giovedì 11 settembre 2025

Uno schiaffo in faccia al popolo

Giansandro Merli
Rousseau, deputata ecologista: «I francesi protestino senza sosta, dobbiamo cacciare Macron»
il manifesto, 11 settembre 2025

«Macron deve andarsene». Sandrine Rousseau – deputata degli Ecologisti ed esponente del movimento femminista, economista già vicepresidente dell’università di Lille – non ha dubbi su chi sia il responsabile della crisi. Risponde al manifesto mentre la Francia ancora brucia per le manifestazioni andate in scena ieri.

Gli Ecologisti hanno partecipato alla protesta «blocchiamo tutto». Qual è il suo giudizio sulla nuova mobilitazione?
È un movimento sociale che esprime la rabbia del popolo francese contro Emmanuel Macron, le sue politiche pubbliche e i diversi governi che ha nominato. E soprattutto contro l’ostinazione del presidente della Repubblica a non voler ascoltare e rispettare il popolo francese.

Il nuovo primo ministro indicato da Macron è Sébastien Lecornu. Come interpreta questa scelta?
Come uno schiaffo in faccia al popolo.

Perché?
Perché Lecornu rappresenta la stessa politica che viene portata avanti dal 2017. È un fedelissimo del presidente, ma Macron è ormai in netta minoranza nel paese.

François Bayrou, l’ex primo ministro recentemente sfiduciato, ha detto che la Francia è «in pericolo perché sull’orlo dell’indebitamento eccessivo». Da cosa dipende questo debito?
Dalle politiche pubbliche di Macron: da quando è stato eletto il debito è aumentato di oltre mille miliardi di euro (2.281 miliardi a giugno 2017, 3.346 nel primo trimestre 2025: +47%, ndr). Adesso basta! Basta ostinarsi su una linea politica che non va bene ai francesi, che li distrugge e li schiaccia, e fa anche aumentare il debito.

Questa dinamica è legata al tema dell’ingiustizia fiscale?
Certo, perché Macron ha fatto tanti regali alla classe più facoltosa. La Francia è il paese in cui negli ultimi anni i più ricchi si sono arricchiti maggiormente. Siamo terzi al mondo per numero di milionari. Macron è il loro presidente, un presidente contro il suo popolo.

Qual è il legame tra la crisi politica e quella di bilancio?
Non c’è. La crisi politica dipende dal rifiuto del presidente di accettare la sconfitta alle ultime legislative. Ormai è come un forsennato barricato all’Eliseo. Non vuole ammettere di aver perso il consenso. È un fatto molto preoccupante per la democrazia francese, ma non ha nulla a che vedere con il debito. Questo era l’argomento di Bayrou per imporre tagli da 44 miliardi di euro in un solo anno: cosa che ovviamente non sarebbe stata sostenibile per la gente. Per questo è stato sfiduciato, ma adesso tocca a Macron.

Cosa deve fare la sinistra affinché il presidente si dimetta?
Noi parlamentari presenteremo una mozione di destituzione, ma non possiamo fare le cose da soli. Sarà necessario che le francesi e i francesi, soprattutto quelli che soffrono di più, escano per strada e manifestino, senza fermarsi. Bisogna imporre un rapporto di forza nelle strade.

Verso le prossime presidenziali la sinistra appare più divisa che mai. Non c’è più speranza di un’altra edizione del Nuovo fronte popolare che ha sconfitto la destra e il centro?
C’è assolutamente speranza. Nonostante i giornali e i deputati macronisti raccontino che la sinistra è frammentata e distrutta. La realtà è che nei sondaggi continuiamo a crescere. Ormai siamo quasi due volte più forti del blocco centrale. Noi possiamo vincere, loro non riescono a riconoscere di aver perso.

Ma al momento una candidatura unitaria delle sinistre al primo turno delle presidenziali sembra impossibile.
È vero, ma non siamo ancora a quel punto. Se ci sarà lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e saranno convocate elezioni legislative diventerà nuovamente possibile raggiungere un accordo e presentarsi uniti, almeno nella maggior parte dei collegi.

mercoledì 10 settembre 2025

Il bello, il brutto, il kitsch

Caspar David Friedrich, Il viandante sul mare di nebbia, 1818, Hamburger Kunsthalle

Melania Mazzucco
Il bello e il brutto di Umberto Eco

la Repubblica, 4 febbraio 2021

Alla domanda su che cosa sia la bellezza, tutti forse risponderemmo come sant’Agostino sul tempo: «Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». Così almeno, col sornione understatement che lo caratterizzava, Umberto Eco inaugurò la lezione su La bellezza alla Milanesiana del 2005. Alla manifestazione/officina di filosofia, letteratura, musica e arti, ideata da Elisabetta Sgarbi, il professor Eco ha partecipato ininterrottamente dal 2001 al 2015, tenendo – con erudizione, arguzia, e pepati richiami finanche alla cronaca presente – lezioni magistrali sui massimi temi della cultura occidentale, nel teatro Dal Verme gremito di spettatori adoranti: uditorio impensabile oggi, quando siamo tutti costretti a partecipare a conferenze e webinar pur stimolanti nella solitudine delle nostre stanze. Ogni lezione alternava parole e immagini a commento e illuminazione delle prime. Parole sue e di altri autori, di cui citava, spiegava ai profani oppure leggeva alcuni estratti. Spaziando dal prediletto Tommaso d’Aquino a Mickey Spillane, da Giamblico a Mary Shelley e Victor Hugo, fino all’oscuro cronista bizantino Niceta Coniata. Anche per le immagini attingeva a un vastissimo repertorio visuale – quadri, fotografie, illustrazioni di libri, disegni.

