Stefano Folli, Porta a Draghi il disegno centrista, la Repubblica, 11 febbraio 2022
È sempre più evidente quale sia la partita politica che si sta giocando dietro le manovre per così dire neo-moderate, volte a creare spazi politici per un raggruppamento di centro, quello che gli avversari definiscono con sarcasmo un “centrino”. L’operazione in sé non avrebbe grande respiro se non fosse collegata a una precisa prospettiva: mantenere Mario Draghi alla presidenza del Consiglio anche dopo le elezioni del 2023. S’intende, non si tratta di coinvolgere il premier nella campagna elettorale, tanto meno chiedergli di guidare una lista con il suo nome: l’esperienza di Monti nel 2013 rappresenta un precedente negativo che nessuno pensa di ripetere.
La questione è un’altra e l’ha ben descritta il sindaco di Bergamo, Gori, nell’intervista a Repubblica raccolta da Giovanna Vitale.
La maggioranza di semi-unità nazionale non è destinata a durare molto a lungo. È vero, il nuovo mandato di Mattarella contribuisce a ingessare il quadro politico, ma la logica dell’emergenza non può essere eterna (benché ci sia chi lo spera). Il voto del prossimo anno cambierà lo scenario. Come e in quali termini, nessuno finora lo sa.
Ma c’è chi lavora, da un lato, per staccare il Pd dall’alleanza strategica con quel che resta dei “grillini”; e dall’altro per spingere a destra, fuori dall’area di governo, Fratelli d’Italia e la fazione della Lega che segue Salvini. Nello spazio così creato potrebbero convergere i reduci di Forza Italia e vari segmenti che si rappresentano come liberal-democratici, dai renziani fino a +Europa, magari anche il “partito dei governatori” d’impronta leghista: varie sfumature moderate e, chissà, in qualche caso persino riformiste.
Di sicuro non sono gruppi e personaggi abituati ad andare d’accordo tra loro, ma ecco la novità, se possiamo chiamarla così.
Questo raggruppamento assai eterogeneo, forse troppo, dovrebbe diventare il partner privilegiato di un Pd che non abbandona del tutto il M5S al suo destino, ma lo tratta da alleato minore, di fatto un vassallo.
E poiché l’equilibrio sarebbe instabile — figlio di un sistema di cui abbiamo appena sperimentato la precarietà nei giorni del Quirinale — , si chiederebbe a Draghi di continuare la sua opera a Palazzo Chigi alla testa non più di una maggioranza di “larghe intese”, ma di una coalizione politica. Certo, il premier non sarebbe coinvolto nei giochi elettorali dei partiti, ma diventerebbe il punto di riferimento dei gruppi “centristi” con il sostanziale consenso del Pd.
È, come si vede, un piano complicato e ancora confuso, senza dubbio con pochi precedenti.
Presuppone una legge elettorale proporzionale, senza la quale le ambizioni “centriste” rimarrebbero solo sogni. In secondo luogo, il Pd dovrebbe fare buon viso a cattivo gioco: da un lato puntare, come è ovvio, a essere il primo partito nel nuovo Parlamento; e al tempo stesso rinunciare a esprimere il presidente del Consiglio, perché solo con tale sacrificio la coalizione nascerebbe con un minimo di equilibrio e con un profilo adeguato ai momenti tempestosi che ci attendono.
C’è molta strada da fare prima di realizzare un simile progetto, che tuttavia non è privo di logica. Non avrebbe infatti molto senso trattenere Draghi a Palazzo Chigi, in luogo di eleggerlo al Quirinale, per congedarlo pochi mesi dopo. Viceversa, un disegno che gli permetta di restare più a lungo alla guida del paese può essere condiviso o no, ma almeno è un’operazione politica.
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