domenica 16 marzo 2025

Elly non mollare



Elisa Calessi, Piazza del Popolo piena mette a disagio i politici, Libero, 16 marzo 2025 

 I politici ci sono, ma in piazza o nel retro palco. Ospiti di un evento convocato e gestito da altri. Elly Schlein è felice perché ha incassato il bagno di folla, le grida «Elly vai avanti», «Elly non mollare», «Siamo con te». Il «chiarimento» suona come un problema antico. Gli altri sono tutti qui a difendere la loro idea di Europa, diversa (opposta) da quella dei compagni di piazza. In una cacofonia di voci sommersa dal blu delle bandiere europee.
Ecco, allora, Calenda che manifesta per una Europa «militarmente forte» perché solo così «si garantisce la pace», mentre secondo Bonelli «un’Europa che vuole investire 800 miliardi di euro in armamenti è un’Europa che compromette il suo futuro e il futuro delle generazioni che verranno».
E se Pina Picierno, Pd, spiega che questa Europa, perché funzioni, bisogna «dotarla di autonomia strategica», Laura Boldrini, Pd, spiega di essere lì perché «non vogliamo il riarmo di 27 singoli stati che sarebbe solo uno spreco di risorse e rifiutiamo la narrazione della guerra come strumento per dirimere le controversie tra gli Stati», mentre Maria Elena Boschi, Iv, dice di essere «in piazza per i nostri figli, per gli Stati Uniti d’Europa, un’Europa più unita, un’Europa più forte dei singoli stati che la compongono». Il piano di riarmo votato dal Consiglio europeo e dalla maggioranza che ha sostenuto Ursula Von der Leyen è «un sucidio», dice Nicola Fratoianni. Mentre una parte del Pd, che pure è in piazza (oltre a Picierno, Alfieri, Morani) lo difende.
Roberto Vecchioni, dal palco, prova a dirla così: «Dobbiamo distinguere tra pace e pacifisti. Non si può accettare qualsiasi pace. I veri pacifisti siamo noi. Ai giovani dico, siete voi che dovete rimediare alle cazzate che abbiamo fatto noi».

L'Europa che ritorna




America is back! Dice quello. E come no. Poi i soliti ragionatori che non mancano tra noi si chiedono: quale America? e il disappunto c'è tutto. Ma ora, in Italia: Europa is back! torna in piazza l'orgoglio di essere europei. Torna o riemerge per la prima volta con tanta plateale evidenza, Ecco un dato con il quale la politica nazionale dovrà fare i conti. E non è una novità da poco se si pensa che la più nazionale (nelle intenzioni) dei nostri politici non sembra tanto in grado di recepire e sfruttare a fondo il segnale. 

Marco Damilano, Pluralisti, imperfetti, contraddittori e perciò europei 
Domani, 16 marzo 2025 

Pluralista? Sì, e anche imperfetta, a tratti felicemente contraddittoria, dunque europea. Nella manifestazione di piazza del Popolo c’è tutta la potenzialità che trasmette una scintilla nel buio.

Nella folla colorata di blu, nella prossimità naturale delle bandiere europee con quelle arcobaleno, negli interventi dal palco da cui, esaurito l’autobiografismo, sono risuonate le parole libertà, dignità, diritti, pace. Parole quasi impronunciabili, in un dibattito pubblico che torna sempre di più ad avvitarsi sul passato, addirittura sul rimpianto dei valori tradizionali che tracima sugli editoriali di prima pagina.

«L’Europa non è una fortezza impaurita e invecchiata, ma un porto aperto, capace di accogliere, integrare, costruire il futuro», ha detto Andrea Riccardi. Tra i più applauditi, Emma Nicolazzi Bonati e Francesco Sansone, due ventenni di Parma, e Alessia Crocini, presidente delle famiglie arcobaleno: «L’Europa baluardo di resistenza, argine di democrazia». I sindaci con la fascia tricolore, da Gaetano Manfredi a Vittoria Ferdinandi, e una piazza non genericamente europeista, ansiosa di cercare l’Europa come dovrebbe essere più che l’Europa così com’è stata. Qualcosa di molto lontano dal dibattito politico degli ultimi giorni.

Non c’è costruzione politica senza società civile, senza cultura, senza un popolo alle spalle. Un popolo che non è una massa da mobilitare, come quello che pretendono di incarnare i populisti, un popolo che viene costruito per essere tutto, armato addosso agli altri.

Quello di oggi era invece un pezzo di popolo che non ha la pretesa di essere tutto. Sarebbe facile fare l’elenco degli assenti della piazza: non soltanto le forze politiche, ma anche un pezzo dell’Italia della sfiducia, del non voto, della non partecipazione, una parte di paese che non si sente rappresentato da politici, intellettuali, scrittori, cantanti, giornalisti, compresi, va detto, i tanti che si sono generosamente affollati sul palco. Un pezzo di paese fisicamente lontano. E anche un pezzo di paese che chiede più radicalità, dopo mesi di silenzio su Gaza.

Una piazza non sana queste fratture. Tuttavia, nella sua ingenuità, parola più volte ripetuta dal promotore Serra, anche la piazza per l’Europa ha lanciato la sua lezione per il Palazzo che da domani tornerà a discutere di risoluzioni, mozioni, allontanamenti, avvicinamenti, distinguo. La prima lezione è quella accennata dallo stesso Serra: «In un mondo in frantumi una piazza che unisce persone e idee è uno scandalo».

Tanto più preziosa al termine di una settimana in cui sono volate scomuniche e accuse sanguinose: nessun dubbio consentito sul piano di riarmo europeo per gli stati nazionali e non in vista di una difesa comune, neppure le critiche più fondate e più rispettose. Niente da fare, extra ReArm nulla salus.

La seconda lezione è che non è facile tenere insieme questo popolo, e gli altri popoli non presenti nella piazza, se si vuole costruire un’alternativa al sistema di potere che governa il Paese. Tenere insieme è l’esercizio più difficile per chi fa politica, ancora più complicato nell’era dei Trump e dei Musk. E appare quasi impossibile farlo se al tempo stesso non si vuole rinunciare a esprimere una posizione, se tenere insieme non è un esercizio di stile fine a se stesso, un rosario di mediazioni.

L’ultima lezione è per una delle figure più attese della giornata, la segretaria del Pd Elly Schlein, al centro di un curioso rovesciamento delle parti all’interno del suo partito. Per due anni, dal momento della sua elezione a sorpresa per l’apparato del partito e per i media il 26 febbraio 2023, i nemici interni di Schlein l’hanno accusata di essere un corpo estraneo, un’aliena, scelta alle primarie dagli esterni al partito (in alcuni casi si diceva: scelta dai 5 Stelle), ma in minoranza nel voto tra gli iscritti.

Ma negli ultimi giorni è bastato ventilare l’ipotesi di un nuovo congresso per assistere alla ritirata: nessuno vuole rimuovere la segretaria, meglio un chiarimento. Paradossale dopo una settimana segnata dalla spaccatura interna al gruppo dell’Europarlamento.

