Nathalie Tocci, I media, la guerra e la democrazia, La Stampa, 21 marzo 2022
Parto con una premessa: nonostante da anni
partecipi spesso a dibattiti sui media internazionali, è la prima volta
che vengo invitata a talk show italiani. Il nostro è un Paese che ha
poco interesse per la politica internazionale. È così nell'opinione
pubblica, nei partiti e nelle istituzioni, e poco è pure lo spazio che
viene dedicato tradizionalmente a questi temi sui media nazionali.
Quante volte mi è capitato di spiegare a fatica il mio lavoro ad amici e
conoscenti, quante volte mi sono disperata venendo definita una esperta
di "geopolitica". Il disinteresse italiano per la politica
internazionale è, purtroppo, una costante della nostra storia. A
risvegliarci è stata l'invasione russa dell'Ucraina, con le sue
conseguenze umanitarie, economiche ed energetiche che toccano corde
profonde, per non parlare del terrore diffuso di una terza guerra
mondiale.
Arrivo al punto: è con
enorme tristezza, sconcerto e preoccupazione che osservo il livello del
dibattito pubblico italiano su un tema così esistenziale come il ritorno
della guerra sul continente europeo. Il confronto è senz'altro vivo.
Giornali, telegiornali e talk show si interrogano quotidianamente sulla
guerra, ospitando opinioni divergenti. Ed è giusto, anzi sacrosanto, che
in una liberal-democrazia il dibattito sia vivo e si dia spazio a idee
diverse. La realtà non è mai monolitica, è sempre un mosaico composto da
mille pezzi variegati. Così come è fondamentale che ogni cittadino
abbia e possa esprimere liberamente la propria opinione su qualunque
tema. La libertà di espressione è il cuore della democrazia: un diritto
che noi siamo fortunati di avere, che gli ucraini oggi difendono con il
sangue, e che i russi – al pari di altri popoli governati da sistemi
autoritari – non hanno. Rivendico con orgoglio il diritto di esprimermi
liberamente su qualunque tema, dai vaccini alla filosofia, fino alla
fisica quantistica. E ringrazio quando i media nazionali mi aiutano a
formare o cambiare idea su questi temi, ospitando esperti che
argomentano le proprie posizioni sulla base di studi e esperienze che io
non ho, proprio perché non sono virologa, filosofa o fisica.
Il
dibattito pubblico in Italia, perlomeno su questa guerra atroce, non
sembra tuttavia essere basato su questa logica. Tiene certamente alto il
nome della diversità di opinione, ma non di una diversità che emana da
competenze diverse tutte attinenti al tema in discussione. Ciò che posso
dire io come esperta di politica europea e internazionale è
necessariamente diverso da ciò che dice un sindaco in Ucraina, un
accademico a Mosca, un ministro degli Esteri europeo, un generale
statunitense o un funzionario a Bruxelles esperto di sanzioni o di
energia. Queste opinioni diverse emanano da competenze diverse ma tutte
rilevanti per capire il complesso mosaico che è la guerra in Ucraina.
Nei
media italiani – soprattutto televisivi –, l'impressione è che non si
cerchino competenze diverse per aiutare i cittadini-spettatori a
comporre il proprio mosaico di conoscenza, ma opinioni divergenti e
basta. A prescindere dalle (in)competenze dalle quali emanano. Perché se
è vero che per comprendere la guerra in Ucraina servono esperti d'area
(Russia e Europa orientale) e di relazioni internazionali, così come di
difesa, energia e economia – che trattano queste materie lavorando nelle
istituzioni, nell'accademia, nei media, nella società civile e nel
settore privato –, è altrettanto vero che ci sono competenze che sono
poco attinenti alla questione. In che modo le valutazioni di un teorico
della fisica, di un filologo o di un sociologo del terrorismo aiutano a
formare una posizione informata sulla guerra in Ucraina? Sono opinioni
che vengono ospitate per volontà di assicurare una completezza
dell'informazione o perché funzionali agli ascolti e alla
spettacolarizzazione?
Questa è una
guerra combattuta tanto nelle città devastate di Mariupol e Kharkiv
quanto nello spazio mediatico dell'informazione e della disinformazione.
È una guerra fatta di sangue e di narrazione, che va ben oltre i
confini dell'Ucraina e riguarda l'esistenza della democrazia, incluso
nel nostro Paese.
Non è un caso che
la Russia da anni investa nella disinformazione, e che questa abbia
fatto breccia in Italia. Sul terreno di un disinteresse tradizionale per
tutto ciò che avviene o proviene al di là dei nostri confini è stato
più semplice lavorare. La disinformazione fa perno e si insidia dove c'è
poca conoscenza, competenza e informazione, dilaga laddove è più facile
distorcere e manipolare.
Il
paradosso è quando nel nome della libertà di opinione, e quindi della
democrazia, si dà spazio alla opinione slegata dalla competenza, aprendo
– consciamente o inconsciamente – alla disinformazionee alla propaganda. E infiliggendo un colpo mortale alla democrazia stessa.
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