Sposata, con due figli, un lavoro da insegnante e la piena
responsabilità nelle faccende domestiche ogni giorno mi allontanavo
sempre più dalla promessa di vendicare il mio popolo. Non potevo leggere
la parabola Davanti alla legge del Processo di Kafka
senza vedere il mio destino: morire senza aver mai varcato il cancello
costruito apposta per me, il libro che solo io potevo scrivere.
Annie Ernaux, Discorso di Stoccolma
Franz Kafka, Il processo, 1925, traduzione di Emilio Castellani, 1966
Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo
guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli
risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver
riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi», dice il guardiano,
«ma adesso no». Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e
il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata
nell’interno. Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira
tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono
solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più
potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me». L’uomo
di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe
esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano
chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera
all’uso tartaro decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso.
Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Giorni e anni
rimane seduto lì. Diverse volte tenta di esser lasciato entrare, e stanca il guardiano
con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli
chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco,
alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può
consentirgli l’ingresso. L’uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà
fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il
guardiano, e questi accetta bensì ogni cosa, però gli dice: «Lo accetto solo perché
tu non creda di aver trascurato qualcosa». Durante tutti quegli anni l’uomo osserva
il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ve ne sono degli altri, quel
primo gli appare l’unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria
sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia,
limitandosi a borbottare tra sé. Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni
il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega
anche la pulce di intercedere presso il guardiano perché cambi idea. Alla fine gli
s’affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno,
o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che
scaturisce inestinguibile dalla porta della legge. Non gli rimane più molto da vivere.
Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano
nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno,
poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano
deve abbassarsi grandemente fino a lui, dato che la differenza delle stature si è
modificata a svantaggio dell’uomo. «Che cosa vuoi sapere ancora?» domanda
il guardiano, «sei proprio insaziabile».
«Tutti si sforzano di arrivare alla legge», dice l’uomo, «e come mai allora nessuno
in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?». Il guardiano si accorge che
l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla:
«Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato
l’ingresso. E adesso vado e la chiudo».
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