La bellezza esordisce con una riflessione sulla relatività: poiché bello è ciò che ci piace – chiedete a un rospo cosa è la bellezza, scriveva Voltaire, e vi risponderà che è la sua femmina panciuta e viscida – ma ciò che ci piace varia, anche incredibilmente, col tempo e con i criteri che usiamo per definirlo. Per dimostrarlo Eco contrappone le antitetiche Uta di Naumburg, stupenda statua gotica del XIII secolo, e la malaticcia e perversa Apparition del simbolista Odilon Redon. E se la bellezza è sempre simmetria, proporzione, perfezione, integrità e claritas, è anche vero che l’irregolare, lo sproporzionato, il mostruoso (esemplificato dai blemmi, gli sciapodi, i cinocefali e gli altri esseri teriomorfi che infestano le cattedrali gotiche) esercitano una seduzione irresistibile, analoga a quella suscitata dalla contemplazione del bello.

Ma per non soggiacere «all’orgia della tolleranza, al sincretismo totale, all’assoluto politeismo della bellezza» Eco suggerisce un sorprendente discrimine: il disinteresse, il distacco. La bellezza è separata dall’idea del possesso, sicché l’opera che a suo avviso allegorizza meglio la nostra esperienza del bello è il Viaggiatore sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich: l’uomo di spalle, in cima a una montagna, col sublime paesaggio della natura davanti a sé. Bellezza è per Eco stare di spalle di fronte a qualcosa di cui non facciamo parte.

E la bruttezza? Non può essere separata dal bello, ed esiste solo in rapporto con esso. La categoria del brutto è infinitamente più ampia, come testimonia la litania di sinonimi sgranati da Eco (sgradevole, repellente, abietto, orrido, laido, rivoltante, schifoso, turpe, orrendo, ecc.), che non ha paragone nella categoria opposta. Ma anche il brutto è relativo. A differenza del bello, però, implica coinvolgimento, passione. Tenerezza e comprensione (come nei pittori manieristi e nei poeti romantici e decadenti, che praticano una vera religione dell’orrendo, di cui è emblematica La carogna di Baudelaire), oppure riso e disgusto (come nel comico e nell’osceno). I greci ci hanno insegnato che il brutto è cattivo, ma il cristianesimo gli ha consegnato i corpi (si vedano le penitenze cui si sottopone Ignazio da Loyola) e la storia dell’arte. Brutto è il diavolo, il Cristo straziato, i suoi aguzzini. L’associazione brutto/cattivo non tramonta mai (esilaranti le lombrosiane descrizioni degli avversari di James Bond nei romanzi di Ian Fleming). Di qui la triste fisiognomica del nemico – l’esotico, il negro, l’ebreo – che Eco illustra attraverso copertine di riviste (La difesa della razza) e poster di film (Der ewige Jude), questi sì di una bruttezza intollerabile.

L’ultima parte della lezione è dedicata al brutto moderno, il Kitsch (Eco lo identifica nei ritratti femminili di Boldini: un’opera che «si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze e si vende come arte»). Tuttavia il Kitsch del passato può diventare arte nel presente e il camp* contemporaneo (decifrato attraverso le suggestioni di Susan Sontag in Contro l’interpretazione) scompagina le categorie binarie di bello/brutto, imponendo criteri di giudizio diversi e complementari.

La lezione si chiude col fuoco d’artificio di un brano di Robert Burton da Anatomy of Melancholy (1624). I collegamenti vertiginosi che avvicinano epoche e culture e sovvertono la cronologia – sicché Marx dialoga con Mel Gibson – e il brillante andirivieni fra parole e immagini, divertono, appagano e insegnano nello stesso momento, donando agli spettatori – oggi lettori – un metodo che è l’essenza stessa del sapere. Inoltre consegnano, più che risposte, dubbi e domande. Sono davvero camp Maciste e la Sagrada Familia di Gaudí a Barcellona? E perché è inequivocabilmente brutta la Natura morta con fiori dipinta nel 1909 dall’aspirante pittore Adolf Hitler? La condanna la mediocrità estetica o è la bruttezza del diavolo che la dipinse a proiettare la sua ombra infame su quei molli, innocenti fiori bianchi?

(*) stile artistico e comportamentale esagerato, teatrale, frivolo ed eccentrico, spesso associato all'estetica omosessuale. 

Stefano Benni, la vertigine

Antonio Gnoli
Intervista a Stefano Benni: meglio vivere nel tempo della letteratura

la Repubblica, 13 agosto 2017, ripubblicata il 9 settembre 2025

Non so se sia un ricordo completo o solo un frammento. Ma nel momento in cui sento la voce di Stefano Benni, mi torna alla mente. Assisto a una lezione che lo scrittore tiene sul tempo comico, davanti a una platea in prevalenza di giovani. Spiega che la difficoltà di pronunciare una battuta è nella scelta di tempo. Che la sua efficacia è nel momento giusto in cui la si dice. Già, ma qual è il momento? Il comico lo sa e noi ne sperimentiamo la forza. Anche la vita, che non è affatto comica, si compone di momenti. Più che un flusso, la vita è un lungo tempo fatto di piccole rotture, strappi, salti, senza di che non sapremmo mai chi siamo davvero. Ieri Benni ha compiuto settant'anni.

