Il consenso e il mandato, la Repubblica, 12 marzo 2023
È una
strana creatura, finalmente uscita dal Novecento e liberata dalle
ruggini ideologiche sopravvissute alla lezione del secolo, questo Pd che
ieri si è affacciato alla post-modernità nello scenario della “Nuvola”,
col disegno del tempo sospeso. Presentato come agonizzante dopo la
vittoria elettorale della destra estrema guidata da Giorgia Meloni,
accompagnato da preci che chiedevano il suo scioglimento per adempiere
alla falsa profezia secondo cui l’antitesi destra-sinistra non riusciva
più a interpretare le contraddizioni del nuovo mondo, di colpo con la
vittoria di Elly Schlein il Pd ha risolto il problema capitale del
primum vivere . Adesso bisogna inventare una filosofia del nostro tempo,
in grado di risolvere l’incertezza del Paese e persino di governarla
recuperando un rapporto di fiducia nella società, partendo da quel
deposito di energia democratica che non si vedeva a occhio nudo e che le
primarie hanno svelato.
Come in tutte le fasi di crisi, che radicalizzano i problemi rendendo
evidenti le vie di fuga, quanto è accaduto ha una lettura semplice: il
sistema politico è talmente stremato che l’ultima speranza viene riposta
soltanto nel cambiamento. Persino Giorgia Meloni, ministro di
Berlusconi già nel 2008 — quindici anni fa — è stata scambiata per una
novità, privilegiando la sua provenienza dall’altromondo piuttosto che
il suo curriculum castale di lungo corso.
Questo sentimento generale da tempo si è incanalato per gran parte
nella palude civica dell’astensione, arrivata ormai a una quota del 40
per cento che contrasta col principio costituzionale del voto come
dovere civico verso il Paese: nella convinzione per cui la posta in
gioco è così bassa, e le differenze sono così irrilevanti, che non vale
la pena alzarsi dal divano per esprimere una preferenza. Ma c’è
evidentemente una riserva d’impegno civile, convinta al contrario che il
diritto di cittadinanza si esprime proprio nella capacità di
distinguere comunque e nel dovere di scegliere in ogni caso, prendendo
parte. A sinistra, nonostante le delusioni e le frustrazioni accumulate,
questa disponibilità democratica ha continuato a covare sotto la cenere
governista, nell’illusione ministeriale che intanto viveva
artificialmente e contronatura, separando il voto dall’esercizio del
potere.
Radicali e
spettacolari, concentrate sui leader trasformati in personaggi piuttosto
che sulle idee tradotte in programmi, le primarie sono diventate
insieme la valvola di sfogo e il mezzo d’espressione di questa energia
repubblicana compressa, arrabbiata, delusa ma comunque viva, addirittura
irriducibile.
Perforando gli incomprensibili rituali di partito e il viluppo di regole
trasformate in ossessione procedurale, hanno aperto uno spiraglio di
democrazia diretta, senza la ritualità maestosa di un congresso ma con
l’irruzione della sovranità di base, quando il potere di scelta si
sposta dalla nomenklatura agli elettori. Per un giorno il partito —
unico in Italia — si apre, si espone al giudizio, e diventa
contendibile. Anzi di più: scalabile. Questa è la vera chiave di
interpretazione dell’uso politico delle primarie, perché unisce il
testardo senso di appartenenza con il decisivo istinto di sopravvivenza,
testimoniando l’urgenza vitale del cambiamento come ultima spiaggia. E
dunque premia chi dà l’assalto al quartier generale rispetto a chi
amministra lo status quo, con un pregiudizio di massa a favore della
scalata, versione riformista, si potrebbe dire, della spallata d’altri
tempi.
La
partecipazione e il consenso sono quindi un’arma a doppia lama: perché
contengono il senso della speranza residuale e il rifiuto della pratica
politica attuale, l’adesione e la repulsione, l’attaccamento e il
distacco. In questo senso gli elettori delle primarie hanno votato
soprattutto per se stessi, cioè per confermare una loro personale
fedeltà a un’idea e a un’identità, anche se non le sentono
rappresentate. Poi naturalmente Schlein si è presentata all’incrocio tra
questi due sentimenti politici come la figura piùpronta a impersonarli
entrambi, sommandoli nella promessa di azzardo e di sfida. Ma anche lei,
tra gli applausi che ieri hanno salutato l’incoronazione, deve sapere
che la sua vittoria è fatta più di un mandato che di un consenso: èla
magnifica condanna a cambiare, partendo dalla necessità di interpretare
l’identità incompiuta della sinistra di fine secolo, finalmente risolta,
non ideologica, europea, occidentale, radicale nei principi, liberale
nel metodo.
Conciliare
l’unità del partito (senza farsi ricattare dall’eterna minaccia di
scissione) con la necessità continua del rinnovamento non è semplice: ma
è il ballo che la nuova segretaria deve ballare, ad ogni costo. Insieme
con l’impegno a difendere e sviluppare i diritti senza fare soltanto
una collezione di minoranze, ma innestandoli sul grande albero di una
moderna cultura del lavoro, tenendo insieme l’emancipazione dal bisogno e
l’innovazione del sistema: per combattere le ingiustizie soprattutto
quando diventano esclusioni, puntando a costruire una forza sociale e
non solo politica interessata a un Paese più giusto e più libero, anche
dalle sue ossessioni ideologiche tardive. La disumanità mostrata dal
governo a Cutro apre addirittura uno squarcio di civiltà alternativa, la
civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri: su cui si può
sfidare fino in fondo questa destra immemore.
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