venerdì 22 marzo 2024

L'agonia del campo largo

 

 


 Il campo largo si sta esaurendo. Anche una improbabile vittoria in Basilicata non lo risolleverrebbe dal declino cui sembra destinato. Ancora più improbabile appare, al momento, una vittoria in Piemonte. Le europee potrebbero regalare al Pd un distacco maggiore dai 5 Stelle, senza dare per questo una svolta decisiva alla disputa sulla leadership. A molti sembra che Conte sia capace di prevalere sul piano del confronto personale. Ma questo sviluppo della vicenda, se anche si realizzasse, non renderebbe più vicina la vittoria sulla destra al governo. E allora? Il campo largo è finito in un vicolo cieco, per questo si sta esaurendo. A proposito di Conte ecco quello che ha scritto di recente, il 20 marzo 2024, Paolo Pombeni: "L’analisi di quanto è successo è praticamente unanime fra gli osservatori: ognuno dei personaggi che hanno gestito l’incredibile vicenda recitava una parte di cui era e rimane prigioniero più o meno volontario. Giuseppe Conte deve dimostrare che il partito che ha sfilato a Grillo e soci tiene nonostante tutto e dunque: non fa accordi se non imponendo le sue fumisterie; non è interessato a vincere, ma a contenere al massimo le sue perdite di consenso cosa possibile solo mantenendosi equivoco; deve risultare sempre determinante, perché solo così può sperare di essere ancora il punto di aggregazione dei progressisti (un ruolo che Zingaretti gli aveva assegnato in un momento di totale distrazione)". Conte non vuole vincere, vuole mantenere un ruolo di arbitro, prolungare la permanenza dei 5 Stelle al centro della scena politica. Quanto può durare questo gioco infame? 
Tutto inizia nel 2013 quando il Pd e i 5 Stelle finiscono testa a testa alle elezioni per la Camera: 25,43 il Pd, 25,56 i pentastellati. Se si guarda ai seggi, la vittoria va al Pd: 297 contro 109. Vittoria confermata dal risultato delle europee l'anno dopo: 40,81 per cento al Pd, 21,16 ai pentastellati. La supremazia del Pd si infrange contro il risultato del referendum sulla riforma costituzionale, il 4 dicembre 2016. Renzi si ferma al 40,88 per cento, mentre il no arriva al 59,12. Qui scatta un meccanismo per cui a determinare la vittoria  è una massa flottante di elettori che si spostano di volta in volta su un partito diverso: alle politiche del 2018 la massa flottante si riversa sui 5 Stelle che ottengono il 32,68 per cento dei voti. Il Pd scende al 18,8 per cento. I 5 Stelle si alleano con la Lega, nasce il governo Conte I. Nel maggio 2019, alle elezioni europee la Lega balza al 34,26 per cento. I 5 Stelle crollano al 17,06, il Pd sale al 22,74. Salvini, segretario della Lega, in agosto tenta di andare a nuove elezioni. Conte rimane al suo posto, forma un nuovo governo con il Pd. Nel dicembre dello stesso anno, il segretario del Pd rilascia una intervista nella quale ragiona sull'eventualità di nuove elezioni e prospetta l'idea di candidare Giuseppe Conte
alla presidenza del Consiglio. Da tempo i retroscena dei quotidiani raccontavano che Conte si stava progressivamente allontanando dal Movimento 5 Stelle e avvicinando al Pd, e alcuni passaggi dell’intervista a Zingaretti sembrano confermarlo. Giuseppe Conte diventa di colpo "un punto fortissimo di riferimento per tutte le forze progressiste". Sembra l'ennesima giravolta di un partito alla ricerca di una nuova prospettiva. Pur nel mutare delle circostanze, invece, questa offerta di un ruolo centrale al maggiore rappresentante di una forza concorrente diventa un asse strategico nella politica del Pd. Con il tempo la sostanza cambia in parte. Conte non è più il candidato del Pd alla presidenza del Consiglio, ma l'alleanza con i 5 Stelle resta un passaggio obbligato per la vittoria sulla destra che nel settembre 2022 conquista la maggioranza dei voti e dei seggi. "Uniti si perde o si vince. Separati si perde", è il nuovo mantra. Il Pd è ormai prigioniero dei 5 Stelle. Da qui l'attuale segretaria Elly Schlein deve uscire se vuole riaprire la partita. 


