Dante, Purgatorio, XXXI, 64-145
Quali fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti,
tal mi stav’io; ed ella disse: "Quando
per udir se’ dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando".
Con men di resistenza si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
o vero a quel de la terra di Iarba,
ch’io non levai al suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l’argomento.
E come la mia faccia si distese,
posarsi quelle prime creature
da loro aspersïon l’occhio comprese;
e le mie luci, ancor poco sicure,
vider Beatrice volta in su la fiera
ch’è sola una persona in due nature.
Sotto ’l suo velo e oltre la rivera
vincer pariemi più sé stessa antica,
vincer che l’altre qui, quand’ella c’era.
Di penter sì mi punse ivi l’ortica,
che di tutte altre cose qual mi torse
più nel suo amor, più mi si fé nemica.
Tanta riconoscenza il cor mi morse,
ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,
salsi colei che la cagion mi porse.
Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,
la donna ch’io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: "Tiemmi, tiemmi!".
Tratto m’avea nel fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
sovresso l’acqua lieve come scola.
Quando fui presso a la beata riva,
’Asperges me’ sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.
"Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo
lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo".
Così cantando cominciaro; e poi
al petto del grifon seco menarmi,
ove Beatrice stava volta a noi.
Disser: "Fa che le viste non risparmi;
posto t’avem dinanzi a li smeraldi
ond’Amor già ti trasse le sue armi".
Mille disiri più che fiamma caldi
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra ’l grifone stavan saldi.
Come in lo specchio il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti.
Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l’idolo suo si trasmutava.
Mentre che piena di stupore e lieta
l’anima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta,
sé dimostrando di più alto tribo
ne li atti, l’altre tre si fero avanti,
danzando al loro angelico caribo.
"Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi",
era la sua canzone, "al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele".
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?
Anna Maria Chiavacci Leonardi
Niente è risparmiato all'autore protagonista. Per tutto il Purgatorio gli spiriti accusano se stessi dei loro gravi peccati – ricordiamo Manfredi, Umberto, Sapia, Adriano, il Guinizelli – cancellati dal pentimento, dalle lacrime, dalla misericordia divina; ma ora l'autore assume su di sé, nel presente – non ascoltiamo più un ricordo, ma vediamo l'azione mentre si compie – quel carico di accuse e di lacrime. Questo fa della scena il centro drammatico, e il cuore ideale di tutta la cantica.
Essa tocca la sua acme quando Dante, alzando infine il volto a guardare Beatrice, la intravede, pur velata e lontana, molto più bella di quella sé stessa antica che egli ricordava. Ed è quella bellezza nascosta che – straordinaria invenzione del poeta – provoca in lui la più profonda puntura del pentimento (l'ortica), tanto da fargli perdere i sensi. Nel V dell'Inferno egli sviene per l'intensità della pietà, evidente segno del coinvolgimento personale (ciò infatti non accade altrove, di fronte a ben più strazianti pene): qui la situazione sembra rovesciarsi: ciò che lo vince è l'acutezza del doloroso sentimento non della propria pena, ma della propria colpa.
In questo stesso momento egli diventa in grado di bere dal Lete, e di passarlo. Il limite tra i due mondi è varcato attraverso lo spezzarsi del cuore. L'antico simbolo pagano dell'oblio assume qui un ben diverso e profondo significato. L'uomo che dimentica significa in realtà che Dio ha dimenticato. Dio «non si ricorda più» del peccato dell'uomo (Is. 43, 25). Tutto è cancellato, lavato, sparito. Il versetto intonato dagli angeli (Asperges me) dice infatti che l'animo diventa candido più della stessa neve.
L'intensità drammatica della prima parte del canto va ora allentandosi, nella scena del lavacro, della danza delle virtù che accolgono Dante, preparando lentamente il momento finale dello svelamento, vertice poetico di tutti e due i canti.
In quegli ultimi mirabili sette versi – dove nel volto di Beatrice viene per la prima volta nel poema a manifestarsi direttamente la realtà divina – risplende anche la prima anticipazione dell'alto linguaggio del Paradiso, nel suo allusivo fulgore, insieme velo (che adombra) e realtà (che si solve, si apre all'occhio dell'uomo).
Qui la Beatrice antica; cioè terrena, che pur si intravedeva chiaramente sotto il velo anche se vinta dalla nuova, sembra – per questo breve squarcio, misurato dai pochi versi – del tutto scomparsa. Irrompe in queste due terzine l'albore della luce divina (il «candor lucis aeternae» evocato dal v. 138), ma temperato dai due grandi verbi, armonizzando, adombra: il richiamo al correre parallelo delle due realtà – cardine dei due canti – pervade anche questi ultimi versi; quasi che la bellezza dell'uomo nella sua perfezione – il Paradiso terrestre – sfiori, lambisca la stessa bellezza divina, adombrandone la luce. Di fatto è in un volto umano che tale luce si fa visibile.
Franco Nembrini, In cammino con Dante, Garzanti, Milano 2021, pp. 209-211
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