Pietro Reichlin
Il neofeudalesimo economico di Trump
La Stampa, 6 agosto 2025
L'accordo sulle tariffe commerciali appena raggiunto tra Usa e Unione europea è giudicato in modo molto diverso dai politici e dagli osservatori specializzati. E mentre gli europei discutono se Von der Leyen sia stata all’altezza della situazione, Trump torna a dominare la scena minacciando di rimettere in discussione l’accordo e di punire l’Ue per chissà quali inadempienze. Un comportamento che somiglia a quello di un sovrano assoluto, che ci tratta come vassalli e che si sente libero di mettere le mani nelle nostre “tasche”. C’è chi dice che l’Europa si sia mostrata troppo arrendevole, perché ha accettato dazi sulle nostre esportazioni asimmetrici e troppo elevati, impegnandosi anche a importare risorse energetiche e a fare investimenti in Usa per un valore di 750 e 600 miliardi di dollari rispettivamente, senza ottenere alcuna contropartita. Altri osservano, invece, che l’accordo sui dazi al 15% è il migliore possibile. La ragione è che, se teniamo conto della nostra dipendenza da armamenti e prodotti digitali americani, l’Europa ha un potere negoziale molto limitato. A queste osservazioni più benevole occorre aggiungere che, come sottolineato da Krugman, l’impegno europeo sulle importazioni di gas e sugli investimenti sul territorio americano, è scritto sull’acqua: l’Europa non è in grado di assorbire questa mole di importazioni e non è neanche in grado di imporre alle proprie imprese investimenti così elevati.
La realtà è che operiamo tutti in un libero mercato in cui le decisioni su quanto acquistare e quanto investire sono fatte liberamente dai privati. Alla fine dei conti, i dazi di Trump colpiranno soprattutto i consumatori americani e non riusciranno a produrre quella spinta alla produzione manifatturiera interna che Trump ha promesso ai suoi elettori. In particolare, l’effetto paradossale della politica del governo americano è che, mentre il prezzo di un’auto prodotta in Europa si venderà in Usa con un sovrapprezzo che può raggiungere al massimo il 15%, l’industria dell’auto Usa, per effetto delle tariffe commerciali imposte a Canada e Messico, dovrà acquistare all’estero prodotti semilavorati a prezzi gonfiati in misura ben superiore al 15%. Ciò significa che i produttori americani potrebbero avere uno svantaggio di competitività, e che Trump sta mettendo in ginocchio un’industria che, a parole, vorrebbe difendere. In buona sostanza: se valutiamo queste politiche dal punto di vista della logica economica, dobbiamo concludere che, dalla trattativa con l’Europa, non esce nessun vincitore. Saremo tutti un po’ più poveri, inclusi i cittadini americani.
In ogni caso, qualunque sia la giusta valutazione dell’operato della Commissione europea, è un errore limitare il nostro ragionamento alla questione delle politiche commerciali. Sembra, piuttosto, che Trump voglia usare queste politiche come un’arma per ottenere vantaggi economici di natura prevalentemente fiscale. I dazi e gli investimenti che impone ai partner commerciali hanno l’obiettivo primario di aumentare le entrate tributarie del governo federale. Un obiettivo che Trump vorrebbe ottenere anche mediante la liberalizzazione del mercato delle monete digitali, da cui si attende il consolidamento della prevalenza del dollaro come moneta di riserva internazionale e ulteriori entrate per il governo tramite il “signoraggio”, ovvero l’imposta da inflazione a carico di chi detiene titoli e moneta emessi dal governo federale. Poco importa se una parte rilevante di queste imposte, esplicite o occulte, saranno pagate dai cittadini americani. Di fronte a questi scenari, l’Europa ha una sola carta da giocare: il rafforzamento delle istituzioni sovranazionali, l’integrazione politica e l’autonomia tecnologica e militare.
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