È un uomo solare con qualche striatura malinconica. Mi fa pensare a quei sognatori di biliardo persi dietro geometrie impossibili: "Ho giocato soprattutto in gioventù, abbastanza a lungo per sapere che anche la vita ha le sue traiettorie, sponde, buche, colpi vincenti e perdenti. I giocatori eccelsi sono pochi. Gli altri sognano, sognano appunto di diventarlo. Mi chiedi cosa siano stati i miei settant'anni. Non lo so. Non ho voglia di bilanci. Chiedimelo di nuovo fra settant'anni".

È come se il tempo che passa e quello che resta ti provochi assuefazione o noia.

"Col pensiero razionale è impossibile affrontare quanto è già passato e quanto ti resta senza provare vertigine. Per questo preferisco vivere nel tempo circolare della letteratura, dove posso leggere un libro scritto mezzo secolo fa come se l'autore fosse davanti a me, o posso inventare un personaggio che nell'anno tremila parla del suo passato. Un grande scienziato, credo Niels Bohr, diceva: ogni tanto vorrei avere l'idea del tempo che hanno i bambini".

Hai spesso raccontato la tua infanzia, gli anni trascorsi in campagna, le figure dei nonni. Cos'era quel mondo prolungato e vissuto nell'appennino bolognese?

"Era un minuscolo borgo che si chiamava Biolo, dove ho passato molto tempo. La mia casa fu distrutta dal passaggio dell'autostrada. Ho cominciato molto presto a fare i conti con la catastrofe ambientale e la speculazione. L'Autostrada del sole era forse necessaria, ma non fatta in quel modo. Allora però si ribellò solo chi fu ferito, non esisteva un vero movimento per l'ambiente. Nei miei primi libri parlavo di un'Italia che franava, restava senza acqua e andava a fuoco. Speravo di avere esagerato. Mi sa di no".

È vera la storia che ti trovarono a ululare insieme ai cani e che preoccupati ti spedirono da uno psicologo?

"Molte parti della mia biografia sono inventate, è un modo di difendere la mia privatezza. Ma quell'episodio è vero, è da lì che viene il mio soprannome "lupo". Fu una bellissima follia notturna".

Sei nato a Bologna. Quanto ha contribuito a formarti?

"Se intendi alludere alle mia formazione culturale ho letto e amato di tutto, con sacro disordine. Bologna è stata la capitale dei nuovi fermenti culturali degli anni 60 e 70, era una città ispirata dalle Muse, da Eros e da Dioniso. Adesso è consacrata a San Cibo, ha più ristoranti che sampietrini. Ma qualche realtà interessante resiste ancora".

C'è una mitologia della città che ti piace?

"Ho vissuto la maggior parte della mia vita sull'Appennino, a Roma, in Sardegna, all'estero. Mi sento bolognese solo per gli affetti. Perciò la mia più grande mitologia è la formazione del Bologna dello scudetto 1963: Negri, Furlanis, Pavinato, e così via, la mia generazione la sa ancora a memoria".

Quali sono stati i personaggi del mondo emiliano (intendo scrittori, artisti, cantanti, personaggi anche comuni) con cui hai avuto rapporti più stretti?

"Moltissimi, da Roversi a Celati, da Cuniberti a Pazienza, da Guccini a Freak Antoni, ma anche persone non troppo conosciute dai media, come Morgantini e le sue mense sociali o Fabian Lang e la sua Harambe di sostegno ai migranti, o il gruppo di Psicoterapia e Scienze umane. Ho avuto invece pochissimi rapporti con l'università e col Comune".

Il luogo cui hai dato la massima riconoscibilità (antropologica e culturale) è il famoso Bar Sport. Forse la prima accademia del quotidiano. Davvero i luoghi " eterni" sono solo nei nostri ricordi?

"Sì, li ricordiamo con nostalgia un po' imprecisa. Erano belli, ma rievocandoli ci sembrano ancora più sereni e divertenti di quanto in realtà fossero. Quello che rimpiangiamo davvero è che eravamo giovani".

Lo dici quasi con una forma di rimpianto.

"Lo dico consapevole di non essere mai invecchiato, è il mio corpo che ha deciso di invecchiare".

Un corollario del Bar Sport è l'altrettanto famosa "Luisona", la pasta non pasta, su cui sospetto siano state scritte dotte tesi di laurea. Forse è il primo esempio totemico di come il cibo oscilli tra divieto e trasgressione, con quello che ne consegue. Insomma cos'era "Luisona" un'idea platonica nel cielo di un'anonima vetrinetta?

"La Luisona era un ingenuo sogno di abbondanza, la speranza di non provare più la fame e la miseria della guerra. Era la Dea dei trigliceridi, una Venere che usciva corposa dalle acque, prima delle pasterelle top-model di adesso".

A proposito di cibo e antropologia hai mai conosciuto quel personaggio assai bizzarro e straordinario che è stato Piero Camporesi?

"Sì l'ho conosciuto e ho assistito a qualche sua lezione. Lui, Enzo Melandri e Roberto Dionigi furono grandi intellettuali bolognesi che non sono stati abbastanza considerati, forse perché erano degli irregolari".

La tua professione di scrittore è cominciata con il giornalismo (mi pare al Manifesto), che ricordi hai delle persone che hanno fondato e diretto quel giornale: Rossanda, Pintor, Parlato?

"Pintor mi ha insegnato che un corsivo non può essere lungo tre colonne. Rossana mi ha fatto capire quanto dovevo approfondire la mia scarsa preparazione, Parlato mi ha insegnato che l'allegria era rivoluzionaria. Una grande scuola, anche se io ero considerato un anarchico e Rossana, all'inizio, mi chiamava "quel pazzo che ride sulle cose serie". Ma poi cambiò idea".

