mercoledì 31 agosto 2016
Silvia Ronchey, Dioniso
Silvia Ronchey
Dioniso il ritorno del dio che in realtà non è mai morto
A partire da un saggio di Zolla riflessioni su un mito antichissimo che resiste ancora oggi
La nostra società si è riappropriata della divinità dell’uguaglianza in termini non più esoterici ma espliciti
la Repubblica, 31 agosto 2016
Quando il ragazzo esce all’alba dalla discoteca, stordito dalle droghe e dall’alcol, e con la luce del mattino lo assale lo stupore dell’infanzia; quando nella campagna greca il contadino, assaggiato il vino nuovo, si alza e accenna tra le viti la lenta danza in tondo; quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando fra lo squittìo delle scimmie il suono del tabla annuncia l’inizio di un rave sulla spiaggia di Goa; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità — allora, e molte altre
volte, Dioniso si manifesta. Dioniso, il dio che Ovidio chiamava Puer Aeternus, si appropria della nostra vita all’improvviso, schiacciando le leggi e le abitudini, infrangendo l’identità personale, spezzando le dualità — conscio- inconscio, persona-cosmo —, come spiega Elémire Zolla in uno dei suoi scritti più belli, Dioniso errante, ora integralmente leggibile nel sesto volume dell’opera omnia, curata con abnegazione e sapienza da Grazia Marchianò (Marsilio, pagg. 622, 24 euro).
Il dio dell’ebbrezza, del confondersi dell’anima, come scandisce il coro delle Baccanti di Euripide, il dio divorato, smembrato come i grappoli della vite, il dio plurale e “produttore di tutte le pluralità”, come lo definì Proclo nel commento al Timeo di Platone, il dio dai molti nomi (tra i più noti Bacco, ma anche Iacco, “ululante” nei misteri eleusini, Libero, “liberatore”, senza contare le ipòstasi stellari che lo innalzano al massimo fulgore nella giostra del cielo eternando le sue storie mitiche nel ritorno degli astri), il dio della maschera e del fallo, dai volti maschili e femminili oltreché umani e ferini (infante, uomo barbuto, dama velata, capro, asino, pantera ), fu, come racconta Nonno di Panopoli, un mescolatore di popoli, un liberatore di oppressi ma soprattutto un affrancatore delle donne: dalle contadine che per accorrere al richiamo del ditirambo abbandonavano la segregazione domestica alle matrone degli affreschi dionisiaci della Villa dei Misteri a Pompei.
In questa emergenza matriarcale “più civile di quella delle Amazzoni”, come illustrò Bachofen, Dioniso fece della donna la guida del tìaso e la depositaria dei suoi più profondi stati estatici. Le mènadi, a imitazione del movimento vorticoso impresso al tirso, roteavano il capo come dervisci, tenendolo inclinato di fianco come avrebbero fatto nelle loro estasi le mistiche cristiane, da Caterina a Teresa. Dai soldati della spedizione di Alessandro in India Dioniso fu assimilato, non a torto, a Shiva, «dio dell’hashish, dell’impeto del toro e del fallo, del fremito che scuote chi è solo nella foresta di notte ». E infatti Novalis lo invoca nell’Inno alla notte: «Dal fascio di papaveri / in dolce ebbrezza / fai crescere le pesanti ali del cuore ». Ma era insediato in Grecia fin dall’età minoica, e anche se verso l’India il suo carro trainato da tigri portò Arianna dall’isola di Nasso dov’era stata abbandonata da Teseo (o forse lo aveva abbandonato lei stessa, rapita in un sonno che già preludeva al ratto dionisiaco), a Creta, patria del labirinto, i riti, descritti in seguito da Filone di Alessandria, portavano gli adepti «a uscire da sé e scorgere l’oggetto del desiderio ». Il grande dio Pan è morto, annunciava Plutarco quando il politeismo dovette cedere il passo al monoteismo dell’eresia giudaica che presto avrebbe dominato il mondo conosciuto. Ma non accadde lo stesso, non proprio, a Dioniso. Il nuovo dio dei cristiani aveva e via via avrebbe assunto tratti del “dio comune”, come lo aveva chiamato Hölderlin. Al termine della polimorfa vicenda mitologica che lo avvince, Dioniso scese nell’Ade e ne tornò, «con la morte sconfiggendo la morte», come recita l’inno pasquale dell’ortodossia, «sfilando alla morte il suo pungiglione», come scrisse san Paolo: la resurrezione è “il contrassegno di Dioniso”, che non solo la compì (tre volte), ma salì in cielo e sedette alla destra del Padre (Zeus). Fi umi di scrittura sono stati dedicati al dionisismo cristiano, dagli antichi padri della chiesa ai moderni storici delle religioni, provocati da Schelling, che esplicitamente assimilerà Dioniso a Cristo.