Segno che si teme che nel popolo democratico Schlein non sia affatto un’aliena, a differenza di alcuni avversari e dei loro fogli di riferimento, quelli che parlano del Pd di Schlein come anomalia da eliminare. La segretaria del Pd alla manifestazione di Roma è arrivata rivestita del blu della bandiera europea, riconoscendosi nella piazza e nei suoi valori, senza strumentalizzarla.

In modo credibile, perché in pochi possono vantare una biografia orgogliosamente europeista come la sua, dalle sue radici familiari alla militanza federalista alla prima esperienza istituzionale come deputata eletta nel Parlamento europeo a 29 anni.

E in pochi hanno la sua capacità di tenere insieme tutte le anime del Pd. Una capacità messa oggi alla prova: con un rilancio che può segnare un nuovo inizio.

sabato 15 marzo 2025

L'infinito




Lucrezio
De rerum natura
II, 1044-1047  


L'animo infatti richiede di conoscere a pieno,
essendo infinito lo spazio oltre i muri del mondo.
cosa esista lassù, dove intenda scrutare la mente,
dove il libero spazio dell'animo voli spontaneo.

traduttore Luca Canali (1990) 


Essendo fuor di questo nostro mondo
     Spazio infinito, l’animo ricerca
Ciò ch’egli sia, fin dove può la mente
     Penetrare a veder; dove lo stesso
     
1470Animo può spiegar libero il volo.
Pria, se ben ti rammenta, in ogni parte,
     A destra, ed a sinistra, e sotto, e sopra
     Per tutto è sparso un infinito spazio,
     Com’io già t’insegnai, come vocifera*
     1475Per se medesmo il fatto; e del profondo
     A ciascun la natura è manifesta.

traduttore Alessandro Marchetti (1717)


Se fuori da queste ampie mura del mondo
si stende lo spazio
la mente vuole alzarsi a vedere 
e in quel vuoto l'anima mia 
peregrinare.

Intorno a me non ho termine alcuno: 
è immensa la natura del vuoto, 
è certa questa sua profondità luminosa.

traduttore Enzio Cetrangolo (1950)


Quaerit enim rationem animus, cum summa loci sit
infinita foris haec extra moenia mundi,
quid sit ibi porro quo prospicere usque velit mens
atque animi iactus liber quo pervolet ipse.

Maschi alfa a confronto



Viviana Mazza, Il "maestro dell'accordo" alla prova dello zar: adulazione, minacce e il rischio di troppi bluff,  Corriere della Sera, 15 marzo 2025

NEW YORK Donald Trump ha descritto la geopolitica come una partita a carte. I russi hanno conquistato il 20% dell’Ucraina, quindi «hanno le carte». Zelensky no. «Non sei in una buona posizione, non hai le carte. Con noi cominci ad avere le carte», gli ha detto nel famoso scontro dello Studio Ovale. L’America, ovviamente, dal punto di vista di Trump ha sempre le carte. Se l’America non vince sempre, secondo Trump è a causa della stupidità dei suoi predecessori e del fatto che il mondo si approfitta di lei. Ora però la sua visione e la sua politica estera affrontano il test di Putin.

Negoziando in Ucraina, in Medio Oriente e con la Cina, Trump — che si considera il «maestro dell’accordo» — vuole ottenere vittorie che mostrino che è uno dei più grandi presidenti della Storia americana e gli permettano di concentrare le risorse militari in Asia. Trump sa che trattare con Putin non è come trattare con i leader di Messico o Canada. Ha già ridimensionato i tempi: in campagna elettorale diceva che avrebbe risolto il conflitto in 24 ore, ma a dicembre, prima dell’insediamento alla Casa Bianca, ha suggerito che «sei mesi» sono più realistici. L’obiettivo potrebbe essere un cessate il fuoco nei primi 100 giorni del suo mandato, come ha detto a un certo punto un suo consigliere. Il problema è che Putin non ha la stessa fretta.

Anche se Trump insiste che Putin vuole la pace, forse non gli è sfuggito che sta prendendo tempo. Giovedì scorso, pur dicendosi desideroso di incontrare il presidente russo, Trump ha detto che il conflitto va risolto rapidamente e ha parlato di situazione «difficile» riferendosi ai dettagli dell’accordo finale.

Trump si presenta come un mediatore nell’interesse «dell’America e del mondo»: «Se mi allineo con l’uno o l’altro — ha detto quando gli hanno chiesto se stia con gli ucraini o con i russi — non avremo mai un accordo. Volete che dica cose terribili su Putin, e poi gli dico “Ciao Vladimir, che ne pensi dell’accordo?” Non funziona così». Trump si è anche detto consapevole dell’ossessione del leader russo per l’Ucraina («Era la pupilla dei suoi occhi. Gli dicevo: non farlo») ma non si stanca di ripetere che, se ci fosse stato lui alla Casa Bianca, Putin non l’avrebbe invasa per il «rispetto» che nutre per nei suoi confronti (a differenza di Obama o di Biden) e per il fatto che «ha passato l’inferno con me, una caccia alle streghe» (il Russiagate, l’indagine per collusione con la Russia nel suo primo mandato).

Non c’è dubbio che Trump ammiri la forza, la furbizia e la spudoratezza di Putin, come di altri leader autoritari, anche se fanno i loro interessi nazionali. Quando tratta con gli alleati «comincia parlando duramente, poi entrano i negoziatori, funziona così» ci spiegava di recente la sua ex portavoce alla Casa Bianca Mercedes Schlapp. Con Putin ha alternato l’adulazione e le concessioni alle minacce di sanzioni «devastanti» (ieri lo ha rappresentato come vincitore a Kursk: sa che il leader russo non accetterà mai la tregua se non mostra di aver riconquistato quella regione).

I sostenitori di Trump come Schlapp dicono che sono tattiche negoziali di «due maschi alfa»: «Putin rispetta e ha paura di Trump, che sa come parlargli». I critici temono che in questa partita Putin abbia scoperto il bluff di Trump e che stia solo cercando di manipolarlo. La storica e scrittrice Anne Applebaum dice che Trump vuole «rapporti con la Russia basati su accordi economici e immagina una cerimonia in cui lui Putin e forse Xi Jinping firmano un accordo e si dividono il mondo. E questo coincide con quello che vuole Putin».

La domanda di cui ancora non conosciamo la risposta è quali concessioni è disposto a fare alla fine Trump, pur di ottenere la tregua che ha promesso ai suoi elettori. Nelle conferenze stampa, qua e là il presidente ha ribadito l’appoggio per la Nato, incluso l’articolo 5, e in particolare per la Polonia, ma ha chiarito che l’ucraina non potrà entrare nella Nato e la Russia potrà tenere buona parte dei territori conquistati. Cosa dirà, se Putin chiede le dimissioni di Zelensky o il ritiro delle truppe Nato dall’Europa dell’est? Alcuni consiglieri gli suggeriscono di non abbandonare Kiev, ma la vera ragione non è la paura della Russia, considerata «una potenza in declino», ci dice Alex Gray, suo ex capo dello staff al consiglio di sicurezza nazionale. La ragione è che non vogliono che la Cina o l’Iran si facciano venire brutte idee e temono che, se sarà Pechino a ricostruire l’Ucraina, la trasformerà in una sua colonia.

venerdì 14 marzo 2025

Dugin, lo sguardo lungo di un russo imperiale




Aleksandr Dugin / Fabrizio D'Esposito
Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2025 

È chiaro che Trump, come ho detto prima, non considera la Russia il nemico principale e quindi la guerra in Ucraina ha perso senso per gli Stati Uniti. Ma per la Russia ha ancora senso e ragione perché dobbiamo raggiungere gli obiettivi delle operazioni militari speciali. C’è quindi una sorta di contraddizione. Trump vuole fermare la guerra, noi vogliamo vincerla. Fermare la guerra e vincere la guerra sono due concetti diversi. Anche l’Unione Europea e Zelensky non vogliono fermare la guerra come vuole Trump, ma vincere la guerra contro di noi. C’è chi vuole la vittoria da entrambe le parti, noi, Zelensky e l’Unione Europea, mentre Trump vuole la pace, la fine della guerra.

