domenica 17 febbraio 2019

Autunno in Agropoli













 Possiamo dare inizio al racconto partendo da una piccola ondata di arresti che colpì a Torino diversi antifascisti: il 15 maggio 1935 la polizia fermò Vittorio Foa, Cesare Pavese, Franco Antonicelli, Carlo Levi, Massimo Mila, Tina Pizzardo e altri ancora. L'operazione mirava a smantellare la rete clandestina del movimento antifascista "Giustizia e Libertà". Franco Antonicelli venne preso in quanto frequentava il gruppo che aveva dato vita alla rivista La Cultura, pubblicata dall'editore Einaudi: gruppo in gran parte formato proprio da esponenti di Giustizia e Libertà. Fu condannato a tre anni di confino, poi ridotti a uno, che scontò ad Agropoli dal marzo 1935 al marzo 1936. 


Franco Antonicelli, Autunno in Agropoli, tratto da Id., Il soldato di Lambessa, ERI, 1956, pp. 11-17.
Molti anni fa, prima della seconda guerra mondiale, un'occasione mi portò nell'Italia del Sud, giù dopo Salerno, e dopo la bellissima Paestum, e dove comincia il Cilento. L'occasione fu la stessa che in quei giorni condusse i miei amici Carlo Levi e Cesare Pavese press'a poco nei medesimi luoghi, al di là della famosa terra invalicata da Cristo. In quel lontano paese, mai sentito nominare prima, ci andai dunque per obbligo; ci fui mandato quasi come in una prigione, e vi godetti invece, lo dico con gratitudine, tutta la libertà che si può godere al mondo. Arrivai con una grossa valigia e fui ricevuto dal segretario comunale e dal vecchio podestà [Saverio Granito] che mi guardarono sospirando con diffidenza: come fossi in uno Stato Straniero mi consegnarono un passaporto di color rosso. Forse Levi e Pavese lo restituirono come era prescritto; io invece riuscii a portarmelo via e lo serbo ancora per ricordo. Però i miei due amici portarono via qualcosa di meglio per sé e per gli altri, cioè i due libri che scrissero, l'uno il celebre Cristo si è fermato a Eboli e l'altro il meno noto ma bellissimo racconto Il carcereQuando lessi i due libri, io ebbi un rimescolio dentro: non era lo stesso paese, eppure riconoscevo le medesime persone, il paesaggio di selvatica bellezza, il tempo remoto e pressoché immobile della sua storia, le usanze quasi rituali, la psicologia semplice e astuta, dolce e superstiziosa, da primitivi, il senso fatalistico della vita, la pazienza e la pena, e il bisogno di generosità e di affetto e l'appassionata e inappagata aspirazione alla civiltà, e tutte quelle altre cose e apparenze che, comunque se ne parli e giudichi, fanno ancora estranei metà degli italiani all'altra metà. Bello, ho detto, il paese, sfarinato e decrepito per antichità, metà sulla spiaggia, metà in alto su una acropoli cui si accedeva per una scalinata e un arco ducale: il mare di Pesto lo circondava di silenzio vuoto e di seta celeste. Ma anche là (come nei luoghi di Levi e di Pavese) la gente mi diceva, sparlando tristemente della guerra d'Abissinia in corso: "Dotto', è questa l'Africa! Nui tenimmo 'a coda". La coda, come scimmie, bestie selvagge. Non uomini. Cristo non era giunto nemmeno là. Era infatti un paese povero anche quello, dove gli uomini guadagnavano - nel '35 - sì e no tre lire al giorno, le donne si sfiancavano a raccogliere olive per un poco d'olio in compenso e i bambini a dieci, dodici anni, ripetevano la prima elementare perché, denutriti, non afferravano nulla. La tubercolosi era un po' il male di tutti, il male di chi non ha da mangiare. Filosofi, o poeti, anche, un po' tutti; se chiedevi: "che state facendo?", uno, in ozio e affamato sul mezzogiorno, ti rispondeva: "mangio il sole". Ma non sto a ragionarci sopra di più: penso soltanto, con un rammarico che mi brucia, mi umilia ancora, di non aver ricavato nulla da quella mia esperienza, nulla, dico, di scritto, nulla da quei libretti di appunti dove raccoglievo impressioni, disegni, parole e canti. Eppure passa il tempo, molto tempo, e nella mia vita avverto quel riferimento, quel punto fermo: io mi muovo e quel punto è là. E' tutto quello che mi resta di allora. C'è dunque un nome nella mia vita, una memoria breve o lunga secondo la nostalgia del momento, un nome e una stagione che vorrei portarmi dietro fino all'ultimo giorno, e questo desidero tanto che già penso dipinta la mia tomba come quelle etrusche, con tutti i volti i segni e i titoli delle cose che vi ho godute. Questo nome è Agropoli, quel tempo è l'autunno. Tutto ciò naturalmente è falso e vero insieme e io non so che cosa resista di più preciso. 