Se Gesù è in Giovanni 15, 1-2 “la vera vite” e gli apostoli devono attaccarglisi come i grappoli al tralcio, se il miracolo di Cana è un tipico prodigio dionisiaco (il più noto precedente in Pausania), il sacrificio dell’uomo-vite nell’eucarestia ricalca la tradizione della mitografia dionisiaca (dove il vino è già chiamato “il dolce sangue” e il potere di trasmutare in pane e in vino è già concesso da Dioniso, stando alle Metamorfosi di Ovidio, alle sue fedeli). Se il calendario cristiano si appropriò di date sacre anche a Dioniso, come il 6 gennaio, la Pentecoste ha, sottolinea Zolla, caratteri di festa dionisiaca.
Come scrisse Gregorio di Nazianzo, uno dei massimi teologi bizantini: «Ecco, Gesù nuovamente è qui e insieme a lui è qui un mistero. Ma non è più un mistero dell’ebbrezza, bensì un mistero che proviene dall’alto». Forse per questo fu attribuito a lui uno dei più plateali prodotti del sincretismo bizantino, il Christus patiens, di età più probabilmente posticonoclasta, dove l’uccisione di Gesù è accostata a quella di Penteo da parte delle baccanti. Seguendo le suggestioni di studiosi neogreci, Zolla congettura, forse giocosamente, la persistenza a Bisanzio, e ancora durante la turcocrazia, di tìasi o confraternite segrete dionisiache, contigue a eresie dualiste cristiane i cui adepti portavano tatuata in fronte l’antica foglia di edera.
Al di là delle sopravvivenze, la sostanza della percezione cristiana era antitetica a quella dionisiaca.
Con la sua visione antropocentrica e la sua stretta ragion pratica, come avrebbe compreso Nietzsche, il cristianesimo negò il dionisismo, il suo «sprofondamento nella vita animale e vegetale per non dire nella sostanza minerale, la libertà con tutti i suoi rischi». L’escatologia cristiana soppresse il tempo ciclico, sospese l’«abrogazione dionisiaca della coscienza storica», per introdurre a una promessa di giudizio finale e progresso lineare, a una liberazione oltre la vita.
Il grande dio Pan era morto, ma Dioniso, clandestino e represso dalla morale cristiana, fu reimportato dai neoplatonici di Bisanzio e risorse nel Rinascimento anzitutto fiorentino, alla prima corte dei Medici, quando — come intuito da Pound — i bizantini dettavano e Ficino descriveva con precisione «l’estasi e l’abbandono di menti sgombre, che miracolosamente trasformate superano i limiti dell’intelligenza e si inebriano di un’incommensurabile gioia».
Inoculato nel Quattrocento platonico, Dioniso filtrò nella cultura visiva europea, abitò nel nuovo genere pittorico dei baccanali (Bellini e Correggio, Caravaggio e Tiziano), nel più esoterico mistero che pervase i quadri di Leonardo; riemerse nella letteratura dei romantici tedeschi e dei dionisiaci inglesi e francesi (Coleridge e De Quincey oltre a Baudelaire), da cui saranno influenzati, fra gli altri, gli studi di Bachofen, Rohde, Frazer, Otto, Kerenyi. È Dioniso che nel Novecento ha ispirato la rivoluzione psichedelica, forse quella sessuale, certo la liberazione delle donne, Arianne rapite via dai vincoli borghesi sul suo carro guidato da tigri. La corona della razionalità, gettata in alto, si è impressa come il diadema di Arianna nel cielo notturno della psiche quando l’Es, con la psicoanalisi, ha riconquistato il suo dominio. Dioniso ci ha riconvocato in India, ci ha riproposto la consapevolezza dell’impermanenza, ci ha reinsegnato il mondo animale e la natura vegetale.