E quindi?


Forse Trump può suggerire a Putin qualcosa che potrebbe essere accettabile per la Russia, ma ne dubito perché Trump non potrebbe proporre più di quanto l’opinione pubblica occidentale possa accettare. Temo che sarà obbligato a soddisfare l’opinione occidentale che è molto russofoba, anche negli Stati Uniti. E la Russia non potrebbe accettare qualcosa che sia inferiore alla vittoria minima che vuole la società russa. Anche Putin non è molto libero nei confronti dell’opinione politica russa. Il problema, appunto è che Trump vuole la pace, noi vogliamo la vittoria e anche il Regno Unito vuole la vittoria. È impossibile soddisfare tutte le parti. E alla fine Trump sarà costretto a scegliere.


Quale sarà la sua scelta, secondo lei?


È chiaramente contrario alla vittoria sulla Russia, ma allo stesso tempo non è a favore della vittoria della Russia. Si tratta quindi di una situazione molto, molto difficile. Certo, le condizioni generali sono molto, molto positive per la Russia perché i cambiamenti sono evidenti, ma potremmo aspettarci troppo da questo. Si tratta di questioni aperte, che dipenderanno da come si svilupperanno le relazioni tra Putin e Trump. E anche da come saranno le relazioni tra Trump e l’Unione Europea.


Veniamo all’Europa. Lei ha più volte detto che l’affermazione del populismo è irreversibile. Ultimo esempio, i neonazisti dell’Afd al 20 per cento in Germania.


Sì, ho sempre detto che il populismo europeo e quello americano arriveranno gradualmente a una vittoria irreversibile. Questa è la situazione: non è troppo veloce, ma sta andando avanti. La crescita in Germania dell’Afd è molto importante perché è una vittoria della parte orientale, prussiana della Germania che ha creato l’impero tedesco nel XIX secolo. La nazione tedesca si basa sul dualismo tra la parte prussiana e quella occidentale.


In Italia, il populismo ha avuto tre interpreti elettorali. In successione: Movimento 5 Stelle, Lega e adesso Fratelli d’italia. La destra della premier Giorgia Meloni è schierata con l’Ucraina sin dall’inizio della guerra.


Il vostro populismo al potere è stato sedotto dai globalisti e oppresso dai liberali di sinistra europei che odiano la Russia. Ma ora penso che Meloni sia totalmente a favore di Trump e smetterà di essere russofoba come lo era all’inizio. Del resto i liberali europei adesso stanno perdendo e ora Meloni vuole tornare nel campo dei vincitori, riscoprendo le sue radici di vera populista di destra. Negli ultimi tre anni la sua strategia è stata riprovevole perché per unirsi ai globalisti di sinistra è andata contro i principi del suo movimento politico e della maggioranza che l’ha votata. Ma spetta a voi italiani decidere se ha tradito o meno il populismo.


In pratica il vero populismo deve coincidere, secondo lei, con il trumputinismo.


Meloni se è a favore di Trump lo sarà anche di Putin. In ogni caso è molto più naturale che lei segua questa ideologia piuttosto che finga di essere una sorella minore del potere globalista europeo. Così tornerà alla sua matrice originaria.

Le condizioni di Putin




Marco Imarisio  Viviana Mazza
Tregua, le condizioni di Putin
Corriere della Sera, 14 marzo 2025 

Putin, sulla tregua in Ucraina, detta le condizioni. Non chiude, ma puntualizza che «dovrebbe portare a una pace a lungo termine e affrontare le cause di fondo del conflitto». Per il leader russo, che ha incontrato a Mosca l’inviato Usa Witkoff, «c’è ancora molto da discutere», probabilmente in una telefonata con Trump. «Dichiarazione promettente ma incompleta, molto deludente se rifiutasse», ha commentato Trump ricevendo il segretario generale della Nato Rutte. Kiev intanto si ritira progressivamente dalla regione russa di Kursk, mentre la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Zakharova torna ad attaccare Mattarella: «Da lui menzogne e falsità».

Negli ultimi quattro anni, Vladimir Putin e Aleksandr Lukashenko si sono visti di persona venticinque volte. Per dire dei rapporti di forza, 23 di questi incontri si sono svolti in Russia, e solo due in Bielorussia. Mai come ieri però c’è stata una attesa così spasmodica per la fine dei loro colloqui, non certo dovuta ai nuovi accordi commerciali tra i due Paesi, ma al fatto che il Cremlino ha annunciato che al termine dei colloqui in corso con Lukashenko, Vladimir Putin avrebbe parlato. E avrebbe detto la sua sulla proposta di tregua mensile giunta da Usa e Ucraina, dopo che il suo primo assistente per la politica internazionale, il solitamente taciturno Yuri Ushakov, dopo aver confermato il viaggio nella capitale russa dell’inviato Usa Steve Witkoff, aveva raffreddato gli entusiasmi affermando che «una tregua provvisoria non serve alla pace, è utile solo a far riarmare l’Ucraina».

La premessa

Ma siccome a Mosca l’unica parola che conta davvero è quella del presidente, è cominciato un lungo conto alla rovescia. «Prima di tutto vorrei cominciare con parole di ringraziamento al presidente degli Usa, il signor Trump perché riserva alla questione ucraina tanta attenzione». Esaurita la premessa, un Putin prudente nell’eloquio è andato al punto. Sì alla tregua, ma con molte condizioni, con i tempi necessari alla Russia, e con un unico interlocutore, il presidente americano. «Noi accettiamo la proposta di cessare le azioni belliche, ma questo stop deve essere tale da portare ad una pace a lungo termine, eliminando le cause prime di questa crisi».

