giovedì 19 agosto 2021
Lucio Caracciolo sull'Afghanistan
Il territorio afghano – non lo Stato Afghanistan, miraggio forse indotto dalla locale abbondanza di oppiacei – misura da un paio di secoli la temperatura dei grandi o miseri giochi che le potenze ingaggiano nel cuore impervio dell’Asia. Fossero gli imperi zarista e britannico, l’altro ieri, o siano quelli americano e cinese, con la partecipazione speciale di quel che resta del russo, oggi e certamente domani. La fuga insieme tardiva e affrettata del più agguerrito esercito del mondo da quel campo minato ha già conseguenze rilevanti.
La prima è la perdita di credibilità del Numero Uno. Riflesso della crisi di fiducia in sé stessa che investe la società americana e ne confonde la razionalità strategica (ma anche viceversa). Sarà una tempesta destinata a mutare in schiarita entro fine decennio, come pronosticava l’anno scorso il geniale geopolitico George Friedman nel suo La tempesta prima della calma , il più originale studio sul momento americano? Nelle cancellerie europee riecheggiano quale profezia le parole di Angela Merkel dopo il suo non-incontro con Trump del maggio 2017: «I tempi nei quali potevamo completamente affidarci ad altri sono passati da un pezzo. Noi europei (eufemismo per tedeschi, n.d.r. ) dobbiamo riprendere il nostro destino nelle nostre mani». Il discorso con cui Biden ha giustificato il ritiro davanti al suo pubblico era d’altronde di stringente logica trumpiana. È l’America che sta cambiando registro, non questo o quel presidente.
Più ambigue le conseguenze nel teatro asiatico, epicentro del duello Stati Uniti-Cina. Il provvisorio vincitore di questa mano è il Pakistan. I talebani sono prolungamento dei servizi segreti (Isi) e delle Forze armate pachistane, impegnate a tenere insieme un edificio tarmato dalla nascita, vero arsenale del jihadismo. Soprattutto destinate a controllarne l’arsenale nucleare, allestito per bilanciare quello dell’arcinemico indiano. Con l’evacuazione degli occidentali l’Afghanistan talebano disegna per Islamabad l’agognata profondità strategica contro il vicino. E ne rafforza il vincolo con la Cina, frutto della medesima fissazione anti-indiana. A prima vista, dunque, occorre registrare il trionfo pachistano in terra afghana, su cui l’Isi contava fin dall’autunno 2001, quando correttamente prevedeva che il tentato suicidio americano in quel teatro di “guerra al terrorismo” sarebbe andato a buon fine. Ne deriva la speculare sconfitta dell’India, che negli ultimi anni ha messo tutte le sue uova nel paniere americano venendone ripagata con la cessione dell’Afghanistan al nemico esistenziale.
Al grado superiore, questa concatenazione segnerebbe un punto per Pechino nella partita con Washington. Specie se, come pare, i cinesi riusciranno ad esercitare un certo grado di influenza su Kabul. E se i talebani, pragmatici e concreti come vogliono oggi apparire, eviteranno di esportare le loro tecniche terroriste nella vicina provincia cinese del Xinjiang a vantaggio dei ribelli uiguri.
Sarà interessante verificare se la Turchia, che in Asia centrale sente di giocare in casa, darà mano alle intese sino-pachistano-afghane. Di sicuro Erdogan intende investire nella regione, con l’equilibrismo necessario a non trovarsi contro gli “alleati” a stelle e strisce. Il formidabile successo delle serie televisive di propaganda neo-ottomana in Pakistan testimoniano, fra l’altro, del soft power turco.
Per niente tranquilli sono invece i russi. Il timore che l’estremismo islamista sedimentato nell’Afpak penetri nello spazio regionale ex sovietico e persino in casa propria induce Mosca a cercare fra i talebani referenti che garantiscano contro questa tentazione. Ancora meno sereni i persiani, che hanno perso la loro sfera d’influenza attorno a Herat e sono esposti ai devastanti flussi di droga e alle ondate di profughi afghani in fuga via Iran-Turchia verso l’Europa.
Tutto ciò conforta chi a Washington, un po’ credendoci e altrettanto per consolarsi, confida che questa sconfitta possa presto volgere in rivincita: noi ce ne andiamo da quel pantano, ora sono affari di cinesi, russi e iraniani. La storia non è finita. Tantomeno nella terra del Grande Gioco.