Quando dico Agropoli vedo anzitutto quella groppa di delfino che si incurva sul mare e io la contemplo appoggiato a un tronco di fico che il vento ha fatto ormai liscio e cenerino. E vedo tutte le parti del paese, di sopra e di sotto, alla spiaggia e alla collina, e il sorecino e il salacaro, con le quattro paranze, e la Marina, e la piccola grotta di Trentove e l'arida foce del Téstene.
E quando dico autunno laggiù penso agli aquiloni di cui giorno per giorno segnavo il colore, la gara e il molle giro nell'aria. E tutto è diventato autunno, come tutto, al chiudersi della vita, l'ultimissimo giorno assumerà una forma sola, prescelta fra ogni altra con l'incarico mestissimo di dirci addio. E' diventato autunno anche l'estate che vi giunsi, l'inverno che vi trascorsi e quell'inizio di primavera che me ne andai.
L'estate, quando i ragazzini nudi si rotolano sul lido nell'odore rinsecchito delle alghe, i porci, fulminati dal sole, dormono soffiando sconciamente, e sopra, sull'alta rupe, il capo fra le nuvole ampie, passa come un patriarca il contadino col suo bastone ricurvo, "l'angino", e una donna con una cesta sul capo e la capra alla corda, sola animazione di una solitudine primitiva e di una vastità superstiziosa, e l'odore dei fichi impregnati di sole, distesi su cesti ovali e piatti come antichi scudi, ribolle dappertutto: anche questo è autunno, specialmente la sera, così precipitosa, così fuggevole, che il mare si rivoltola con un fievole respiro di vento e nella luce cerula che si alza dall'acqua si vedono le ombre degli uomini che vanno a riempire i secchi per lavare le barche, mentre dalla parte della campagna gli olivi sono in pace, le quercie annerite, la terra manda nel silenzio l'olezzo di un fiato ancora caldo e le canne sventolano al totem della luna che viene a visitare le sue offerte. 
Ma è autunno, perché la memoria è come un'anima solitaria che indugia a vivere e allora è così malinconica. E forse anche per il fatto che inaspettatamente uno di quei mattini ancora estivi e bianchissimi comincia uno strepitoso lamento e di stradina in stradina, dal promontorio alla spiaggia e ai campi squillano le zampogne, già adesso in giro per la questua del Natale. Don Antonio Caruccio, Vincenzino Tafuri, Fefele Caròla, Beppe 'u luongo, la guardia Michelangelo, Don Ignazio Volpe con i suoi grandi denti d'oro e la catenona d'oro sul panciotto da cacciatore, tutti vengono fuori: i bambini scattan via dalla scuola, il parroco della Madonna di Costantinopoli [la chiesa in cima alla rupe, poco oltre la porta ducale, salendo, guarda verso il mare; sulla sua minuscola facciata figura la scritta Ave maris stella] scende anche lui con bella grazia. E' nato lu patrone ri lo munno - gli angeli ri lu cielo festa fannoAutunno è la primavera che è precoce e stagione piena di incertezza, allora che io scopersi per la prima volta con meraviglia la pelle sbucciata di una serpe sospesa fra i biancospini, delicata come una bava, lieve come un soffio, e presagio di non so quali, tenere, misteriose, metamorfosi. Ma autunno è in particolare l'inverno, l'inverno che non conosce la sorpresa della neve (un anno che nevicò per modo di dire tutto il paese fece vacanza fin quando non scomparve, da un'alba all'altra, ogni traccia), l'inverno che si ammucchia fra le nuvole e il sole, il grecale e lo scirocco, così che nessuno se ne accorge, se non fosse che la lontana isola di Capri, tartaruga in profilo, s'attuffa più presto al tramonto. E io sono stato quel pomeriggio alla foce del Téstene a guardare le ragazze che prendono