Vale la pena di riportare quasi per intero i sette minuti dell’intervento di Putin. «Il risultato dell’incontro americano-ucraino in Arabia Saudita viene presentato come una decisione presa da Kiev, sotto la pressione degli Usa. Io credo che la parte ucraina avrebbe dovuto chiedere di partire dalla situazione che si sta venendo a creare sul terreno. Sono appena stato nella regione di Kursk, ormai quasi completamente sotto il nostro controllo. Le truppe ucraine hanno solo due possibilità: arrendersi o morire. Capisco che per loro sia conveniente ottenere un armistizio. E noi siamo a favore. Ma ci sono delle cose da chiarire. Cosa facciamo con la parte ancora occupata della regione di Kursk? Se smettiamo le ostilità per 30 giorni, cosa significa? Che tutti coloro che vi si trovano, escono senza combattere. Li dobbiamo lasciar andare dopo che hanno commesso crimini di massa oppure il comando ucraino darà loro l’ordine di deporre le armi? Non è chiaro. E come si risolveranno le altre questioni lungo i duemila chilometri della linea di contatto? Le truppe russe stanno avanzando praticamente in ogni tratto. Come saranno utilizzati questi trenta giorni? L’Ucraina continuerà la sua mobilitazione forzata? Riceverà altre armi? Addestrerà altre unità da combattimento? Chi farà i controlli? Chi deciderà se la tregua è stata violata, e da chi? Sono quesiti che richiedono uno studio minuzioso da ambo le parti. C’è molto da discutere, anche con i nostri partner americani. Forse è necessario che io mi senta con il presidente Trump».

Le sanzioni

La risposta americana non si è fatta attendere. Trump ha definito «molto promettenti anche se incomplete» le dichiarazioni di Putin, dicendo che gli «piacerebbe molto» incontrarlo. Ha evitato di ripetere le minacce di sanzioni, ripetendo che bisogna porre fine «rapidamente» alla guerra. «Spero che facciano la cosa giusta», ha aggiunto, «altrimenti sarà un momento molto deludente per il mondo». Il presidente americano era affiancato dal segretario generale della Nato Mark Rutte, che non ha detto quasi nulla davanti alle telecamere, a parte chiedere di lavorare insieme per una Nato «rinvigorita». Trump ha spiegato che, per evitare che la tregua sia una «perdita di tempo», sono già stati discussi molti dettagli dell’accordo finale con gli ucraini («Quali pezzi di terra verrebbero tenuti e perduti», a chi andrà il «grosso impianto energetico», ovvero la centrale nucleare di Zaporizhzhya occupata dai russi) e ha chiesto al suo inviato a Mosca Steve Witkoff di fare altrettanto. Trump ha aggiunto che a Gedda gli ucraini hanno discusso con la delegazione americana anche del loro ingresso nella Nato. Ma «conoscono la risposta, la conoscono da 40 anni» è stata la sua conclusione. Che Putin avrà senz’altro apprezzato.

Sofija Gubajdulina

 



Alessandro Beltrami
La morte della compositrice. Addio a Sopfija Gubajdulina, la musica come preghiera, Avvenire, 14 marzo 2025

Quando Sofija Gubajdulina venne a Venezia per ricevere il Leone d’oro alla carriera, nel 2013, aveva 81 anni, la figura minuta e leggermente china, ma negli occhi una luce ardente. Parlava con parole di fuoco, con la stessa intensità con cui la sua musica sembrava respirare insieme al cosmo. «La musica senza religiosità non può sussistere», disse allora ad “Avvenire” in un’intervista che riassumeva la sua visione. «Le basi della musica sono date da una sostanza che vibra, da una vibrazione. È il risultato di una espansione e di una contrazione, le stesse per cui esiste il cosmo». E ancora: «La legge cosmica, il nascere della musica e la religione grazie alla quale questi obiettivi vengono raggiunti devono stare insieme». Gubajdulina se ne è andata all’età di 93 anni, lasciando un’eredità che è impossibile racchiudere solo nella sua produzione musicale. Perché la sua musica è stata un atto di resistenza, una forma di preghiera e una dichiarazione di libertà, in un tempo e in un luogo in cui il potere voleva silenziare tutto ciò che non fosse allineato. Nata il 24 ottobre 1931 a Cistopol’, nel Tatarstan, visse la sua infanzia a Kazan’, città multiculturale in cui convivevano russi, tartari, ucraini ed ebrei. Suo padre era tartaro, sua madre russa, e questa mescolanza di culture la segnò profondamente.

La musica arrivò presto, come una rivelazione. «Avevo cinque anni quando in casa arrivò un pianoforte a coda», ricordava sempre in quell’intervista del 2013. «Creava una sonorità che sembrava uscire dalla cornice del solito. Quella sonorità sacrale si unì alla sensazione interna di sacralità e da quel momento le due cose si sono fuse insieme». Il richiamo al sacro non veniva dalla sua famiglia, cresciuta nell’ateismo imposto dal regime. La sua conversione al cristianesimo arrivò solo a trent’anni, ma la sua musica era già percorsa da un’urgenza spirituale. Fondamentale fu l’incontro con la pianista Marija Judina, ebrea convertita al cristianesimo e grande interprete di Bach e Šostakovic, che divenne per lei una guida.

Dopo gli studi al conservatorio di Kazan’ e poi a Mosca con Nikolaj Pejko, assistente di Šostakovic, scelse la strada più difficile. Il grande compositore le disse che doveva «seguire la sua strada sbagliata», ovvero rimanere fedele alla propria ricerca interiore, anche se questo significava il rischio dell’emarginazione. Negli anni ’70, in Unione Sovietica, il suo nome era sulla lista nera. «Le mie partiture circolavano come uno samizdat», ci raccontava a Venezia. «All’estero venivano suonate senza che nemmeno io lo sapessi. Gidon Kremer ottenne la partitura di Offertorium in modo clandestino: lui non poteva possederla».

Il suo linguaggio musicale era innovativo e profondamente simbolico. L’opera per violino e orchestra Offertorium (1980), basata su un tema bachiano, rappresentava un atto di offerta musicale e spirituale. In croce (1979), per bajan e violoncello, evocava la crocifissione attraverso l’intreccio delle linee melodiche. Sette parole (1982) rifletteva sulle ultime parole di Cristo. E poi le grandi opere vocali degli anni Duemila, come la Johannes-Passion e il Johannes-Ostern, che rileggevano il Vangelo in una chiave musicale unica, unendo tradizione ortodossa e occidentale. Ma il suono, per Gubajdulina, non era solo vibrazione. Il silenzio aveva per lei un ruolo essenziale. «È il mezzo, ciò che può dare alla luce la vibrazione», spiegava. «Se si riesce ad arrivare a una concentrazione massima, all’interno del silenzio e dietro di esso si apre un mondo di terribili scontri». La sua musica sapeva scavare in quella dimensione nascosta, dove il silenzio diventa lo spazio dell’attesa, della rivelazione e, insieme, del conflitto.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica si trasferì in Germania, dove continuò a scrivere fino agli ultimi anni, ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo. Ma non dimenticò mai le sue radici. «Torno spesso a Kazan’», ci disse. «Dopo il ’90 l’economia è ripartita, i tartari hanno maggiore influenza, c’è una caratterizzazione nazionale. E devo dire che ne sono contenta. Ma non posso dimenticare cosa diceva Šostakovic, cioè che “bisogna innanzitutto essere fedeli a se stessi”». Essere fedeli a se stessi. È questa la lezione più grande che Sofija Gubajdulina ci lascia. In un’epoca di conformismo, la sua musica ha testimoniato una libertà interiore che nessuna censura ha mai potuto soffocare. E che continua a risuonare.

giovedì 13 marzo 2025

Andromaca e Astianatte






Iliade, canto XXII
traduzione di Ettore Romagnoli

     Questo diceva [Priamo] fra pianti: gemevano tutti i Troiani.
Ed Ecuba levò fra le donne il suo lungo lamento:
430«Figlio, misera me, dove andrò col mio fiero dolore,
ora che tu sei morto? Tu eri, di notte e di giorno,
l’orgoglio mio, per questa città: ché il sostegno di tutti,
uomini e donne, in Troia, tu eri, che al pari d’un Nume
te riguardavano, e in te possedevan rifugio sicuro,
435mentre eri vivo: adesso t’han colto la Parca e la Morte».
     Cosí dicea piangendo. Ma nulla sapeva la sposa
d’Ettore ancora: ché niuno venuto era a darle l’annunzio
ch’era lo sposo suo rimasto fuor delle mura.


