva giuducare il carattere delle persone molto meglio di Sally, per esempio, ma rimaneva con tutto ciò assolutamente femminile; con quel dono straordinario, un dono tipicamente femminile, di ricrearsi il proprio mondo, dovunque le capitasse di trovarsi. Entrava in una stanza, stava lì come spesso le aveva visto fare, in piedi sulla soglia, con tante persone intorno. Ma era Clarissa che rimaneva nella mente. Non che facesse colpo, non era affatto bella, non c'era niente di pittoresco in lei, non diceva mai niente di particolarmente intelligente, ma c'era, era lì.

E ora Clarissa scortava il Primo Ministro per la sala; trottava, frizzava, con tutta la dignità della sua capigliatura grigia. Portava degli orecchini e un vestito verde argento da sirena. A cavallo delle onde, coi capelli raccolti in trecce, ancora possedeva il dono di essere, di esistere, di riassumere tutto nel momento che passava; volgendosi, la sciarpa le si impigliò nel vestito di una signora; la liberò, rise, il tutto con una perfetta naturalezza, con l'aria di una creatura che galleggia nel proprio elemento. Ma gli anni l'avevano sfiorata; allo stesso modo, in una serata limpida, una sirena sulle onde può vedere nel suo specchio il sole che tramonta. Emanava da lei un alito di tenerezza: la severità, la pudicizia, la legnosità di prima erano ora pervase di calore, e mentre diceva arrivederci all'uomo robusto e pieno di galloni d'oro che ce la metteva tutta, e tanti auguri, per sembrare importante, tutto intorno a lei alitava un'ineffabile dignità, una cordialità squisita; come se augurasse ogni bene al mondo intero, ma ora doveva andare, perché era proprio nel bel mezzo di qualcosa, sull'orlo, al limite.

"Se dovessi morire ora, sarebbe la perfetta felicità" s'era detta una volta, scendendo le scale vestita di bianco.


 

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