Cosa è stato il 68 per te? Spesso dai l'impressione di starci non dico di malavoglia, ma in controtendenza, per esempio con letture scarsamente canoniche: Pound, Céline, Eliot eccetera. Se capisco bene hai evitato il versante americano- protestatario (Beat Generation, per intenderci), privilegiando una certa reazionarietà. È così?

"Assolutamente no. Ho letto avidamente la Beat Generation: Kerouac, Ginsberg, Corso. Ma poi tenevo nella borsa Nietzsche e Gramsci. La cultura dovrebbe essere fatta di differenze e sani litigi, non di "scomuniche". Leggevo quello che mi pareva, mi sembrava giusto avere un giudizio personale e non imposto dall'ideologia. Pound non l'ho mai amato troppo, Céline è un misantropo spietato e geniale, ha fatto incazzare sia la destra che la sinistra. Eliot secondo me è un rivoluzionario che ha usato la tradizione classica, le sue "rovine" e le ha trasformate in qualcosa di nuovo e moderno, ha "osato" mettendo insieme poesia, gnosi e fede".

Lo stile è tutto in uno scrittore?

"Non saprei dire cos'è questo stile. Per me il dono di uno scrittore è la sua musica, il suo modo di parlarti, il suo mondo, la sua forza e la sua fragilità. Tutto questo può chiamarsi stile?".

Le tue storie prendono spunto dalle realtà più diverse e da mondi differenti ( donne, adolescenti, gente comune o anonima, gente che conosce la dignità e gente che l'ha persa, mostri o in via di mostrificazione), a volte prevale il grottesco, o il surreale, altre sembra farsi strada la solitudine e il dolore. Come vivi queste differenti tonalità?

"Il fatto che il mondo comprenda tutte queste tonalità, che sia vario e pieno di angeli e diavoli, di mostri e eroi, è un buono stimolo per uno scrittore. Ogni mattina i volti, le conversazioni, i paesaggi mi suggeriscono una storia. Mi piacerebbe raccontarle tutte, ma non è possibile. Ho scritto anche troppo".

Troppo?

""Ho scritto troppo" è una battuta, altri più bravi di me hanno scritto meno".

Una persona che è stata credo importante nella tua attività letteraria fu Grazia Cherchi. Che ricordo ne hai?

"Ero un giovane scrittore sospeso tra presunzione e insicurezza, che si accontentava di fare un po' ridere. Lei mi ha spinto, mi ha criticato, mi ha incoraggiato, ha tirato fuori dalla mia scrittura ricchezze che non sapevo di avere, mi ha insegnato a riscrivere cinquanta volte la stessa pagina, mi ha dato fiducia. Le devo moltissimo ".

Per tutto quello che hai fatto e scritto sei considerato uno scrittore di "sinistra" ( lo metto tra virgolette perché ho la convinzione che sia una gabbia strettissima per te). Scrivere a o per la sinistra (diciamo per un certo pubblico di lettori) non è un equivoco che ci siamo trascinati dietro dal dopoguerra?

"Se qualcuno dice che sono un scrittore di sinistra non lo considero certo offensivo. Non sono mai stato iscritto a nessun partito e non credo lo sarò mai. Ma chiudere gli scrittori entro piccole gabbie di definizioni è come dici tu, un equivoco e un costume perverso. Per fortuna, parecchi scrittori scappano dalle gabbie e volano via".

Cos'è oggi sinistra: un feticcio? Una speranza più o meno tradita? Un'occasione mancata? Un'inutile sceneggiata per attori mediocri? O cosa?

"Non mi piace il restringimento simbolico e culturale che le parole sinistra e destra hanno subito, fino a immiserirsi, pietrificate in risse e slogan elettorali. Non è vero che non hanno più senso, non lo cercano più. Per un pugno di voti sembrano dimenticare la loro parte migliore, la complessità e le contraddizioni, che hanno accompagnato la loro storia. Nella parola sinistra ci sono totalitarismi ma anche grandi battaglie per la libertà, ci sono sacrifici e lotte sacrosante, opportunismi e tradimenti. Perché arrendersi davanti allo scenario problematico del Duemila?".

Vale anche per la destra?

"Anche la destra potrebbe ripensare ai suoi grandi filosofi, o accettare la sfida di una società multietnica, invece che rimpiangere l'orbace, riciclare vecchi razzismi o rubacchiare i soldi statali. Sinistra e destra potrebbero ritornare costellazioni di idee, senza affogare nella palude rassicurante del "centro", o riciclarsi sotto mentite spoglie. Dobbiamo rassegnarci a pronunciare queste due parole con disprezzo? Se continua così, resterà solo il dominio della tecnologia, che se ne frega se parlano male di lei, va avanti e basta".

Un tuo romanzo si intitola "La grammatica di Dio", naturalmente è un pretesto per chiederti in quali forme vedi questo vecchio signore che ci ostiniamo a immaginare padrone delle nostre vite?

"Il mio ultimo libro Prendiluna dice molte cose non su Dio, ma sull'idea umana di Dio. Se qualcuno mi chiede se sono " credente" rispondo che sono molto, molto credente: credo in moltissimi tipi di amori, nelle infinite meraviglie dell'homo sapiens, e anche nella sua ferocia e nel dolore. Ma non credo per nulla nelle religioni monoteiste, quelle che usano le parole Infedele e Eretico. Nessuno pretenda di avere l'esclusiva della parola "credente"".