Ma ne le stanze interne sedeva al telaio, e tesseva
440duplice un manto di porpora, a fiori di varii colori;
ed alle ancelle di casa ricciute avea l’ordine dato
che sovra il fuoco ponessero un tripode grande, ché caldo
fosse per Ettore il bagno, quand’ei dalla zuffa tornasse.
Misera! E il cuor non le disse che molto lontano dal bagno
445spento per mano d’Achille l’avea l’occhicerula Atèna.
     Ecco, ed un pianto, un ululo udí che giungea dalla torre:
onde un tremore la colse, di mano le cadde la spola;
e cosí disse alle ancelle dai fulgidi riccioli: «Andiamo,
due mi seguan di voi: vediamo che cosa è seguíto.
450Della mia nobile suocera udita ho la voce. Nel petto
mi balza il cuore in gola, le ginocchia un gelo mi serra.
Qualche sciagura incombe sui figli di Priamo! Oh, lontana
questa novella sempre rimanga da me! Ma poi temo
d’Ettore mio, l’ardito, che solo, lontan dalla rocca,
455còlto non l’abbia Achille divino, ed al piano l’insegua,
e ponga fine al suo funesto valore, che il seno
sempre gli empiea: ché con gli altri restar non patía nelle schiere,
ma innanzi ognor correva, ché a niuno cedeva in ardire».
     Detto cosí, si lanciò dalla casa, col cuore in tumulto,
460simile a forsennata: seguíano i suoi passi le ancelle.
E come giunse alla torre, in mezzo alla gente affollata,
stette, e guardò dall’alto dei muri; e lo sposo conobbe,
cui trascinava Achille dinanzi alla rocca: i corsieri
lo trascinavano senza pietà verso i concavi legni.
465Su le pupille a lei si stese una nuvola negra,
ed all’indietro piombò, lo spirto esalando. Lontano
tutte dal capo suo balzaron le fulgide bende,
il dïadema, con l’alta sua mitra, e le tortili fasce,



e il velo ch’ebbe in dono dall’aurea Cípride, il giorno
470che dalla casa d’Etíone, offrendo gran copia di doni,
Ettore, sposa l’ebbe, l’eroe dal corrusco cimiero.
D’Ettore le sorelle, vicine le furono tutte,
e le cognate a sorreggerla, ch’ella spirata sembrava.
Ma quando poi rinvenne, raccolse gli spiriti in seno,
475levò tra le Troiane, rompendo in querele, la voce:
«Ettore, misera me!, tu ed io con un solo destino
siamo venuti al mondo. Tu, dentro le mura di Troia,
dentro la casa di Priamo; ed io sotto il Placo selvoso,
nella tebana reggia d’Etíone, che me pargoletta
480crebbe a fatale destino! Cosí, deh, non fossi mai nata!
Giú nelle case d’Averno, nell’ime latèbre del suolo
ora tu scendi, e me qui lasci in esoso cordoglio,
vedova nella tua casa. Né ancora favella il bambino
che generammo, infelici, tu ed io: né piú dargli soccorso,
485Ettore, tu potrai, ché sei morto; né questi a te darne.
Ché pur s’egli potrà sfuggir degli Achivi alla guerra,
sempre nei giorni venturi l’aspettano affanni e cordogli.
Altri vorranno certo rapirgli i suoi campi: ché il giorno
ch’orfano un pargolo rende, privo anche d’amici lo rende.
490Gemere deve sempre, bagnare di pianto le gote.
Va, ché lo spinge il bisogno, da tutti gli amici del padre,
chiede un mantello a questo, a quello una tunica chiede.
E chi si muove a pietà, gli porge una piccola coppa,
che, se gli bagna le labbra, non giunge a bagnargli il palato.
495E un bimbo, forse lieto fra i beni, da mensa lo scaccia,
ed a colpirlo avventa le mani, e d’ingiurie lo copre:
— Vattene via, ché tuo padre non siede a banchetto fra noi! — .
E lagrimoso il bimbo ritorna alla vedova madre:

Astïanatte, che prima sedea sui ginocchi del padre,
500solo midollo cibava, sol carne di pecore pingui.
Quando poi, giunto il sonno, cessava di pargoleggiare,
dormia nel suo lettuccio stringendolo al sen la nutrice,
entro le morbide coltri, di florida gioia il cuor pieno.
Ora l’aspettano mille cordogli, ché il padre ha perduto.
505Astïanatte! Ahi!, cosí ti chiamavano in Ilio: ché il padre
tuo proteggeva da solo le porte e l’eccelse muraglie.
Ora, lontan dai parenti, vicino alle navi ricurve,
di vermi un brulichio, poi che sazi saranno i mastini,
divorerà l’ignudo suo corpo. E qui son tante vesti
510morbide e grazïose, tessute da mani di donne.
Ora le brucerò tutte quante, sul fuoco rapace.
Ciò non ti gioverà, ché in esse non sei tu ravvolto,
ma tra le donne onore ne avrai, tra gli uomini d’Ilio».



     

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mercoledì 12 marzo 2025

Masaniello vittorioso

 


