Angelo d'Orsi, Micromega, 3 settembre 2091
Ho già raccontato in interviste, dichiarazioni e articoli che la mia candidatura a Sindaco di Torino non è stato il frutto di una decisione personale, maturata dopo esperienze analoghe, o partorita dalla mia personale ambizione. Le cose stanno in altro modo: ricevetti, poco prima del 25 aprile, una telefonata del segretario torinese di Rifondazione Comunista, Ezio Locatelli, il quale parlava a nome di un vasto insieme:
la pressoché totalità della sinistra in città, ossia il variegato e largo panorama che si dispiega a sinistra del
Partito democratico la cui natura di sinistra oggi appare del tutto cancellata, persistendo soltanto nel cuore degli ultimi vecchi militanti del PCI, che ritengono, per fedeltà, per abitudine o per volontà di non ammettere una sconfitta epocale che li coinvolge direttamente, che quel partito sia l’erede del partito di Gramsci Togliatti e Berlinguer…
Era del resto stata questa, da sempre, la mia precondizione per accettare un invito a candidarmi, non importa a quale carica: l’unità, o quanto meno uno schieramento larghissimo, che mi sostenesse. Così era, e dunque il primo ostacolo veniva meno. Accanto a Rifondazione, a Sinistra anticapitalista, a DeMa (la forza che si richiama a Luigi De Magistris, oggi impegnato nell’ardua contesa per la Regione Calabria), che avevano accettato di coesistere in un’unica Lista, denominata “Sinistra in Comune”, si erano posizionate altre due forze: Potere al Popolo e Partito Comunista Italiano, l’erede del Partito dei Comunisti Italiani; con l’aggiunta di Torino Eco Solidale e di Fronte Popolare. In totale, sette sigle, in uno sforzo unitario eccezionale. E si è trattato del primo risultato positivo raggiunto. Il secondo sarà quello elettorale, che tuttavia non posso anticipare, naturalmente, dato che la vera competizione sta iniziando soltanto ora.
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La mia candidatura in fondo nasceva da due requisiti del sottoscritto: 1) non essere mai stato iscritto a nessun partito politico (pur avendo il massimo rispetto dei partiti, strumento essenziale della vita democratica); 2) aver sempre avuto una posizione da intellettuale militante, impegnato in innumerevoli battaglie per altrettante “buone cause”, coerentemente critico verso l’involuzione della sinistra, e verso
la catastrofe della dirigenza post-comunista, sotto le varie sigle: PCI-PDS-DS-PD, e verso i suoi cespugli come Articolo 1, Sinistra Italiana et similia. In altri termini, come mi è stato detto esplicitamente, i diversi soggetti politici di cui sopra hanno creduto di individuare nel sottoscritto la figura in grado di rappresentare unitariamente la sinistra cittadina, non essendo mai stato parte di alcuna delle forze che la compongono, ed avendo avuto sempre come stella polare l’unione della sinistra.
Arrivare dall’unione realizzata oggi, con la mia candidatura, a una stabile unità è altro affare, assai più complesso e difficile, la cui possibilità concreta sarà sicuramente legata al risultato elettorale: è probabile che se esso fosse una disfatta tutto il discorso unitario apparirebbe fragile e probabilmente non resisterebbe alle spinte centrifughe, che peraltro sono state presenti fin dalla decisione di allearsi nella battaglia elettorale.
C’è stata però una seconda motivazione che mi ha indotto ad accettare l’inattesa proposta. Ho insegnato Storia del pensiero politico, nelle sue diverse formulazioni disciplinari, per un quarantennio, nell’università italiana, con alcune esperienze di docenza anche all’estero. Ho studiato e scritto di politica, pubblicando una cinquantina di volumi, oltre un centinaio di saggi, e forse un migliaio di articoli: avendo ormai traguardato i sette decenni di vita, la prospettiva di passare dalla condizione di osservatore/studioso della politica ad attore, tanto più nell’occasione topica delle elezioni, sia pure a livello locale, mi ha suscitato una certa emozione che è stata la molla prima a indurmi ad accettare la proposta. E dentro di me ho pensato: “Se non ora, quando?”. Era in fondo la possibilità di applicare lo studio della politica, e la conoscenza della storia all’azione politica.