Annalisa Cuzzocrea, Il campo largo in agonia: la sinistra ha il piano B? La Stampa, 20 marzo 2034

Quando le cose vanno bene, come in Sardegna, è il vento che sta cambiando. Quando le cose vanno male, come in Abruzzo e – a questo punto inevitabilmente – in Basilicata, non bisogna caricare il voto locale di una valenza nazionale. Le segreterie dei partiti funzionano così: hanno sempre un alibi pronto per non doversi mettere a fare l'analisi della sconfitta. Ragionamenti sentiti fin qui tra i dirigenti del Pd che sostengono la linea Schlein: «Ma scusate, loro litigano, ricattano, si sfilano e poi quelli che sbagliano siamo noi?», dove per loro si intendono Giuseppe Conte da una parte e Carlo Calenda dall'altra. Numero indefinito di messaggi mandati da Azione negli ultimi giorni: «Schlein ci ha messo fuori, ha ceduto al veto grillino, non ci vogliono e a questo punto noi siamo liberi di andare dove ci pare». Spiegazioni sentite in casa 5 stelle: «Noi non possiamo stare con chi ci ha attaccato per anni e continua ad attaccarci, i nostri elettori non capirebbero, quindi meglio correre soli. E magari prendere qualche percentuale in più sul Pd alle Europee». Se vi sembrano le conversazioni di una chat di scuola media, avete ragione. Se vi sembra che il campo largo si sia fermato a Potenza, è molto probabile che abbiate ragione anche su questo. Perché in Basilicata si è dispiegata la forza di tutto quel che divide il centrosinistra, supposto si possa ancora chiamarlo così viste le ultime scelte di Renzi e Calenda (pronti a rafforzare la destra di governo senza chiedersi quale possa essere la logica che li conduce a farlo).
Eccole, le debolezze. La prima, candidati naturali che non vogliono esserlo, come l'ex ministro Roberto Speranza, che trova ingenerose le critiche piovutegli addosso in queste ore da una madre nobile dem come Rosy Bindi, ricorda a tutti il prezzo che ha pagato in termini di vita privata per aver condotto il Paese lungo l'incubo del Covid (minacce no vax comprese) e non capisce perché mai questo campo largo dovesse provare a salvarlo proprio lui. La seconda, la zavorra che ancora il Pd si porta dietro, e che la gestione Schlein non ha minimamente intaccato, di interessi e potentati locali spesso in conflitto tra di loro senza cui non si possono fare i conti. Soprattutto se il gioco si fa duro come quando c'è qualche possibilità di vincere e quindi di spartirsi pezzi di potere. La terza, la vanità contrapposta di Conte e Calenda, che non riescono a uscire dalla loro personale zuffa per guardare agli interessi del Paese e continuano allegramente al grido di: ha cominciato prima lui. L'ultima: la guerra feroce che è stata condotta in passato nel campo che avrebbe dovuto pensare a costruire l'alternativa alla destra nazionalista. Difficile dire a Chiara Appendino, che dal sindaco di Torino Stefano Lo Russo è stata denunciata, adesso basta, è acqua passata. In Piemonte le condizioni per un'intesa non ci sono mai state. Perché non c'è mai stata la volontà di scrivere un progetto comune.
«Continuerò a dialogare con Conte e Calenda: non smetteremo di parlare con nessuno, parleremo con tutte le forze che sono contro le destre per unirle», ha detto ancora ieri Schlein, dimostrando testardaggine e forza di volontà non comuni. Solo che anche i fatti sono testardi, e gli avvenimenti delle ultime ore dimostrano che nonostante la matematica sia ineludibile, nonostante l'unica vittoria possibile contro la destra sia unire le forze che le sono avversarie, il modo di farlo non si trova. La segretaria Pd ha accettato troppe condizioni da parte di Conte, che pure a livello di amministrative ha una forza elettorale molto minore che a livello nazionale, e non è stata in grado di produrre una proposta credibile per il centro moderato. Ma certo non è imputabile a lei il disastro cui l'opposizione rischia di andare incontro nei prossimi mesi. Perché almeno il Pd sembra avere chiara quale sia la posta in gioco, in Italia e in Europa. Gli alleati, o presunti tali, è come se tirassero un sospiro di sollievo, all'idea di potersi baloccare con le loro geometrie variabili (Azione e Iv) e con le loro sfide solitarie (i 5 stelle). Nicola Fratoianni, di Alleanza Verdi Sinistra, che la politica la conosce da un po', ha detto a questo giornale che per il campo largo serve un regista. Ma il problema potrebbe essere che ce ne sono troppi, e che ognuno è perso dentro il suo film. —

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

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