La vicenda di Masaniello (1620-1647) è ampiamente conosciuta: un umile pescatore, nel 1647 capeggia una rivolta popolare contro il governo spagnolo di Napoli, che ha come motivo scatenante l’imposizione di una tassa sulla frutta. La rivolta ha successo e Masaniello diventa il dittatore popolare, obbedito in tutto dal popolo napoletano e che negozia con il viceré spagnolo, il Duca d’Arcos. Un tentativo di assassinio da parte di banditi al soldo del duca scatena in Masaniello la pazzia, che lo porterà alla rovina. Il popolo che lo aveva idolatrato, assiste indifferente alla sua morte causata da alcuni suoi compagni che lo tradirono, ma in seguito lo trasforma in un martire ed in un simbolo per la rivolta contro il potere. Il racconto di Dumas delle vicende di Masaniello, che troviamo pubblicato a puntate nel 1865, ha una curiosa storia editoriale. Intanto non è un romanzo, ma una rievocazione storica incline alla leggenda. La rivista che lo pubblica ringrazia in una nota l’editore di Da Napoli a Roma, da cui è tratto, pubblicato da “L’Indipendente”, il giornale di Dumas nel 1862 e tradotto da Eugenio Torelli Vollier, il futuro fondatore del “Corriere della sera”. Non sembra esistere un originale francese del libro di viaggi, né un manoscritto, quindi è legittimo sospettare che il vero autore sia Torelli Viollier e non Dumas, che lo firmò e lo pubblicò. 
Il personaggio del pescatore napoletano non ebbe certo la consapevolezza e lo spessore tragico che gli vengono attribuiti nel racconto. Tuttavia acquisì molto presto un'aura mitica, come conferma un episodio legato alla vita di Spinoza (1632-1677). Il più celebre biografo del filosofo olandese scrive in una nota: 
«Ho tra le mani un libro intero di ritratti simili dove si trovano diverse persone distinte e che lui conosceva o che avevano avuto occasione di recargli visita. Tra questi ritratti, trovo al quarto foglio un pescatore disegnato in camicia, con la rete sulla spalla destra, assolutamente somigliante, per l’attitudine al famoso capo di ribelli di Napoli, Masaniello, come viene rappresentato nella storia. A proposito del disegno in questione non devo omettere che il signor Van der Spyck, presso chi alloggiava Spinoza al momento della sua morte, mi ha assicurato che il bozzetto ritratto assomigliava perfettamente a Spinoza, e che l’aveva senza dubbio disegnato prendendo se stesso a modello». Il fatto è richiamato anche in Matthew Stewart, Il cortigiano e l'eretico, dove il cortigiano è Leibniz che invece, in una lettera del 1686, definì Masaniello «l’uomo più empio e pericoloso di questo secolo».

Alexandre Dumas, Masaniello, 1865, traduzione di Eugenio Torelli Viollier

... Masaniello e la sua gente si trovavano per caso o di proposito sulla piazza del Mercato. S'intende che erano tutti armati di mazze. Il cognato di Masaniello, giardiniere a Pozzuoli, aveva portato al Mercato una cesta piena degli ottimi fichi che producono le terre intorno al golfo di Baia.

Un'incredibile negligenza trovavasi nella redazione dell'editto; non vi si specificava se al venditore o al compratore toccava a pagar la tassa. Un diverbio sorse fra un avventore ed il cognato di Masaniello; ognuno voleva far pagare all'altro. Come accade in questi casi, la folla s'aggruppò intorno a' litiganti e la disputa bentosto ebbe a spettatori tutte le persone del Mercato.

In questo momento passò l'Eletto del popolo: era un tale a nome Andrea Nauclerio. Interrogato, diede torto al cognato di Masaniello. I giardinieri a quella sentenza che metteva a loro carico la tassa mormorarono.

– Zitto, o vi mando tutti in galera! dice Andrea Nauclerio.

– Orbene, giacchè la va così, risponde il cognato di Masaniello, sparpagliando le frutta fra la folla, meglio dar i miei fichi per nulla che impinguarne questi demonî di gabellieri che ci succiano perfino il sangue!

Il popolo non se lo fa ripetere, e si getta avidamente sulle frutta, gridando e schiamazzando.

Di botto Masaniello, che fin allora aveva tutto veduto, tutto ascoltato senza dir motto, lanciasi in mezzo a quella turba, gridando:

– Giù le tasse! via le gabelle!

E tutta la schiera, quasi avesse aspettato quel segnale, a ripetere le stesse voci.

Andrea Nauclerio vuol parlare; ma Masaniello, raccolto una mano di fichi, glieli tira nel mezzo del viso; ognuno dà di piglio a quello che può, ed il povero Eletto ed i commessi della gabella, inseguiti dai venditori, assaliti da proiettili di ogni genere, son vergognosamente discacciati dal Mercato e ricorrono al vicerè.

Ma Masaniello non perde tempo ad inseguirli, e salito sulla panca più alta del Mercato, a gran voce:

– Amici, gridò, fate animo e rendete grazie a Dio; l'ora della libertà e sonata finalmente: a malgrado de' cenci di cui sono coperto e che fanno prova della mia miseria, spero, novello Mosè, di liberare il popolo dal servaggio. San Pietro era pescatore come me e salvò, non Roma soltanto, ma il mondo intero dalla schiavitù del demonio: orbene, un altro pescatore salverà Napoli, e le ridonerà tempi più felici. So già che vi lascerò la vita e che il mio capo sarà portato in cima ad una picca; che i quarti del mio corpo saranno trascinati per le strade di Napoli; ma morrò contento, sapendo che mi son sagrificato alla prosperità del mio paese!

S'intende l'effetto che produsse questo discorso sulla folla. Il capo de' Turchi, che doveva difender la rocca contro Masaniello, gli si gettò nelle braccia e da quel punto il giovane lazzarone si trovò a capo non più di trecento ma di seicento uomini.

Incominciarono tosto a metter fuoco all'officina del dazio ed ai registri, e più drappelli si formarono per far lo stesso negli altri mercati della città. Ma nel mandar per la città i lazzaroni, Masaniello aveva serbato intorno a sè i suoi seicento armati di randelli, e mettendo in punta ad una pertica, per insegna, un tozzo di pane, s'avvio verso il palazzo del vicerè gridando:

– Viva il re! muoia il mal governo! Senza dubbio, se il vicerè avesse in quel momento, contro quei seicento uomini armati di mazze, spedito i suoi vecchi soldati tedeschi, i suoi vecchi lanzi spagnuoli, gente usa insomma alle battaglie; se avesse loro comandato di far fuoco sui sediziosi, l'inferiorità delle armi, la vista dei morti, il sentimento della loro impotenza li avrebbe fatti cader ginocchioni e chieder grazia; ma un raggio doveva brillar su Napoli in quella buia notte del dispotismo che la gravava; quel raggio ebbe la durata, ma anche il bagliore folgorante del baleno.

Il vicerè, al contrario impauritosi, ordinò alla moglie di salvarsi nel castel Nuovo, e temendo di esser riconosciuto ed arrestato per via, egli si appiattò in un nascondiglio del palazzo. Quando il capo del governo si nasconde innanzi al popolo, in luogo di andargli contro deliberatamente, la rivoluzione è fatta, o quasi.

***

Due uomini avevano avuto gran parte in questo avvenimento, il bandito Perrone ed un vecchio prete a nome Giulio Genuino, che già una volta, in una sedizione precedente, era stato il capo della parte popolare.

Primo decreto del nuovo tribunale fu l'abolizione delle imposte; poi, volendo, vendicatosi del governo, vendicarsi de' nobili, deliberò che, per dar soddisfazione al popolo, da tanto tempo angariato da essi, si arderebbero sessanta palazzi magnatizi.

Videsi allora un fatto incredibile; una turba di lazzaroni scalzi, cenciosi, pallidi ancora della fame di ieri, mal satolli del pasto di oggi, distruggere palagi magnifici, annientare tesori sterminati, gettare al fuoco suppellettili, tappezzerie, scrigni pieni di gioie, sacchi pieni di oro, fasci di carte, senza che un sol oggetto fosse tolto alla distruzione cui era destinato.

Secondo il vecchio costume de' tempi barbari, secondo la tradizione perpetuatasi da Sardanapalo ad Alarico e da Alarico al principe di Caramanico, furono strangolati e pugnalati i cavalli sul rogo, e quando tutte le robe, tutt'i capilavori, tutte le ricchezze d'un palazzo erano incenerite, si dava alle fiamme il palazzo stesso.