Il fatto di aver privilegiato nella tua vita professionale anche la satira, la comicità, il grottesco a quale riflessione ti ha portato? Voglio dire che approccio è stato alla vita e al mondo?

"Il senso dell'umorismo mi ha salvato la vita in più occasioni".

Mi ha colpito che nella tua biografia convivano due esperienze così diverse come quella della rivelazione del mondo rock con David Bowie e quella più esistenziale con Fabrizio De André.

"Fabrizio era un amico e un grande poeta, solo lui, Baldini, Marin e pochi altri hanno usato il dialetto con tanta espressività. Di Bowie fui subito fan, vidi i suoi primi concerti a vent'anni. Scriveva testi ermetici bellissimi, era un artista totale e non solo un feticcio glamour. Adoro Dylan, ma provocando, ho detto che avrei dato il Nobel a David".

Quali sono stati i romanzi che hanno formato la tua educazione?

"Molti, moltissimi, ecco perché amo la letteratura: mi ha nutrito con abbondanza, dopo settant'anni ho letto un decimo dei libri che vorrei leggere".

Quali sono i tre libri che porteresti con te all'inferno (o in paradiso)?

" Non credo all'inferno o al paradiso Ma dalle descrizioni che ne fanno, direi che non sono posti adatti alla lettura. In uno i diavoli ti tormentano e ti svelano il finale dei gialli, nell'altro gli angeli ti bombardano di consigli di lettura e ti epurano i testi".

Che tipo di lettore ritieni di essere?

"Onnivoro, e mi piace pensare che leggiamo per sapere che non siamo soli".

La Francia a pezzi

Giorgio Ferrari
Dalla grandeur al tracollo: perché il sogno di Macron è finito
Avvenire, 10 settembre 2025 

«Potete rovesciare il governo, ma non potete cancellare la realtà». È l’amarissima ma altrettanto realistica chiosa con cui il dimissionario François Bayrou si è congedato dall’Assemblea Nazionale, riponendo simbolicamente quella scure di cui il suo governo stava affilando la lama, predisponendo drastiche misure di bilancio e una austerity per il 2026 che puntava a 44 miliardi di euro di tagli alla spesa e nuove imposte. Ma tutto è naufragato nella Francia di Emmanuel Macron: la fiducia, la grandezza, la grandeur, la speranza in un domani migliore. Le nude cifre corredano la sfiducia che è calata sul governo: 3.415 miliardi di debito pubblico e un bilancio che non raggiunge il pareggio da 51 anni, «una nave - come si è sentito dire durante il dibattito – che imbarca acqua da mezzo secolo».

Al di là delle decisioni che prenderà il presidente – difficile che accetterà di farsi da parte considerato il contesto internazionale che vede la Francia attiva in prima persona sue due fronti caldi, l’Ucraina e il riconoscimento dello Stato palestinese – il macronismo è finito. La spinta propulsiva di En Marche!, il guizzante tecnocrate con lampi di spartachismo socialista che si muoveva spavaldo sull’onda di un riconoscimento popolare che lo aveva traghettato con un balzo dalla sinistra di Hollande all’Eliseo, oggi sono solo un ricordo. Il ragazzino che amava sopra ogni cosa Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, che leggeva Gide, suonava il pianoforte e si commuoveva ascoltando Charles Aznavour e a 12 anni aveva deciso di battezzarsi («Per scelta personale»: i genitori se n’erano scordati...), oggi è una figura teatralmente impopolare, sfigurato nelle ambizioni personali e in crisi di ispirazione.

Attorno a lui si muovono vermicolanti legioni di pretendenti al trono, sia dall’opposizione (Marine Le Pen chiede le dimissioni immediate del presidente, forte dei sondaggi che danno il Rassemblement al primo posto, mentre il veterocomunista Mélenchon vuole nuove elezioni legislative e nuove presidenziali) sia dai ranghi stessi della destra liberale e di quello che fu il gollismo. Già, de Gaulle… che con la Quinta Repubblica aveva creduto di aver messo in sicurezza il potere con un semipresidenzialismo che aveva inghiottito e sopportato di tutto, comprese le stravaganti cohabitations, come quella tra Mitterrand e Chirac, poi fra Mitterrand e Balladur e infine tra Chirac e Jospin. Ma anche la Quinta Repubblica mostra ormai la corda. Ai confini del consenso che Macron aveva addensato attorno alle classi più abbienti si staglia oggi un malcontento che la Francia storicamente conosce bene da sempre. Dopo i Gilet Gialli, oggi la protesta si preannuncia ancora più radicale. Il frastagliato movimento di piccoli borghesi e giovani proletari che assedia l’Eliseo si fa chiamare bloquons tout, “blocchiamo tutto” e davvero intende farlo: treni, aerei, bancomat, carte di credito, uffici pubblici, una jacquerie che dal medioevo si ripresenta ogni volta in forme diverse. Come quando i francesi boicottarono il referendum sulla costituzione europea promosso da Giscard D’Estaing o quando i portuali trotzkisti di Calais votarono per protesta Jean Marie Le Pen affondando il più civile e lungimirante governo che la Francia avesse avuto dal dopoguerra, quello dell’ugonotto socialista Lionel Jospin, inventore dell’invidiato welfare d’oltralpe, delle 35 ore, del sistema sanitario – all’epoca - migliore del mondo.

