Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, 1941
Incipit
Io ero,
quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di
questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti,
non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano
perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti
di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due
ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo
una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una
parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i
giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle
scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui
manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la
vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Questo era
il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano
perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di
perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel
sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che
la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un
dizionario era per me lo stesso; e uscire a vedere gli amici, gli altri,
o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non
avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa
esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare,
nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e
nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di
esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a
letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno,
o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto
un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma
mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano
perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e
l’acqua mi entrava nelle scarpe.
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