Mi sono reso conto, tuttavia, solo in corso d’opera, delle difficoltà. E ora che, dopo un paio di mesi di preliminari, la campagna elettorale parte davvero, le difficoltà sono diventate macigni. Sembrava lunghissima, ma dopo l’annuncio della data del voto (3-4 ottobre) a me e ai miei sodali pare di avere troppo poco tempo e troppe cose da fare, persone da incontrare (e convincere), eventi da organizzare, operazioni burocratiche da capire e tradurre in pratica, permessi da chiedere, code negli uffici da affrontare, idee da partorire; e denaro da spendere, che manca. Ti ritrovi di colpo in un universo a te ignoto, una città parallela, sotterranea, sconosciuta; fatta di innumerevoli incombenze, di pratiche da sbrigare, in uffici diversi, con autorità diverse, con tempistiche diverse, un vero labirinto di autorizzazioni, concessioni, e norme e leggi da conoscere, sanzioni da evitare… Tanto più quando non esistono rimborsi elettorali pubblici e, nel caso, non ci sono finanziatori né palesi né occulti. E l’autofinanziamento sembra avere fatto il suo tempo, con la crisi della militanza, lo stato precario delle tradizionali organizzazioni politiche e il moltiplicarsi di campagne di crownfunding per gli scopi più nobili e talvolta anche per quelli più bislacchi o addirittura sospetti.
Una campagna elettorale, insomma, ho scoperto che è cosa assai diversa dal semplice “fare politica”, o meglio si tratta di una formidabile accelerazione del tempo dell’azione politica, perché ci si trova dinnanzi a scadenze pressanti, alle quali non sono possibili deroghe o ritardi, perché devi accentuare le differenze con la concorrenza, perché devi aumentare il tasso di aggressività verso i competitors, perché devi, invece, tentare di evitare i temi controversi, quelli su cui rischi di scontentare una parte di elettorato, e quindi di perdere voti, perché la logica efferata di una campagna elettorale sta tutta nella conquista del consenso immediato, quello finalizzato alla scadenza, cioè al fatidico “voto in più”.
Questa dinamica finisce per corrompere le proposte politiche, e persino per modificare la normale dialettica politica, già nei linguaggi e nei toni. Tutti gli studi in merito ci dicono del resto che nella contesa elettorale conta di più il significante del significato, che l’apparenza prevale sull’agire e che, se si mira al consenso, i contenuti debbono essere labili e generici, mentre la forma deve essere roboante e clamorosa, deve “colpire” più che “convincere”. Nel contempo, mentre ti rendi conto che questa è la norma della campagna, hai qualcosa dentro di te che si oppone, che rifiuta, che vorrebbe ricondurre tutti alla normalità dell’agire politico.
Una normalità impossibile, perché gli avversari non hanno lo stesso punto di partenza, perché alcuni hanno un budget di diverse centinaia di migliaia di euro a disposizione, e altri devo sperare nelle offerte dei potenziali elettori; perché alcuni sono coccolati dai media e altri vengono ignorati; perché alcuni sono già interni alla macchina amministrativa e ne conoscono segreti e trucchi, e altri ne sono all’oscuro; perché alcuni, in definitiva, sono parte del “Sistema Torino”, che altri – certamente, io, in modo programmatico – vorrebbero sconfiggere. E allora ci si deve inventare una fisionomia nuova, accattivante per una parte dell’elettorato, rassicurante per l’altra parte, devi imparare a sorridere anche quando non c’è nulla da sorridere, devi stringere mani che preferiresti non sfiorare neppure (e non c’entra la pandemia da Coronavirus!), devi farti fotografare accanto a soggetti che vorresti tenere lontani mille miglia…
Tutto questo è reso tanto più complicato dalla molteplicità delle forze politiche che mi sostengono e dalle relative differenze ideologiche, strategiche, tattiche. Un grande risultato è stato metterle insieme, ma conservare quella unione, al di là della stessa prospettiva che possa diventare un progetto stabile per trasformarla in unità, v’è la difficoltà quotidiana di appianare e fluidificare le relazioni tra i vari soggetti e tra loro e il Candidato Sindaco. Un lavoro diuturno, spesso faticoso, ma che mi aiuta a conoscere da vicino persone, idee, sentimenti, progetti…
Ma in definitiva qual è la città che vorrei, e per la quale ho affrontato la sfida?
Una città che si riscuota dal torpore, una città che rovesci il percorso di decadenza, ma che non pensi di cambiare pelle e natura; Torino è “città seria” (Gramsci), e deve rimanere tale, non vagheggiare di far concorrenza a Firenze o Venezia, puntando semplicemente sul turismo. Sono decisamente contro la “città-cartolina”. Torino deve riprendere e salvaguardare la città della produzione, in specie metallurgica e meccanica, ma innovando sul piano della tecnologia, puntando sull’innovazione, ma contemperando questo con l’ecosostenibilità. Non deve rinunciare all’automobile, ma deve porsi all’avanguardia, e se è orfana della Fiat e maltrattata da Stellantis, deve offrire opportunità a costruttori stranieri capaci di produrre, innovare e creare occupazione.
