Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
La sera del dì di festa (1820)
Omero, Iliade, VII, 555-559, trad. Giacomo Leopardi
Sì come quando graziosi in cielo
Rifulgon gli astri intorno della luna,
E l’aere è senza vento, e si discopre
Ogni cime de’ monti ed ogni selva
Tutto quanto l’immenso etra si schiude
E vedesi ogni stella
Non si dovrebbe isolare l’inizio di una poesia dal resto, non si
dovrebbe illustrare Leopardi ricorrendo a un paesaggio notturno e a
una immagine femminile di molti anni successiva all’epoca in cui i versi
furono scritti. E poi la donna non dorme nel quadro, come fa invece
nelle parole del componimento. Bene. Questi abusi hanno una loro ragion
d’essere. Leopardi sa restituire in poche pennellate la calma sovrana e
imperturbabile del mondo. È ferito dalla visione della bellezza che, come
sappiamo da Stendhal, è promessa di felicità. Si sente escluso, e ne
soffre, ma non per questo reagisce negando alla scena lo splendore.
Mentre soffre, continua ad avvertire il richiamo di quel mondo che
osserva con sguardo penetrante e attonito. Questo è un momento della sua
avventura spirituale. Si tratta di percepirlo in tutta la sua forza.
Tutto il resto verrà dopo, certo. Intanto l’idillio appena rotto dal
sentimento dell’ infelicità c’è stato. Ed è stato trasferito sulla
pagina con immediatezza. Questo autorizza, volendo, la disinvoltura del
taglio e delle illustrazioni.
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