Khaled Fouad Allam
La legge del Corano non impone il velo
la Repubblica, 22 gennaio 2004
Storicamente, lo hijab non ha mai rappresentato un dogma nell'islam, un'obbligazione giuridica o un simbolo religioso, anche se oggi lo si vuol far passare come tale.
I giuristi dell'islam classico - quelli all'origine della formulazione del diritto musulmano per le quattro grandi scuole giuridiche dell'islam - non hanno mai teorizzato sul velo. Il celebre giurista Qayrawin, morto nel 996, fondatore dell'università teologica di Fez in Marocco, parla del velo soltanto in riferimento alla preghiera rituale, quando le donne si recano in moschea per la preghiera del venerdì: e la parola che usa è khimar, un velo che copre la donna dalla testa ai piedi. Egli non usa mai la parola hijab; lo stesso avviene per gli altri autori di quel periodo.
Tutto ciò ha una ragione. Nel periodo dell'islam classico i giuristi non avvertono il bisogno di costruire sul velo una teoria del diritto, semplicemente perché l'universo medievale della donna è un universo di clausura: essa non esce di casa, la sua vita si svolge entro il perimetro dello spazio privato, e quando, molto raramente, esce, lo deve fare con l'autorizzazione di una figura maschile - il padre, il marito o i fratelli - e per motivi eccezionali come cerimonie o pellegrinaggi.
Lo hijab è un'invenzione del XIV secolo e non ha un effettivo fondamento nel testo coranico. Nel Corano la parola hijab, che deriva dalla radice hjb, non indica un oggetto ma un'azione: quella di velarsi, di tirare una tenda, di creare un'opacità che impedisca lo sguardo indiscreto.
Il passaggio della parola hijab dall´indicare un'azione all´indicare un oggetto avviene nel XIV secolo con il giurista Ibn Taymiyya. Egli è il primo ad utilizzare la parola hijab per riferirsi al velo in quanto oggetto, un velo che distingue le donne musulmane dalle non musulmane: esso diventa segno distintivo dell'identità e dell'appartenenza.
Ibn Taymiyya afferma che la donna libera ha l'obbligo di velarsi, mentre la schiava non è obbligata a farlo. Egli giustifica queste affermazioni basandosi su una interpretazione massimalista del versetto 31 della sura 24 del Corano, traendo da una frase dal contenuto generico un'affermazione di principio, cui inoltre attribuisce valore normativo. Ma tutto ciò, è bene sottolinearlo, rimane un'interpretazione. Un'interpretazione che inventa una norma.
Questo mutamento linguistico e sociale rappresenta il sintomo di una crisi in seno al mondo musulmano del XIV secolo: la fine dei grand i imperi dell'islam e l'invasione di Baghdad ad opera di un popolo ad esso estraneo, i mongoli di Gengis Khan. La umma, la comunità dei credenti, deve quindi confrontarsi e scontrarsi con ciò che ora chiamiamo un principio d'alterità; essa si pone il problema - che si ripropone oggi - di come essere musulmani in una società dominata da non musulmani. Il velo manifesta la reazione difensiva di una comunità, che enfatizza le regole giuridiche non per creare spazi di libertà, bensì per istituire un controllo: un controllo dell'islam su se stesso.
Non è quindi un caso che la figura di Ibn Taymiyya (morto nel 1328) rappresenti uno dei punti di riferimento dell'odierno discorso neofondamentalista.
Ma il decisivo mutamento semantico e giuridico nella questione dello hijab avviene nel XX secolo, soprattutto nella seconda metà. Nei paesi musulmani, dopo la fase di decolonizzazione, i processi di modernizzazione mettono in crisi le strutture tradizionali delle società. Appaiono due fenomeni inediti: con l'alfabetizzazione di massa, le donne accedono alla scuola; e accedono al mondo del lavoro, escono di casa, il loro universo di riferimento diventa anche il mondo esterno.
Di fronte a una tale trasformazione sociale, molti esegeti dell'islam reagiscono in modo neoconservatore, inventando un apparato giuridico che legittima e prescrive l'uso dello hijab. Il velo diventa così segno distintivo dell'identità islamica e della separazione fra i sessi. L'introduzione del velo nello spazio pubblico favorisce infatti la costruzione di una frontiera di genere che oggi non si limita al velo ma investe in alcuni paesi anche una divisione negli spazi e nei trasporti pubblici (alcuni architetti di tendenza neofondamentalista hanno immaginato persino ascensori separati per uomini e donne); lo spazio pubblico, anziché sancire un principio di uguaglianza, enfatizza quindi la discriminazione fra i sessi.
Tutti questi mutamenti nell'uso e nella pratica del velo si innestano però su quella che è una costante nella prassi delle società musulmane: la dicotomia fra puro e impuro, e il divieto come fondamento della norma nell'islam.
Il frequente sottolineare, nei testi sacri, che la donna non deve fare nulla per guardare e per farsi guardare, che deve nascondere le sue forme, ha fatto sì che nell'inconscio collettivo musulmano la femminilità sia associata al desiderio, in modo che il sesso femminile diviene sinonimo di caos, di disordine; su di esso incombe sempre il rischio dell'impurità. A ragione del suo ruolo riproduttivo la donna è investita di un certo carattere sacrale: perciò trasgredire il divieto - vale a dire mostrarsi - significa contaminare la purezza originaria.
Questo tabù definisce una società puritana e articola un sistema giuridico di controllo. Le società musulmane sono ossessionate dalla questione dell'impurità; e il velo tende simbolicamente a preservare le frontiere fra puro e impuro.
Il velo assume oggi il significato di un'identità in crisi: oltre a esprimere un malessere generalizzato nelle società islamiche, esso occulta il loro cambiamento e ne esacerba le paure. Chi lo indossa, soprattutto in occidente, lo fa per coercizione, per condizionamento, per rivendicazione o per libera scelta. Le letture possibili sono molte, ma tutte rimandano a una serie di conflitti irrisolti: il conflitto fra islam e occidente, il conflitto dell'islam con se stesso, il conflitto fra diritto e cultura.
https://palomarblog.wordpress.com/2015/08/18/arundhati-roy-sul-burqa/
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