Napoli per tali eccessi avrebbe dovuto divenire tutta un incendio; ma, a furia di cautele, il fuoco pareva divenuto complice intelligente della sommossa e non divorava che la preda assegnatagli.

Chi avesse guardato Napoli dal castello S. Elmo, avrebbe contato venti o venticinque vulcani di pietra che lanciavano fiamme per ogni bocca e ruinavano sulle basi, dopo divorate le visceri. Ma a veder l'ordine che regnava fino nella distruzione, non avreste creduto esser quello un popolo sfrenato che sfogava una vendetta, sibbene un giudice tremendo ch'eseguiva una sentenza. Un affamato che aveva rubato un formaggio ebbe cinquanta bastonate; un altro che non aveva letto ed aveva involato una materassa fu trucidato; due altri che s'erano appropriati un vaso d'argento furono appiccati!

Gl'incendi durarono tre giorni: ventiquattro palagi furon arsi; i trentasei altri, – sessanta erano condannati, – furon salvati a preghiera del Cardinal Filomarino.

Volendo sapere fin a qual punto estendevasi la sua autorità sulla plebe, Masaniello fe' varie pruove: a suono di trombe comandò al popolo di restar sotto le armi e dispose sentinelle in ogni luogo; poscia, nel mezzo della notte, fe' dar il segno dell'armi, per vedere se tutti erano all'erta. Erano tutti a' posti assegnati, cioè meglio di centomila persone; perchè a' lazzaroni ed a' popolani s'erano aggiunti i campagnoli de' contorni, armati di scuri, di vanghe e di falci, strumenti attissimi a tagliar le teste

Poi, fra tutta quella moltitudine, si notava una compagnia che, sebbene mista alle altre, era indipendente ed operava per proprio conto. Fioriva allora in Napoli quella famosa scuola di pittura, immaginosa quant'altra mai, che tanta luce diffuse nel XVII secolo ed aveva per maestri Aniello Falcone, Micco Spadaro e Salvator Rosa.

https://machiave.blogspot.com/2025/01/masaniello.html


Esiti imprevedibili



Maurizio Molinari 
la Repubblica, 12 marzo 2025

L’estrema chiusura di Putin e la palese apertura di Trump descrivono l’inizio squilibrato di una partita di poker fra i due leader che può avere esiti imprevedibili. Perché i rispettivi obiettivi sono assai diversi. Putin vuole affermare la sovranità russa sull’Ucraina in maniera a tal punto evidente da rilanciare il progetto strategico di creare una propria sfera d’influenza lungo i confini nazionali mentre Trump guarda ben oltre Kiev perché è intenzionato a staccare Putin da Pechino, trasformando l’intesa sull’Ucraina nel volano di un nuovo ordine internazionale. Come riassume il politologo Walter Russell Mead “Trump cerca con Putin un’intesa sulla realpolitik a dispetto dei diritti umani come Roosevelt fece con Stalin a Yalta nel 1945 e Nixon fece con Mao a Pechino nel 1972”. Insomma, Putin e Trump sono portatori di due ambiziosi progetti di revisione dell’ordine di sicurezza internazionale che, al momento, non sembrano compatibili. Ecco perché tutto è possibile fra i due presidenti: da un’intesa sulla fine della guerra a Kiev fino a una rottura capace di innescare un conflitto ancora più grande e terribile. E qualsiasi sarà l’esito, investirà direttamente la sicurezza dell’Europa, imponendo all’Ue (più Londra) di accelerare sul sentiero della difesa comune indicato dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Perché l’interesse europeo è evitare la capitolazione di Kiev, scongiurare la nascita di una sfera d’influenza post-sovietica sul continente e garantire la sicurezza di tutte le nazioni europee che confinano con la Federazione russa. Se la Ue riuscirà a dimostrarsi credibile e forte sul terreno della sicurezza potrà anche assumere un ruolo importante a garanzia di Kiev nel negoziato con Mosca che sta per aprirsi.

...

Sorpresa





Elena Molinari, Il conflitto. Kiev accetta il cessate il fuoco di 30 giorni
Avvenire, 12 marzo 2025


 L’operazione “rammendo” è stata affidata a Andriy Yermak, capo dello staff del presidente Volodymyr Zelensky, e sembra aver portato risultati, almeno per ora. Il luogo è stato ancora una volta l’Arabia Saudita, dove una delegazione del governo americano è volata per negoziare una fine del conflitto russo in Ucraina con i mediatori di Kiev: questa volta a Gedda, rispetto a Riad che aveva fatto da sfondo alla tornata di colloqui fra Usa e Russia. Mosca a questo round non c’era, e l’impressione è che non avesse alcuna motivazione a tornare al tavolo negoziale alla svelta. Dalla conclusione dei colloqui a Riad, il Cremlino ha infatti ottenuto da Washington l’arresto delle forniture militari americane a Kiev e della condivisione delle informazioni d’intelligence fra gli Stati Uniti e l’Ucraina. Ieri Vladimir Putin dunque poteva osservare i lavori a Gedda fiducioso che la delegazione di Donald Trump non gli avrebbe imposto termini indigesti per arrivare a un cessate il fuoco. A sorpresa, invece, gli Stati Uniti, hanno promesso di revocare la sospensione della condivisione di intelligence e di riprendere immediatamente l'assistenza all’Ucraina, corredata dall’impegno del consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Mike Waltz, di discutere «nei prossimi giorni» con la controparte russa la proposta emersa da Gedda. E la Casa Bianca ha annunciato la visita del capo della Nato Mark Rutte domani.

La delegazione di Kiev, dopo il disastroso incontro (e relativa imboscata) alla Casa Bianca di Zelensky, doveva cercare a tutti i costi di ricucire i rapporti con Washington, ed è probabile che abbia fatto importanti concessioni per riottenere l’aiuto Usa. «Non è una serie tv quella tra Trump e Zelensky», ha ironizzato il segretario di Stato Marco Rubio. Yermak invece per tutta la giornata si è affannato a pubblicare aggiornamenti positivi dei colloqui in corso. «Mentre arrivo a Gedda, in Arabia Saudita, il cessate il fuoco nella guerra che la Federazione Russa ha scatenato contro il mio Paese, durata tre anni, non mi è mai sembrato più vicino», aveva esordito il capo negoziatore ucraino sul Guardian.«Siamo pronti a fare di tutto per arrivare alla pace», ha poi ribadito Yermak, mentre Rubio confermava che Kiev «è pronta a fare cose difficili». Queste «cose» potrebbero essere compromessi sostanziali sul tema dello sfruttamento delle risorse minerali ucraine naufragato il 28 febbraio, con le parti che ieri hanno concordato di concludere l’intesa sui metalli tecnologici e terre rare «il prima possibile». Rubio ha parlato di colloqui «positivi e produttivi»