Lo scenario di oggi mostra una Francia délabré, acciaccata e sofferente, attraversata da inaccettabili diseguaglianze sociali e da altrettanto inaccettabili privilegi di casta riservati agli elettori ad alto reddito. Quel “macronismo in un solo Paese” che ha portato alla disfatta di tre governi in un solo anno e la caduta di credibilità di un presidente. In queste ore si ama dire che la Francia si sta italianizzando, che dovrà imparare quel gioco di alleanze e di precarietà che consente alle fragili coalizioni di governare che è proprio dello spirito italiano. Ma evitiamo per favore quei sorrisi di divertita commiserazione di fronte alle inconfutabili difficoltà dei cugini francesi. Già a suo tempo li spesero malamente Nicolas Sarkozy e Angela Merkel sbeffeggiando pubblicamente il presidente dimissionario Berlusconi, e non fu certo un gesto di eleganza politica. Meglio continuare a guardare alla Francia non come l’avversario di un derby ma come il grande Paese senza il quale l’Europa non ci sarebbe. E con il quale bisogna rimboccarsi insieme a tutti gli altri le maniche per ricostruirla dalle fondamenta.


Francesca De Benedetti 
Macron sceglie un altro fedelissimo: il suo "clone" Lecornu diventa premier

Domani, 10 settembre 2025


Ci risiamo: Emmanuel Macron si è di nuovo nominato premier. Questa volta il prescelto si chiama Sébastien Lecornu. Rispetto a Michel Barnier e François Bayrou – a loro volta individuati con l’obiettivo di portare avanti le politiche macroniane – presenta due tratti che lo caratterizzano. Il primo è che Lecornu è dichiaratamente un fedelissimo di Macron.

Ministro delle Forze armate, grazie al legame d’acciaio con il presidente è sopravvissuto a tutti i cambi di stagione degli ultimi tempi: ha conservato la stessa delega quando a Matignon c’era Élisabeth Borne, poi sacrificata dal presidente per l’insofferenza generale sulla riforma delle pensioni. È rimasto in quell’incarico quando premier è diventato Gabriel Attal, incaricato ufficialmente di far risorgere il macronismo del 2017 e crollato sotto questa missione come un soufflé al voto delle europee (ma tuttora capogruppo e uomo di punta del partito del presidente).

Sébastien Lecornu ha resistito quando premier è diventato Michel Barnier e mentre lui, l’ex negoziatore di Brexit con sempiterna vocazione presidenziale, si bruciava come meteora, invece il ministro no: eccolo di nuovo allo stesso incarico con Bayrou, col quale già si era conteso la nomina; o perlomeno, c’era già, Lecornu, nel toto premier. Ma cos’avrà mai di così speciale, si dirà? Anzitutto il portafoglio, perché per il sempre più impopolare presidente della Repubblica (ancora martedì il 64 per cento di francesi ne auspicava le dimissioni) la cornice di guerra è una chiave per mantenere intatta la propria influenza.

Non a caso esibisce protagonismo coi volonterosi, ci riferisce di scambiar messaggi quotidianamente con Trump, e già da mesi ha preannunciato ai francesi in tv che tutto con la guerra cambierà: l’economia, le dinamiche sindacali, ovviamente la politica. Di speciale agli occhi della Macronie il nuovo prescelto ha il carattere – si dice – rotondo, non a caso è considerato l’altra faccia della luna rispetto al suo strettissimo amico Gérald Darmanin, che si è costruito come ministro dell’Interno il volto duro.

A ridosso della nomina, i due si sono incontrati, come fanno almeno ogni due settimane: Lecornu di Darmanin è stato persino testimone di nozze, ha fatto da padrino a uno dei suoi figli. Insomma esiste un legame strettissimo tra gli stretti di Macron, e in questo caso il legame conta doppio, se si pensa che almeno uno dei due scommette sulla propria corsa all’Eliseo.

Un altro Macron è possibile


«Presidente, lei fa l’arbitro o il giocatore?», aveva chiesto provocatoriamente Marine Le Pen in Assemblea nazionale nel giorno del voto di sfiducia a Bayrou. La scelta sfacciata di un macroniano doc fa da risposta, del resto lo stesso Rassemblement National – la cui leader aspetta il processo a gennaio e febbraio 2026 per vedere se la propria ineleggibilità è confermata – aveva annunciato che non avrebbe sostenuto la mozione di destituzione presentata dalla France Insoumise contro il presidente; il che deve aver rafforzato Macron nel piano di giocare, e di giocare il tutto per tutto.

Questo beffando totalmente i socialisti: dopo averli sganciati dal Fronte Popolare lasciando che tollerassero i primi mesi del governo Bayrou, ha totalmente ignorato la rivendicazione di Olivier Faure, il leader del Partito socialista, il quale rivendicava la nomina. E non solo: ha nominato Lecornu proprio mentre Raphaël Glucksmann, volto centrista del socialismo, si buttava in avanti, offrendo di trattare con la Macronie.

Dopo aver sciolto l’Assemblea, indetto elezioni parlamentari che hanno lasciato la Francia senza maggioranza assoluta (com’era già ai tempi di Borne) ma con il blocco di sinistra in testa, il presidente non ha ceduto né al blocco in testa né alla negoziazione parlamentare la scelta della guida. E dopo che questa operazione ha portato al fallimento a catena di Barnier e Bayrou, che almeno facevano teatro di autonomia, davanti all’ennesimo fallimento il presidente cala la maschera: già che ci siamo – avrà pensato – tanto vale metterci la faccia. Non proprio la sua, ma è come se fosse.

