venerdì 1 febbraio 2019

Con le spalle al muro




Francesco Bei, Se il voto diventa più vicino, La Stampa, 1 febbraio 2019

Che la recessione in cui è finita l’Italia sia colpa dei governi precedenti, come sostiene Di Maio, o sia causata da una mediocre politica economica e dalle troppe parole in libertà dell’attuale maggioranza è un dibattito interessante che rischia di essere superato. Il dato da cui partire è un altro. Fino a pochi giorni fa il capo dei Cinque Stelle affermava che l’Italia sarebbe stata addirittura alla vigilia di un nuovo boom, il presidente del Consiglio pronosticava una crescita 2019 tra l’1,2 e l’1,5 per cento, oggi il governo si sveglia da questo sogno e si trova davanti un paziente in stato comatoso.
Oxford Economics e Banca Intesa stimano una crescita 2019 «vicina allo zero», altri centri studi dicono che sarà persino peggio, con un meno 0,2%. I più ottimisti - Prometeia e Unicredit - non si spingono oltre uno stentato 0,5%. E’ chiaro che il Def appena negoziato con l’Ue è già stato travolto dalla cruda realtà, le previsioni del governo sono scritte sull’acqua. In questa situazione l’idea di una manovra correttiva che eviti una procedura d’infrazione è molto più che un’ipotesi e sembra che ieri mattina sia stato proprio questo l’oggetto di un vertice mattutino di governo tra Conte, Di Maio e Salvini.
Ma se tutto questo è vero, il destino della legislatura è già segnato.
Perché appare evidente che, in una situazione di rallentamento economico così pesante, per Salvini andare ancora avanti sarebbe una scelta suicida. Se quest’anno occorrerà una manovra bis per rientrare nei parametri negoziati insieme alla Commissione, l’anno prossimo la legge di Bilancio dovrà essere scritta partendo da un numerino terribile: 23 miliardi di aumento dell’Iva da disinnescare con tagli e/o nuove tasse. Ancora prima di ipotizzare qualsiasi altra misura. E’ chiaro che nessun governo potrebbe reggere un impatto simile. Per quanto tempo ancora Salvini riuscirà a tenere gonfi i sondaggi con il vento dell’immigrazione?
Sperare, come fanno leghisti e grillini, in una nuova Commissione europea più indulgente dopo le elezioni del 26 maggio è illusorio: per quanto buono potrà essere il risultato delle forze nazionaliste anti-europee, non sarà mai sufficiente a cambiare gli orientamenti di fondo dell’Ue. Tanto più che la gran parte degli alleati europei di Salvini sono certamente più rigoristi della democristiana Merkel.
In queste condizioni, l’unica strada possibile, ancorché piena di incognite, è quella di un voto politico anticipato che consegni al leader della Lega una robusta maggioranza relativa e gli permetta di presentarsi da Mattarella come l’aspirante presidente del Consiglio di uno schieramento nuovo. Altre soluzioni sono difficilmente praticabili. In Parlamento in queste ore si riparla a mezza bocca di un nuovo esecutivo di centrodestra, guidato da un economista d’area, che si sostenga grazie a gruppi di «responsabili» ex Pd ed ex M5S. Ma quale sarebbe la convenienza per Salvini di tenere in piedi una maggioranza raccogliticcia, con il fardello di un Paese in recessione, lasciando all’opposizione Di Maio a rifarsi la verginità perduta? Torniamo quindi allo scenario del voto anticipato. Certo, servirebbe un buon motivo. E l’unico innesco sufficientemente potente al momento è un voto dei cinque stelle favorevole al processo sul caso Diciotti. Il presidente del Consiglio Conte sembra aver capito quanto esplosiva sia quella miscela, tanto che ieri è tornato a fare scudo a Salvini con il suo corpo: «Parlare di immunità è un grande strafalcione giuridico». Un messaggio destinato anzitutto ai quei cinque stelle che pensano ancora di essere al tempo dei meet-up.


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