Il primo obiettivo di Kiev ieri era raggiungere una tregua delle incursioni aeree e via mare, e l’attacco con droni contro Mosca e la regione della capitale russa aveva proprio lo scopo di «esortare» Putin ad accettare un cessate il fuoco nei cieli. Alla fine delle 7 ore di colloqui, infatti, la delegazione ucraina ha accettato un cessate il fuoco immediato e provvisorio di 30 giorni, a condizione che anche la Russia lo accetti. «Siamo passati dal cercare di capire se la guerra si sarebbe conclusa a quella di capire come si concluderà», ha affermato il Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Mike Walz, al termine dei colloqui. Il Cremlino ieri non si è pronunciato in merito, né ha smentito le notizie di un possibile arrivo domani a Mosca dell'inviato di Trump, Steve Witkoff. Ma Zelensky che ha incontrato il riabilitato principe ereditario Mohammed bin Salman a margine dei colloqui ai quali non ha preso parte, ha ufficializzato la “pace” con Washington invitando gli Usa a «convincere la Russia ad accettare la tregua», perché adesso «capiscono le nostre argomentazioni». E ringraziando Trump che ha «accettato le nostre proposte». Almeno così ha detto. Trump ha invece riguadagnato la scena poco dopo: «Speriamo che Putin accetti la tregua, incontreremo i russi già oggi o domani».

martedì 11 marzo 2025

Il paradosso americano

 


Federico Fubini
Una potenza enorme (e vulnerabile)
Corriere della Sera, 11 marzo 2025

Un’immagine rimane, mentre l’Occidente cambia sotto i colpi di Donald Trump: i presidenti americani ancora in vita ai funerali di Jimmy Carter il 9 gennaio scorso. Quegli uomini hanno presieduto su un quarto di secolo agrodolce per l’America. Il suo prodotto interno lordo è tornato ad allargarsi come quota dell’economia mondiale, oggi sopra al 26%. Ma non tutto è andato liscio.

Il valore azionario creato nello S&P500 di Wall Street in un quarto di secolo supera i 40 mila miliardi di dollari e sette aziende innovative ne presidiano da sole un terzo. Eppure si può guardare all’America anche attraverso le sue vulnerabilità, perché nell’ultimo quarto di secolo la superpotenza ha vissuto una fioritura ambigua. È di gran lunga la più innovativa; ma dal 1999 il debito pubblico sale 54% al 122% del Pil e viaggia in parallelo agli arretramenti del Paese nel mondo. L’ultima operazione riuscita fu proprio nel 1999, in Kosovo. L’amministrazione di Bill Clinton, colpendo dal cielo, fermò i massacri serbi sugli albanesi tamponando una catastrofe.

Il deficit corre

Fu una delle ultime volte. Due anni dopo l’11 settembre segna una vittoria di Al Qaeda, il fallimento dell’intelligence e innesca la più grave sbandata degli Stati Uniti dal Vietnam. La guerra in Iraq, lanciata sulla base di prove false, costa la vita a 4.400 americani, 200 mila iracheni e 2.000 miliardi di dollari al bilancio federale, senza stabilizzare il Paese. L’attacco all’Afghanistan aveva ragioni più solide, perché i talebani avevano coperto Al Qaeda; ma dopo vent’anni, 2.400 statunitensi e 47 mila afgani uccisi, oltre a 2.300 miliardi spesi dall’America, prima Donald Trump e poi Joe Biden negoziano una ritirata che riconsegna il Paese ai talebani stessi. È l’estate del 2021. Quella fuga convince Vladimir Putin che si poteva soggiogare l’ucraina, perché l’America non si sarebbe opposta a lungo.

Solo Iraq e Afghanistan sarebbero costati venti volte il deficit degli Stati Uniti di ciascuno dei primi anni del secolo. Poi la Grande recessione, la detassazione dei ricchi e delle imprese (sotto Trump), il Covid, e piani industriali (sotto Biden) avrebbero affossato il bilancio ancora di più.

E le umiliazioni in politica estera si susseguono. Vladimir Putin, accolto nel G7 (divenuto G8), invade la Georgia nel 2008. Dal 2011 falliscono poi le strategie di Barack Obama sulle «primavere arabe». Neppure una di esse produrrà una democrazia stabile, mentre Obama sbaglia tragicamente intervenendo in Libia e rifiutandosi di farlo — malgrado le promesse — dopo l’uso di armi chimiche in Siria. In entrambi i casi, spalanca le porte ai russi. Ma le ingenuità di Obama riguardano anche Mosca, cui propone un «reset» al quale Putin risponde con l’aggressione alla Crimea e al Donbass del 2014. Per la prima volta dal 1945 i confini in Europa sono spostati con la forza, ma Occidente reagisce con sanzioni senza sostanza.

Paradossalmente, il maggiore successo americano all’estero dal 1999 è proprio il sostegno a Kiev nell’ultimo triennio. Non solo Biden tiene in piedi un’ucraina democratica e indipendente; fa anche sì che la scommessa di Putin vada male. Oggi il Cremlino occupa meno territorio in Ucraina di quanto ne controllasse nell’aprile di tre anni fa (circa il 19% oggi, contro il 22% allora). Intanto la Russia ha perso oltre 200 mila uomini, con 600 mila feriti, ha subito la fuga all’estero di 700 mila giovani, bruciato 200 miliardi di dollari, e ha un’economia che funziona solo per produrre mezzi di guerra ma può reggere così forse solo un altro anno. È il bilancio di un disastro di Putin. Solo Trump poteva offrirgli una trionfale via d’uscita proprio ora.

Il ruolo dei dazi

Proprio qui è il paradosso americano. La superpotenza che colleziona trionfi tecnologici, ma umiliazioni nel mondo, sarebbe tentata di ritrarsi. Ma non può. Il grafico in pagina mostra il fabbisogno di nuovi prestiti supplementari del Tesoro americano, anno per anno dal 1999 al 2024, in proporzione alla crescita nominale mondiale. Per esempio, l’economia mondiale nel 1999 ha generato poco più di mille miliardi di crescita (inflazione inclusa) e il Tesoro americano ha avuto bisogno di 121 miliardi di prestiti in più: appena l’11% della crescita mondiale — America inclusa — bastava a finanziare il governo degli Stati Uniti a rendimenti bassi e sostenibili. Ma negli ultimi anni questa proporzione è cresciuta sopra ben al 50%. L’America ha bisogno di aspirare sempre più soldi dal resto del mondo per tamponare i propri squilibri. Il problema di Trump, cui l’amministrazione guarda con ansia, è di cooptare con l’intimidazione dei dazi gli altri Paesi per finanziare a costi accettabili il Tesoro Usa. La superpotenza è vulnerabile. E lo sa.

Perciò l’America prima o poi si sarebbe ritirata comunque dai suoi impegni in Europa, anche se Trump lo fa in modo traumatico. E perciò l’Europa comunque non ha altra strada se non quella di costruire la propria sovranità politica e di difesa. Parte dell’opposizione in Italia si illude raccontandosi che la spesa militare in fondo non serve. E Giorgia Meloni si illude di continuare con i diritti di veto in politica estera comune e restare sospesa fra Washington e Bruxelles. Ma ora vanno ricostruite le fondamenta dell’Europa e per l’Italia è il tempo di scegliere: se non ci saremo, o ci saremo ambiguamente, non saremo più con la stessa credibilità fra i Paesi fondatori.