«Blocchiamo tutto»


Mercoledì in Francia scende nelle strade il movimento «Bloquons tout» («Blocchiamo tutto»), aggregatosi anzitutto su internet su istanze come lo stop a un bilancio austeritario, l’insofferenza per il macronismo, l'attenzione a Gaza. L’insoumis Jean-Luc Mélenchon ha sùbito piazzato la bandiera su questo movimento di “gilet rossi” e prima ancora che questi ultimi iniziassero con scioperi e proteste, centristi e destre di ogni conio puntavano in anticipo il dito contro Mélenchon per «disordine e caos»: il cordone contro l’estrema destra è archiviato, è in voga quello contro la sinistra. Invece di offrire uno sbocco istituzionale all’insofferenza popolare, di dare ascolto alle organizzazioni sindacali che pure il 18 andranno in piazza, il presidente della Repubblica sfida tutti portando nel palazzo di governo il suo ministro della guerra. Ed è in effetti una dichiarazione di guerra, perlomento ai partiti di opposizione.

L' arroccamento con tutti i rischi del caso



Gli scacchi, si sa, sono una metafora della vita. Imperfetta, grossolana e forse tanto più efficace in quanto fa emergere aspetti che nella realtà si presentano in modo meno chiaro ed evidente. Nelle circostanze attuali della politica francese il presidente Emmanuel Macron poteva scegliere tra due strategie: l'arroccamento e la mossa del cavallo. Il Dizionario italiano De Mauro dà per "arroccarsi" questa definizione: "mettersi sulla difensiva, ostinarsi nelle proprie opinioni". Ecco, posto di fronte al compito di nominare un nuovo primo ministro, Emmanuel Macron ha scelto l'arroccamento. Il prescelto, Sébastien Lecornu, è un suo fedele seguace, quasi un suo doppio, l'intenzione sembra proprio essere quella di mantenere fede fino in fondo al programma politico già due volte bocciato dalle urne, puntare sull'offerta, alleggerire le tasse sui ricchi, mantenere alta la pressione fiscale sul resto della popolazione, linea dura di fronte all'immigrazione, allungamento dell'età pensionistica. Il consenso misurato dai sondaggi è sceso ai livelli più bassi mai toccati nei confronti di un presidente, le manifestazioni contrarie si sono moltiplicate dai cosiddetti gilet gialli ai sindacati, a nulla è valso questo fuoco di sbarramento, il presidente non ha ceduto di un millimetro, è rimasto sulle sue posizioni.
A nulla sono valsi gli stessi risultati elettorali negativi, prima alle europee, poi alle elezioni legislative. Ha avuto inizio il balletto dei primi ministri chiamati a capeggiare governi minoritari. Prima il gollista Barnier, poi il centrista Bayrou. Adesso siamo al macroniano (di ferro) Lecornu. Interrogato in proposito da Francesca Schianchi il politologo Yves Mény ha fatto osservare che una scelta simile per il presidente avrebbe significato "condannarsi alla ghigliottina" (La Stampa del 9 settembre): "Mi stupirebbe molto se Macron agisse in questo modo, perché rappresenterebbe una provocazione, anche agli occhi di chi è disposto a dare il proprio sostegno. Magari il presidente si orienterà verso profili del genere all’ultimo, quando si ritroverà isolato e non avrà altre possibilità". E invece Macron ha proprio deciso subito di reagire nel modo più drastico alla difficoltà in cui si è venuto a trovare. Ha praticato una forma di arroccamento. Mossa difensiva che non presenta solo vantaggi: sempre negli scacchi il re è il pezzo di gran lunga più importante, se cade, la partita è persa. Quando il giocatore non è più in grado di sbloccare la partita con una mossa sola e deve quindi subire la perdita del re, si ha lo scacco matto, con la vittoria dell'avversario. L'arroccamento corrisponde a un estremo tentativo di evitare questa eventualità. Il re si rifugia dietro la torre, sperando di salvarsi. Non è detto che la manovra riesca: l'avversario può ripartire all'attacco e, mossa dopo mossa, costringere il re già minacciato in una trappola mortale. Scacco matto, fine della partita.
Come mai Macron si è esposto a questo rischio? Deve aver valutato di non avere altre possibilità più vantaggiose. Ha attuato una strategia difensiva che gli permette di prolungare la resistenza agli attacchi senza grandi speranze di vittoria. Tutt'al più può sperare di logorare il Raggruppamento Nazionale di Le Pen e Bardella, cercando di stanarlo e spingerlo a scoprire la sua fragilità strategica. Machiavellismo estremo, che può raggiungere lo scopo come andare incontro a un clamoroso fallimento. 
A sua volta, la mossa del cavallo avrebbe presentato dei rischi ma, se non altro, avrebbe condotto  a una scommessa sul futuro, a un aggiramento dello scontro frontale per riaprire la partita su un terreno diverso. Questo spiegava Vittorio Foa in un suo testo famoso, Il cavallo e la torre, appunto: “Il titolo di questo libro richiama uno dei temi che mi stanno a cuore. È quello dei due modelli dell’agire, nella politica come in generale nella vita: il modello della Torre, che procede in linea retta, come confronto e scontro su un terreno imposto a cui non si può sfuggire, e quello del Cavallo, che salta lateralmente, come ricerca di terreni e livelli diversi. La mossa del Cavallo è molto più facile sulla scacchiera che nell’azione pratica. Ma si può tentare.” (Vittorio Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni di una vita, Einaudi, Torino 1997). C'era stata un'apertura dei socialisti, che avevano posto delle condizioni per un loro ritorno al potere. Macron avrebbe dovuto accettare una qualche coabitazione. Il suo partito avrebbe contribuito a formare la maggioranza di governo con una forza politica che alle ultime elezioni, nel primo turno, era schierata all'opposizione con la Francia Indomita di Mélenchon. Ne sarebbe emerso un tentativo onorevole di rilanciare le istituzioni repubblicane strette nella tenaglia formata dai populismi di destra e di sinistra. Niente. Macron ha preferito la chiusura accompagnata da subdole manovre di avvicinamento a questi e a quelli, punto per punto, in modo da permettere l'approvazione del bilancio. Ce la farà? Non ci sono molte ragioni per scommettere sul successo di una manovra così segnata dall'arroganza e dalla più tetragona testardaggine, in obbedienza al carattere del suo disgraziato promotore.  


