domenica 23 aprile 2017
Voltaire, Candido e il senatore
Voltaire, Candido, capitolo XXV
Candido incarica Cacambo di recuperare Cunegonda, ma è derubato dei suoi beni. Parte dunque per Venezia con Martino, un filosofo manicheo pessimista e dalla vita assai sfortunata, che rappresenta l’antitesi di Pangloss. I due risalgono in gondola il Brenta e giungono al palazzo del senatore Pococurante. Qui il gioco si fa complicato, Pococurante, da perfezionista incallito qual è, esprime a volte in modo spregiudicato opinioni condivise dallo stesso Voltaire. L'immagine di un uomo mai soddisfatto si converte alla fine in un apologo sulla felicità che fugge e non si lascia afferrare.
"Quante opere di teatro vedo là!" disse Candido, "in italiano, in spagnolo, e in francese."
"Sì", disse il senatore. "saranno tremila, ma non tre dozzine di buone. Quelle raccolte poi di sermoni, che tutti insieme non valgono una pagina di Seneca, e tutti quei gran volumi di teologia, credetelo, non li apro mai: non io né altri."
Martino vide degli scaffali carichi di libri inglesi.
"Credo", disse, "che un repubblicano dovrebbe per lo più di vertirsi con queste opere scritte così liberamente."
"Sì, rispose Pococurante, è bello scrivere ciò che si pensa, ed è questo un privilegio dell’uomo: in tutta la nostra Italia non si scrive solo quel che non si pensa. Coloro che abitano la patria di Cesare e degli Antonini non osano avere un’idea senza il permesso di un domenicano. Sarei contento della libertà che ispira gl’ingegni inglesi, se la passione e lo spirito di parte non corrompessero totalmente ciò che quella preziosa libertà ha di stimabile."
Candido scorgendo un Milton gli chiese se non considerasse quell’autore un grand’uomo.
"Chi?" disse Pococurante, "quel barbaro che fa un lungo commento del primo capitolo della Genesi in dieci libri di versi duri? Questo grossolano imitatore dei greci, che deturpa la creazione, e che mentre Mosè rappresenta l’Eterno che produce il mondo attraverso la parola, fa prendere al Messia un gran compasso, in un armadio del cielo, per tracciare la sua opera? Io, precisamente io, dovrei forse stimare colui che ha guastato l’inferno e il diavolo del Tasso: che traveste Lucifero da rospo o da pigmeo: che gli fa ribattere cento volte i medesimi discorsi; che lo fa disputare sulla teologia; che imitando seriamente l’invenzione comica dell’armi da fuoco dell’Ariosto, fa sparare il cannone nel cielo dai diavoli? Né io, né alcun altro in Italia ha potuto trarre piacere da tutte queste tristi stravaganze. Le Nozze del Peccato e della Morte, e le vipere partorite dal peccato, non fanno vomitare ogni uomo che ha il gusto un po' delicato, e la sua lunga descrizione di un ospedale va bene solo per un becchino. Questo poema oscuro, bizzarro e disgustoso fu schernito fin dalla nascita, ed io lo tratto oggi come fu trattato in sua patria dai contemporanei; del resto, dico ciò che penso, e mi preoccupo assai poco di vedere se gli altri la pensano come me."
Candido era afflitto da questi discorsi; lui che rispettava Omero, e un po' amava Milton.
"Ahimè", disse sottovoce a Martino, "temo proprio che quest'uomo nutra un sovrano disprezzo per i nostri poeti tedeschi."
"Non sarebbe un gran male", disse Martino.
"Oh che uomo superiore! diceva ancora Candido fra i denti. E che genio, questo Pococurante! Niente può piacergli."
Dopo aver passato così in rassegna tutti i libri, scesero in giardino; Candido ne lodava ogni bellezza. "Non conosco nulla che sia di un tale cattivo gusto", disse il padrone: "abbiamo qui solo quisquilie, ma subito domani ne faccio piantare uno di un disegno più fine.
Dopo che i due visitatori si furono congedati da sua eccellenza, Candido chiese a Martino:
"Ecco, ne converrete con me, il più felice di tutti gli uomini: è al di sopra di tutto ciò che possiede."
"E non vedete", rispose Martino, "che di tutto ciò che possiede è disgustato? Platone disse, molto tempo fa, che gli stomaci migliori non sono quelli che rigettano tutti gli alimenti."
"Ma", disse Candido, criticare tutto non è un piacere? Trovare dei difetti, dove gli altri uomini credono di vedere delle bellezze?"
"Sarebbe come dire" replicò Martino, "che può essere un gusto non provare gusto?"
"Oh bella!", disse Candido, "Allora soltanto sarò un uomo felice: quando potrò vedere la mia cara Cunegonda."
"E' sempre bene sperare", disse Martino.
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