La Repubblica, 19 agosto 2021
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lunedì 16 agosto 2021
Un museo a Ferragosto
SIMONE LORENZATI
ROSSANA (CN) - E' un giorno agostano caldissimo. A tutto si pensa tranne che ad una visita ad un Museo. Eppure. Eppure senti che devi andarci, senti che quel piccolo passo non è un passo qualunque. Perché in effetti non lo è.
Intanto è la prima volta in cui (ri)torni in un Museo, dopo un anno e mezzo. Nel frattempo una pandemia generale che ha sconvolto il mondo ma che, paradossalmente, ha anche aiutato a dare il giusto valore alle cose. E che ha ricordato a tutti quanti l’enorme importanza della cultura e della storia. Senza dimenticare il dovere della testimonianza, quella che ci permette di capire cosa siamo stati (e, magari, di provare a decidere dove andare).
Ed è proprio allora che hai la fortuna di trovare aperto il Codirosso, ovvero il Museo della Resistenza presente a Rossana (CN).
Nato vent'anni fa su iniziativa del professor Riccardo Assom, attento storiografo della Resistenza, l’Ecomuseo Il Codirosso si colloca in Val Varaita, ossia in un luogo che vide attivi i partigiani della 15esima Brigata garibaldina “Saluzzo”, poi divenuta 181esima a causa del trasferimento della prima in Val Po. Da oltre sedici anni, ormai, l'Associazione che ne cura la gestione è un Ente Onlus riconosciuto.
Il museo si caratterizza per una collezione estremamente ricca di cimeli, tra cui alcuni rari o finanche unici, cui si aggiungono attente descrizioni didascaliche, documentazioni fotografiche e cartacee.
Da rimarcare, poi, i numerosi disegni realizzati dal comandante Ernesto Casavecchia negli anni che precedettero la guerra, disegni che arricchiscono ulteriormente il complesso museale, sito all'interno delle sale dello storico Palazzo Garro in via Mazzini 67 a Rossana.
L'allestimento è permanente e la visita può proseguire in contesto montano a Borgata Grossa di Lemma (a sette chilometri da Rossana) su di un sentiero partigiano inaugurato nel giugno 2013. Qui, su diversi pannelli dislocati lungo il percorso, vi si leggono nomi e vicende che caratterizzarono quelle giornate di oltre settant’anni fa.
Riccardo Assom, fondatore dell’originale museo proprio a Lemma, ricordava che il tutto era stato fatto "per essere da insegnamento alle nuove generazioni e fare in modo che i nostri giovani crescano nel rispetto delle idee di ognuno, coltivando lo spirito di fratellanza che deve esserci tra i popoli, a garanzia dei più alti valori della democrazia riconquistata nei venti mesi di quella dura lotta che vide coinvolta, oltre ai partigiani, anche la popolazione civile".
Ma, al di là dei numeri, è cosa fa da contorno al tutto ad essere speciale. Intanto la gentilezza, la cortesia e la professionalità di Ginevra e Paolo, che sono poi alla base di quest’ora e mezza che ci riporta nell’Italia che fu. Si percepisce la loro passione, la loro voglia di raccontare cosa fu la Val Varaita in quel triennio, tra il 1943 ed il 1945. E sono proprio queste tre annate a scandire, temporalmente e fisicamente, gli spazi delle tre sale. Ti ritrovi a sentire le storie di ragazzi poco più che ventenni. Ragazzi, quindi, giovanissimi e che, pure, non ebbero dubbi sulla scelta da compiere. E i partigiani furono davvero di ogni colore politico, dai monarchici fino agli anarchici.
Nelle zone di pertinenza del Museo, tuttavia, la parte del leone la fecero i partigiani garibaldini comunisti ed i giellini. Nonostante anni, viene da pensare sin dall’infanzia, imbevuti da una dottrina unicamente di stampo fascista, decisero di combattere a favore della Libertà, affinché si potesse ritornare a leggere, a manifestare, a fare politica, in sostanza a vivere, liberamente.
Ed è bello pensare che le parole di Pietro Calamandrei (se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione) e di Antonio Gramsci (istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi perché abbiamo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra forza) vengano ora riprese da chi quella storia non vuole cancellare. Da chi comprende come l’italica tendenza all’oblio, al mettere insieme e al far equivalere ogni cosa – nella notte in cui tutte le vacche sono bige anche tutti i morti divengono uguali – non debba passare.
E allora il mio consiglio, per quanto possa contare, è di farvi questo regalo. Di quelli inaspettati quanto preziosi.
Il museo apre la prima e la terza domenica di ogni mese, dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18, oltre che su appuntamento (3332966316).
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