https://latorre.blog/2025/06/22/la-mente-dei-campioni-di-scacchi-famosi-analisi-delle-partite-storiche/

Il tennis spettacolo. Un lamento

Battista Gardoncini
Quando il tennis era eleganza

Oltre il ponte, 9 settembre 2025

Come è andata in campo l’abbiamo visto tutti: Alcaraz è stato devastante e Sinner, alle prese con una prima palla di servizio che proprio non voleva entrare, ha commesso errori per lui insoliti. Con la vittoria a Flushing Meadows lo spagnolo è tornato con pieno merito  in vetta alla classifica ATP, ma all’italiano resta la consolazione di essere l’unico tennista al mondo in grado di batterlo come ha fatto a Wimbledon, e scusate se è poco.

Detto questo, visto che in gioventù ho passato molte ore a maltrattare palline sulla terra rossa e ad ammirare dalle tribune i grandi del mio tempo — Rod Laver, credetemi, non era male —  consentitemi qualche considerazione sul tennis di oggi, che personalmente mi lascia un po’ perplesso.

Per prima cosa è troppo veloce, quasi violento. Con le nuove racchette, le nuove incordature e le nuove superfici di gioco si è trasformato in uno sport dove la potenza conta più del tocco, il servizio è diventato fondamentale e i giocatori alti sono molto avvantaggiati: non è certo un caso che nella top cento i giocatori sotto il metro e ottanta siano pochissimi. Non c’è niente di male in questo, anzi è nella logica delle cose. Un fisico prestante aiuta in tutti gli sport.  Ma io non riesco a togliermi dalla testa che nel tennis attuale perfino un artista della racchetta come Laver, che superava di poco il metro e settanta, avrebbe rischiato di perdere contro un rozzo “bombardiere” come Shelton. E mi dispiace che nelle scuole venga insegnato ai ragazzini l’orribile rovescio a due mani, invece di prendere ad esempio la straordinaria eleganza del rovescio di Federer.

Purtroppo nel tennis attuale l’eleganza non è più di casa. Senza arrivare agli estremi di Wimbledon, che impone agli atleti di vestire il classico bianco delle origini, un po’ di misura non guasterebbe. Invece in tutti gli altri tornei, complici le pressioni degli sponsor, campioni e campionesse sfoggiano canotte sbracciate e audaci accostamenti di colori improbabili. Molti giocatori, poi, provvedono anche a un adeguato commento sonoro, accompagnando i colpi con urla, gemiti e gridolini che secondo alcuni dovrebbero favorire il coordinamento del gesto atletico. Resta da spiegare come facessero i tennisti di un tempo a coordinarsi altrettanto bene senza grugnire, senza improvvisare balletti in mezzo al campo e senza sollecitare gli applausi di un pubblico che non ha bisogno di essere aizzato per dare il peggio di sé. I VIP di Flushing Meadows, che camminavano sugli spalti durante il gioco, erano molto fastidiosi, ma anche al Roland Garros e al Foro Italico se ne vedono delle belle. 

Del resto, è normale che il tennis trasformato in spettacolo attragga anche persone incompetenti, che non hanno mai preso in mano una racchetta e si comportano come il più becero dei tifosi del calcio. Meno normale è che siano accecati dal tifo anche molti di coloro che scrivono di tennis sui giornali, e che dovrebbero fornire al pubblico gli strumenti per capire quello che accade in campo, anziché glorificare sempre e comunque l’idolo di casa. Questo però è un problema che riguarda la stampa italiana nel suo complesso, non soltanto il giornalismo sportivo.

Una diretta conseguenza del tennis spettacolo è che si gioca troppo, perché i soldi fanno gola e un calendario fitto è nell’interesse dei giocatori, dei manager, degli organizzatori, degli sponsor, e anche della programmazione televisiva. Ma l’usura dei campioni è sempre in agguato: gli infortuni sono diventati la norma, e non c’è torneo dove i risultati non vengano falsati dai ritiri. Nei team dei più forti ci sono i preparatori atletici con i loro sofisticati programmi di allenamento, gli esperti di tattica, i massaggiatori, a volte i guru della mente, ma la storia di altri sport insegna che dove c’è l’usura è anche forte la tentazione di combatterla ricorrendo a mezzi illeciti. Senza entrare nel merito della controversa vicenda che ha coinvolto Sinner, l’elenco dei giocatori famosi squalificati per periodi più o meno lunghi per l’uso di sostanze proibite è troppo lungo per non far pensare a una pratica più diffusa di quanto si creda.

Altri tempi quando l’aiutino arrivava dalla bottiglia di champagne bevuta al night la sera prima di una finale del Roland Garros. Finale che Nicola Pietrangeli, per la cronaca, vinse.