Perché non possiamo non dire genocidio
Chantal Meloni
il manifesto, 7 giugno 2025
Quando Raphael Lemkin, giurista ebreo-polacco, coniò questo termine, per descrivere lo sterminio di milioni di ebrei ad opera della Germania nazista e dei suoi alleati, aveva già maturato la convinzione che fosse necessario un nuovo crimine, caratterizzato dalla volontà di distruggere un gruppo in quanto tale, osservando quello che oggi chiamiamo senza ambiguità genocidio degli armeni, all’inizio del secolo scorso.
Sono tanti i genocidi della storia, commessi sia prima che dopo la Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, adottata dall’Onu nel 1948.
Su quella promessa, di non permettere mai più un genocidio, si fonda la nostra comunità internazionale, che si dotava degli strumenti, politici e giuridici per ripartire dalle macerie della Seconda guerra mondiale, con decine di milioni di vittime e intere città rase al suolo.
Sono tanti i modi in cui si commette un genocidio e sono tante le accezioni in cui si impiega il temine, ma genocidio è anzitutto un termine giuridico. Perché parliamo di genocidio rispetto a quel che Israele sta facendo a Gaza? Perché è un termine tecnicamente corretto per descrivere ciò che è in corso; perché appaiono integrati gli elementi costitutivi di tale crimine; perché è necessario ricorrere alle categorie giuridiche esistenti, prima di parafrasare o creare neologismi.
Occorre guardare alla definizione di genocidio ai sensi della Convenzione, rimasta immutata da 78 anni. Una definizione accettata da tutti gli Stati del mondo come diritto consuetudinario, cogente, che obbliga tutti al suo rispetto – non solo nel senso di non commettere atti di genocidio, ma anche, e questo è un punto fondamentale, alla sua prevenzione e punizione.
Solo la prima delle cinque condotte integranti genocidio comporta peraltro l’uccisione fisica (e non si tratta certo di soglie in termini quantitativi di morti): anche causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo, infliggere condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica, imporre misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo o trasferire forzatamente bambini a un altro gruppo, possono integrare questo crimine.
Sono tanti i modi in cui si commette un genocidio, ma tutti sono accomunati da una cosa, lo scopo che si prefigge chi agisce, ossia quell’intento che caratterizza il crimine – di distruggere in tutto o in parte un gruppo protetto in quanto tale (su base nazionale, etnica, razziale o religiosa).
Israele nega di stare commettendo un genocidio a Gaza: afferma di stare combattendo un conflitto armato con Hamas, invoca il suo intrinseco diritto di difendersi e sostiene che le sue azioni sono giustificate dal fine della liberazione degli ostaggi; in breve, di stare combattendo obiettivi militari seguendo le regole dei conflitti armati (il diritto internazionale umanitario).
Ma nessuna regola di diritto internazionale umanitario permette di fare ciò che Israele sta facendo a Gaza – gli attacchi agli ospedali, alle scuole, i bombardamenti a tappeto, la distruzione totale delle infrastrutture civili, gli sfollamenti impossibili di centinaia di migliaia di civili, le torture sui prigionieri, l’uso della fame come arma di guerra. Gli esperti hanno definito il tentativo di Israele di giustificare la sua condotta con la retorica della guerra come «camuffamento umanitario», un abuso del diritto internazionale.
L’esistenza di un conflitto armato (e la commissione di crimini di guerra) non esclude peraltro la commissione di un genocidio, come ben spiegato nel ricorso del Sudafrica contro Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia già a dicembre 2023. Sono innumerevoli i rapporti che analizzano in questi termini, con ampia documentazione, ciò che Israele fa a Gaza: organizzazioni palestinesi, israeliane, internazionali, esperti indipendenti, special rapporteur dell’Onu, autorevoli accademici, storici, sociologi, studiosi del genocidio, studiosi ebrei dell’Olocausto giungono alle stesse conclusioni.
La situazione è divenuta tanto più chiara nelle ultime settimane, con il blocco totale degli aiuti umanitari e la popolazione di Gaza, bombardata, mutilata e affamata in diretta davanti ai nostri occhi.
Non si parla più di un rischio di genocidio, ma di un genocidio in pieno corso, che gli Stati hanno fallito di prevenire. Come ci insegnano gli studiosi del genocidio, l’uccisione fisica dei membri del gruppo è solo l’ultimo di diversi stadi che preparano il terreno, a partire dalla deumanizzazione del gruppo in quanto tale. Il piano di distruzione del gruppo palestinese non è iniziato il 7 ottobre 2023, né è avvenuto senza avvisaglie, né può essere confinato a Gaza. Rapporti datati 2022 ci ricordano che sufficienti segnali c’erano già prima del 7 ottobre; le spunte sulla check list del livello di allarme erano già complete.
Le dichiarazioni del governo israeliano dopo il 7 ottobre hanno reso esplicito ciò che i palestinesi già sapevano. Dovremmo ascoltare di più le vittime ma non lo facciamo, anche perché in fondo siamo razzisti. E così i segnali di allarme rimangono inascoltati, ignorati. Così si arriva a decine di anni di omissioni da parte degli Stati terzi, che poi così terzi non sono.
Sono tanti i modi in cui si commette un genocidio e sono tanti i modi in cui lo si lascia commettere. Ci siamo chiesti come sia potuto avvenire l’Olocausto, il genocidio del Ruanda, quello di Srebrenica e tanti altri. Oggi, rispetto a Gaza, lo sappiamo.