Inoltre, Torino deve smettere di pensare agli immigrati come un problema da risolvere con i lager e considerarli invece una risorsa preziosa: l’immigrazione è stata storicamente un fattore straordinario di progresso per Torino, quella interna dal Piemonte, quella dal resto d’Italia e quella attuale da fuori, europea o extraeuropea. E non si tratta semplicemente della solita cantilena dell’accoglienza, del dovere morale di aiutare i fragili e i deboli; tutto giusto. Io credo che dobbiamo soprattutto far capire alla cittadinanza che si tratta di una questione economica. Gli immigrati vanno integrati, salvo il loro diritto di conservare la loro cultura, vanno aiutati a trovare casa e lavoro, pagano tasse, mandano i loro figli a scuola, il che impedisce la chiusura di classi elementari e medie, arricchiscono gli atenei cittadini con le loro rette, offrono servizi oggi respinti dagli italiani: la cura delle persone, per esempio.
Nella mia campagna ho lanciato alcuni slogan che indicano una certa idea di città, che fanno riferimento alle principali criticità in cui versa la città; a partire dalla lotta al debito (Torino città più indebitata d’Italia, grazie alla politica dei “Grandi Eventi”, a cominciare dalle Olimpiadi invernali 2006); in secondo luogo, la proposta di numerosi e diffusi “Piccoli eventi”, che rechino cultura, e divertimento, possibilmente intelligente, alla massa della popolazione, invece che pochi “Grandi Eventi” a beneficio di pochi ma che gravano sulle tasche di tutti i cittadini; analogamente invece delle “Grandi Opere” (
il TAV è la più gigantesca, inutile e dannosa di tutte), innumerevoli “Piccole opere” che rendano la città vivibile e sicura, dai marciapiede sconnessi agli istituti scolastici pericolanti; risanare l’ambiente (altro triste primato negativo di Torino è l’inquinamento); puntare sulla salute in città invece che sulla “Città della salute” (quei giganteschi agglomerati di strutture sanitarie a cui si pensa o si sta iniziando a costruire ai margini del territorio urbano, che prevedono addirittura riduzione di posti letto e di posti di lavoro: la pandemia non ha insegnato proprio nulla!); una politica per la casa attraverso un’agenzia territoriale (ci sono migliaia di appartamenti sfitti e migliaia di famiglie senza casa); superare o quanto meno ridurre gli steccati tra il centro e il resto della città, riportando la vita nelle periferie (“Portare il centro in periferia, non il contrario!”), il che deve tradursi in servizi là dove mancano o sono gravemente insufficienti, dai trasporti agli ambulatori, dalle biblioteche e alle farmacie, ma, infine, teorizzare come un diritto fondamentale e trascurato il diritto alla bellezza. Un diritto dal cui godimento sono escluse troppe fasce sociali, proprio quelle che ne avrebbero particolarmente bisogno e che da esso trarrebbero i maggiori benefici.
Insomma, Torino è una città in decadenza che attraversa un momento assai problematico: il rischio è che finisca o nelle mani della destra (e sarebbe la prima volta nella storia cittadina, nella Repubblica), oppure ritorni al PD, che ha avviato il processo di decadenza, sotto i vessilli ingannevoli del turismo e della internazionalizzazione. Le differenze fra le classi si è accentuata, la città si è ridotta a una condizione medievale, con fossati che separano le zone urbane che delimitano a loro volta le classi sociali, e via via che ci si allontana dal cuore di Torino si perdono diritti, possibilità, benefici…
Si tratta di ricostruire una comunità, e darle un senso. Che non è quello semplicemente dell’appartenenza ma piuttosto quello della volontà di contribuire al comune benessere: a fare della politica la scienza della buona amministrazione, ma in grado di “pensieri lunghi”.
Se la piccola grande rivoluzione che ho in mente non dovesse realizzarsi, rimarrebbe in me non il rammarico del fallimento, ma piuttosto la speranza di aver spostato l’asse della discussione (in effetti da quando ho lanciato le mie parole d’ordine abbiamo constatato che le forze avversarie ne hanno ripreso, strumentalmente, diverse), e di aver tentato di riportare la sinistra alla gestione della città. E ancor più,
rimarrebbe la soddisfazione, comunque vada, di aver lavorato per unire le sparse membra della Sinistra, rilanciandone l’azione, fornendo un modello che qualcuno ha seguito, qualcun altro ho abbandonato facendo prevalere (Roma, Bologna, Milano…) logiche separatiste, velleitarismi identitari e una idea della politica come mera testimonianza. Noi abbiamo fatto un altro percorso e il risultato lo si vedrà, se non a lungo termine, quanto meno a medio termine.
In ogni caso, da Torino giunge un messaggio: Occorre dar vita a un’altra storia. Qualcuno vorrà raccoglierlo?