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Condorcet |
Al di là del metodo, va sottolineato che per Dahrendorf la concezione delle
chances di vita assurge a teoria/filosofia della storia. Nel suo famoso saggio “La libertà che cambia” egli scrive: “Le
chances
di vita sono le impronte dell’esistenza umana nella società:
definiscono fino a che punto gli individui possono svilupparsi (…). La
particolare combinazione di opzioni e legami, di possibilità di scelta e
di vincoli di cui sono costituite le
chances di vita è ciò che
ci consente di valutare il senso della storia. Ciò che è decisivo
naturalmente non è questa combinazione, ma il fatto che possano esistere
chances di vita nuove in senso stretto (…). Se questo genere
di considerazioni significa qualcosa, la conseguenza almeno è che si
rende possibile un senso della storia. Esso consisterebbe proprio nel
creare più
chances di vita per più uomini”
.
Giovanni Orsina, La destra orgogliosa e la scoperta dei valori, La Stampa, 22 ottobre 2002
La composizione del governo Meloni rende
ancor più evidente un dato di fatto che, del resto, è sempre stato sotto
ai nostri occhi: alle elezioni ha vinto la destra. Non una destra
«estrema» entro i cui confini si aggirerebbero, con sguardo torvo e viso
arcigno, «ultra»-cattolici a braccetto con «iper»-conservatori, come
troppo spesso si dice in Italia e all'estero con l'intento piuttosto
evidente di delegittimare una parte politica appiccicandole addosso
un'etichetta iperbolica. Ma nemmeno un centrodestra liberale o al più,
com'era Forza Italia nella sua stagione d'oro, liberal-populista. No:
una destra solidamente e orgogliosamente tale, popolata di conservatori
laici e cattolici. Siamo di fronte a una svolta radicale? Di per sé la
nascita di un governo in Italia, Paese di statura media, non è in grado
di generare una mutazione storica d'importanza primaria. Può tutt'al più
essere la spia di un cambiamento di clima.
E,
questo sì, mi pare che il governo Meloni lo sia, che sia la conseguenza
della rivolta, visibile su scala planetaria, di settori in genere non
maggioritari ma assai consistenti dell'opinione pubblica contro
l'accoppiata globalizzazione-individualismo e il suo impatto devastante
su identità e legami sociali.
Le
prime a essere sfidate da questa rivolta e dalle sue conseguenze sono la
cultura e la politica progressiste. Le quali per la verità, almeno
finora, non si sono dimostrate granché all'altezza della sfida. Il
progressismo ha reagito al montare dell'onda conservatrice facendo forza
su una concezione – appunto – progressista della storia: la storia
avrebbe una logica e una direzione e, una volta superate certe soglie,
indietro non si può più tornare. Da qui l'accusa che vien mossa ai
conservatori di essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo,
reduci di un'epoca ormai remota e conclusa, «medievali» addirittura.
L'errore
è nel manico: la concezione progressista della storia non regge più, e
la rivolta contro la coppia globalizzazione-individualismo nasce proprio
dalla sua crisi. È perché non credono più che la storia abbia una
logica e una direzione, insomma, perché sono spaesati e angosciati dal
futuro, che gli elettori votano a destra. E con l'idea di progresso in
pezzi, allora, tocca ai progressisti essere disperatamente fuori
sintonia col proprio tempo. Sono loro a esser chiamati ad abbandonare
ogni pigrizia, ad affrontare seriamente le obiezioni dei propri
avversari, a ripensare e ricostruire le proprie ragioni.
Su
scala globale, la rivolta dalla quale scaturisce il gabinetto Meloni
presenta poi una seconda sfida, più seria ancora della prima: poiché la
coppia globalizzazione-individualismo è figlia della democrazia
liberale, il suo rifiuto rischia fatalmente di prendere una torsione
autoritaria. Tanto quanto appare inequivocabilmente orientato a destra,
d'altra parte, allo stesso modo il nuovo governo, nella sua
composizione, dimostra anche grande rispetto per la cornice europea e
atlantica entro la quale si muove l'Italia. E, di conseguenza, per i
valori democratici e liberali che sorreggono quella cornice. Basta dare
un'occhiata alle caselle ministeriali fondamentali: Interno, Esteri,
Economia, Difesa, Giustizia.
In
questa doppia cifra, mi pare, risiede l'aspetto più interessante
dell'esperimento di Giorgia Meloni. C'è lo sforzo insistito, esplicito e
orgoglioso di restare fedele alla propria storia e ai propri princìpi, e
perciò di non abbandonare un saldo ancoraggio a destra. Ma c'è pure lo
sforzo parallelo di fare in modo che quella storia e quei princìpi non
si contrappongano frontalmente allo status quo, non rischino di esserne
respinti in una sorta di ghetto, ma al contrario entrino in dialogo con
esso, guadagnino legittimità e forza fino a poterlo modificare
gradualmente dall'interno.
L'operazione
resta tutt'altro che agevole, soprattutto nelle attuali,
complicatissime circostanze storiche. La squadra di governo sarà
adeguata a un compito così impegnativo? Non è male, ma forse si poteva
far di meglio. Meloni sembra aver scontato due limiti, nel comporla. Il
primo ha a che fare col rapporto fra tecnici e politici. In questo
gabinetto prevalgono largamente i politici, com'è giusto che sia: un
governo è un organismo politico, qualche tecnico può starci ma, in tempi
ordinari, dev'essere un'eccezione. Per ragioni storiche, tuttavia, a
destra i politici di «rango ministeriale» non abbondano. Il bacino da
cui attingere ministri politici, insomma, era un po' a corto di acqua.
Il
secondo limite di Meloni è figlio della sua riluttanza ad allargare lo
sguardo al di fuori degli ambienti che ha frequentato, nei quali è
cresciuta e di cui si fida - riluttanza che già si è manifestata con le
liste elettorali, e che la composizione del governo rende ancora più
evidente. La prudenza della presidente del Consiglio è comprensibile,
certo. Anche in questo caso, però, si tratta di trovare il giusto
equilibrio fra due esigenze contrapposte: allargare il gruppo dirigente
da un lato, preservarne i rapporti di fiducia interni dall'altro. Per il
momento, la seconda esigenza ha preso il sopravvento sulla prima.
Aprire un piccolo partito identitario al vasto mondo evitando che si
diluisca: questa, in definitiva, è la grande sfida di Meloni, sul
terreno ideologico così come nella scelta delle persone.