ala riva del mare l'arenile e lo rovesciano sul fianco della strada. Tutte ragazze giovanissime, bei visi in forti ombre. Prendono e vanno, avanti e indietro. - Masto Cosimo, sei sette, otto! - gridano al guardiano il numero dei loro trasporti. Mastro Cosimo ha i sassolini minuti in varie tasche e tiene il conto. Se una si ferma, si fermano tante altre: fanno beffe e vezzi al guardiano. - Cammenate! - dice lui. Passano sulla strada carri dalle alte ruote rosse, decorati di un bastone a spine ricurve, per attaccarvi tante cose. Ma già il mare è d'un celeste fosco, e lo sfiora un lume come d'alba. Allora io salgo ad Agropoli alta, perché il vento mi porta il suono di una fisarmonica e i preludi delle canzoni "cilentane". Ecco dalla scala che dà al Sorecino viene giù con una lanterna Nicola detto "u' barone"; passa l'antica porta ducale, scende la lunga rotta scalinata, si perde giù nel buio. Anche il mare s'abbuia. Il cielo nero con le stelle,le poche luci tremanti per l'aria, e laggiù nelle montagne del Cilento ingolfate nella silenziosa oscurità le scarse luci dei paesi. Dalla scala del Sorecino si vede dentro una stanza, dove al lume d'una lampada ad olio stanno riuniti alcuni uomini su panchette intorno a una tavola.  E si slarga, si profonde il suono della fisarmonica, interminabile e gradevole, che mescola i canti di Natale e le lunghe ottave cilentane. La fussi vista, la fussi veruta - int'a nu bosco la mia pastorella - sono tre mesi ca l'aggio perduta - povera bimba [nenna] mia quant'era bella. Al caffè di sotto anche ci sono altri vecchi che sanno canzoni, il "cunto" della bella Giuditta, la storia di Fioravante e Rizieri, la storia di Petrusenella: Ignazio Volpe che sa le cilentane politiche del tempo dei Borboni, e un altro che ha ottant'anni e fa il forgiaro [fabbro], e prima il suo mestiere era d'essere chiamato qua e là nei paesi a suonare il violino. Lo tiene ancora appeso sopra il letto e quando non gli viene sonno lo prende e lo suona. Mezzo cieco, e ubriaco quando può esserlo, va ancora alle feste e guida le quadriglie con i suoi curiosi comandi: "panza a panza!",  "culo a culo!", per dire "ballate di fronte e di spalla". Allora le donne di Agropoli così belle e seducenti (insinua una maliziosa cronaca secentesca che "per la mollitie dell'aere" le ragazze non eran più tali a sedici anni). coi loro forti e sbracciati contadini e pescatori irrompono impetuose nella danza al canto stridulo delle cilentane, un'ottava intrecciata con l'altra dai gruppi dei cantatori, eccitate dal gridìo, dalla frenesia delle risa, dall'incessante fremito delle chitarre, dal cupo vino che passa di bicchiere in bicchiere. E a un certo momento, a mezzanotte o più in là, attraversa la nebbia leggera un sordo suono, soffocato dalla lontananza: è la "tofa", la bùccina del trappetaro che chiama le donne al trappeto - al frantoio - per la torchiatura delle olive. Allora le donne si alzano di botto, corrono a cercare le loro asine, montano il loro carico di olive e - "iàah iàah!" - gridando alle cavalcature si perdono nel buio verso la collina.E autunno e Agropoli è ancora il mattino quando, le gambe nude nel biancore dell'alba, il ventre sporgente, la testa rigida sotto il peso delle anfore, le agropolitane traversano la piazzetta della Marina con le sue ombrelle di acacie, deserta, vanno alla fontana - oh, perché mi hanno detto che non c'è più? - cantano e rissano, e poi lente, come in sonno, salgono e scendono, e scendono e salgono - l'antica scalinata.  


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