Non è solo il carattere orgiastico che nel dissolversi delle religioni esclusive e del folklore tradizionale hanno assunto la sessualità o i riti della vita associata. Non è solo il ritmo del reggae, lo spirito della musica come lo chiamava Nietzsche, che fa da colonna sonora alla tragedia del massacro globale, nel riacutizzarsi della ferocia delle guerre del mondo. È che la nostra società, nella ruota dell’eterno ritorno, si è riappropriata del dio dell’uguaglianza universale in termini non più esoterici ma espliciti e di massa. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.
martedì 30 agosto 2016
lunedì 8 agosto 2016
Marcinelle dietro le quinte
Toni
Ricciardi
MARCINELLE
1956
Quando
la vita valeva meno del carbone
pp.
164, 24,00 €
Donzelli
editore, Roma 2016
Marcinelle
è adesso un sobborgo di Charleroi. Una volta era un comune autonomo
e lo era ancora al tempo della catastrofe mineraria: 262 morti, 136
italiani, 95 belgi e 31 appartenenti a 11 altre nazionalità. La
catastrofe si delineò l'8 agosto 1956 e solo quindici giorni dopo
si ebbe la certezza che gli uomini rimasti intrappolati nella miniera
erano tutti morti. Nel 2001 la Repubblica italiana istituì la
Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo e ne
fissò la ricorrenza all'8 agosto, il giorno di Marcinelle appunto.
Le
miniere erano già condannate al declino quando il governo belga
lanciò nel febbraio 1945 la battaglia del carbone. Non attiravano
più la manodopera locale. Da qui la firma nel giugno 1946 di un
accordo con l'Italia: si offriva una fornitura regolare di carbone a
pagamento in cambio di lavoratori da collocare nelle miniere belghe.
Partirono in 250mila tra il 1948 e il 1956, 80mila tornarono
indietro, e il carbone promesso non fu sempre consegnato.
La
vicenda ha aspetti epici e tragici insieme, ampiamente messi in luce
dalla ormai vasta letteratura sull'argomento. L'autore qui sembra
preferire una visione tragica, cupa, l'unico esito positivo è dato
dalla rivalutazione postuma del sacrificio. Il libro contiene un
lungo atto d'accusa contro la politica delle classi dirigenti
italiane. Si parte da lontano, dall'imperialismo del tardo Ottocento
per arrivare al patto del 1937 con la Germania nazista sullo scambio
tra uomini e carbone. Il ministro Carlo Sforza promuovendo nel 1946
l'accordo italo belga di fatto si adegua a un modello già fissato
dal regime. Del resto il fascismo non aveva avuto una politica
migratoria diversa da quella dello Stato liberale. Il libro sfrutta i
materiali offerti dagli archivi italiani diventati accessibili
cinquant'anni dopo il periodo della grande migrazione verso il
Belgio. Nella narrazione il linguaggio spesso burocratico delle carte
si intreccia con estratti dalla memorialistica. Un capitolo scritto
da Annacarla Valeriano è dedicato alla stampa dell'epoca e ai
ricordi dei protagonisti. Strano a dirsi nel libro la catastrofe vera
e propria occupa poco spazio. Non c'è un resoconto esatto degli
avvenimenti, né una chiara individuazione di responsabilità. Si
insiste sull'errore umano di singoli addetti, mentre non si chiarisce
bene il ruolo svolto dalle gravi carenze nei dispositivi di
sicurezza. Alla fine i soli responsabili sembrano essere i politici
italiani che hanno consegnato allo straniero la vita e il destino di
tanti loro concittadini. Tutto per qualche sacco di carbone. Un'altra
lettura è ugualmente possibile e trova un certo spazio qua e là
lungo le pagine. A Marcinelle è morta la speranza di una
emancipazione attraverso un passaggio temporaneo all'inferno. Gli
operai immigrati cercavano una vita migliore per le loro famiglie e per i
loro figli. La miniera non era certo il loro orizzonte anche se
rischiava di diventarlo. La suggestione non è la storia, ma di essa
la storia si nutre. Un'altra Marcinelle segreta viene allora alla
luce. Non quella nascosta tra le carte degli archivi. Quella che ha
riempito la testa e il cuore dei sopravvissuti nei decenni a venire.
Prendete Maria Di Stefano, per esempio: il marito morto le è rimasto
accanto, le è apparso più volte in sogno e le ha parlato. (Giovanni
Carpinelli)
di
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