Era stanco. Certo i traghetti e i treni non erano quelli di
oggi e il viaggio dalla Sardegna a Torino era risultato molto più faticoso del
previsto, anche per lui che non era più un bambino. Anzi "Nino", come
veniva chiamato in famiglia, era nell’età della piena giovinezza. Nato nel 1891,
ormai ventenne, aveva appena completato gli studi liceali. Ma era un giovane
debole e la sua gracilità fisica, forse causata da una caduta subita da bambino,
gli avrebbe creato problemi per tutta la vita.
Già alla partenza si era sentito in uno stato di “sonnambulismo”,
spaesato e preoccupato per le proprie condizioni finanziarie: per questo aveva
viaggiato in terza classe, spendendo comunque 45 delle 100 lire avute da casa
al momento della partenza. Per la famiglia la cifra aveva significato un grosso
sacrificio, date le gravi condizioni economiche. D’altronde, per questo aveva
dovuto lasciare la Sardegna.
Procurarsi il finanziamento necessario per gli studi liceali
era già stato un problema: era riuscito a svolgerli a Cagliari, ma in
condizioni quasi disperate. Alla fine del liceo la questione si era ripresentata
in termini più drammatici, dati i maggiori costi da sostenere per frequentare
una facoltà universitaria. Aveva però saputo che il Regio Collegio Carlo
Alberto di Torino offriva una borsa di studio ai migliori studenti poveri
dell’ex Regno di Sardegna: superando un esame severo e impegnativo, che prevedeva
prove scritte o orali su tutte le materie dei tre anni del liceo, si otteneva
la possibilità di iscriversi all’Università di Torino grazie a un contributo di
70 lire al mese per dieci mesi all'anno, purché si frequentassero regolarmente
le lezioni e si superassero gli esami con una buona media e nei tempi
prescritti.
Agli inizi di settembre del 1911 aveva saputo di essere
stato uno dei due ammessi della sede di Cagliari e che gli esami si sarebbero
svolti tra il 18 e il 28 ottobre; per questo aveva affrontato il viaggio per
andare “di là dalle grandi acque” e raggiungere Torino.
Il suo primo contatto con la città era stato però poco
felice. Alla stazione era stato accolto da Francesco, un compaesano che aveva
dovuto abbandonare la Sardegna per raggiungere la città industriale e lavorare
alla Pirelli. Insieme si erano avviati verso la casa che Francesco gli aveva
procurato come primo alloggio, ma la cifra richiesta per l’affitto era troppo
alta. D’altronde, in occasione dei festeggiamenti per il cinquantenario
dell’Unità d’Italia aperti con l’Esposizione Universale al parco del Valentino,
i prezzi erano decisamente aumentati. Un aiuto inaspettato era giunto dal
segretario del Collegio Carlo Alberto, che era riuscito a rintracciare una
stanzetta a metà prezzo, “dove mi fecero credito; io ero così avvilito che
volevo farmi rimpatriare dalla questura […]. E passai l'inverno senza soprabito,
con un abitino da mezza stagione buono per Cagliari. Verso il marzo 1912 ero
ridotto tanto male che non parlai più per qualche mese: nel parlare sbagliavo
le parole”, ricorderà anni dopo in una delle sue Lettere dal carcere.
Aveva comunque superato brillantemente la severa selezione
del concorso: su 71 candidati ammessi, soltanto 27 erano stati promossi e lui
si era classificato al nono posto nella graduatoria generale. Viveva però
ancora una sorta di stordimento fisico e psicologico, comune a ogni giovane
studente catapultato in una grande città, a ogni “triplice o quadruplice
provinciale, come certo era un giovane sardo” del principio del Novecento che
per la prima volta affrontava la grande metropoli industriale. Aveva persino
paura di girare da solo per le vie del centro: “Provo una specie di ribrezzo a
fare delle camminate, dopo che ho corso il rischio di andare sotto a non so
quante automobili e tram”, scriveva al padre. E soprattutto pativa il freddo
e la fame: “Gravemente ammalato per il freddo e la denutrizione, fantasticavo
di un immenso ragno che la notte stesse in agguato e scendesse per succhiarmi
il cervello mentre dormivo”. La casa dove viveva gli sembrava un “ghiacciaio”,
passeggiava in camera per riscaldarsi i piedi, oppure stava tanto “imbacuccato”
da non riuscire a tenere in mano la penna e a studiare per preparare gli esami
universitari. Non superarli significava però non ottenere il sussidio.
Sempre più raramente si sentiva in grado di affrontare gli
esami e gradualmente abbandonò gli studi universitari, mentre prendeva maggiore
coscienza della realtà sociale di una metropoli industriale. Spesso lungo le
vie che dal centro vanno verso il Po aveva visto gli operai manifestare contro
le dure condizioni di lavoro e aveva cominciato ad appassionarsi “per la lotta,
per la classe operaia”.
Viva e piena di iniziative, Torino non era però soltanto
sede di attività industriali, era anche la città della moda, del cinema e di
una vivace attività teatrale. Nino frequentava con assiduità i teatri cittadini
e le prime proiezioni cinematografiche e recensiva gli spettacoli per i
giornali socialisti. Si era infatti dedicato con passione crescente al
giornalismo politico e all’attività di conferenziere nei circoli socialisti,
persuaso della necessità di preparare la classe operaia, perché “ogni rivoluzione
è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale”
e dunque “per i proletari è un dovere non essere ignoranti”, giacché “il
problema di educazione dei proletari è problema di libertà”. A chi gli
rimproverava il ricorso a un linguaggio troppo complesso nei suoi articoli o
nelle conferenze dedicate ai giovani operai, rispondeva che nell’opera di
divulgazione tra gli operai e tra i giovani bisognava fare ricorso a “immagini
e linguaggio nuovi”, ma senza semplificazioni eccessive: “Un concetto che sia
difficile di per sé non può essere reso facile nelle espressioni senza che si
muti in una sguaiataggine”.
Per questo percorreva in lungo e in largo la città e aveva
imparato a conoscerla e amarla. Nel corso dei difficili anni della I guerra
mondiale, dell’occupazione delle fabbriche e dell’affermazione del regime
fascista, era diventato sempre più un protagonista della vita politica e
culturale torinese. Insieme a lui c’era anche Piero Gobetti, giovane liberale
che Nino, socialista e poi comunista, aveva scelto come suo amico e
collaboratore. Torino era sempre più la “sua” città, la “loro” città.
Per la storia, sarà sempre la “Torino di Gramsci e Gobetti”.
Francesco Scalambrino
Nessun commento:
Posta un commento