giovedì 17 ottobre 2024

Vermeer senza tempo



 "Il più bel quadro del mondo" secondo Proust, che ne parla nella Recherche: come è noto, Bergotte muore pensando a "quel piccolo lembo di muro giallo", che si scorge sulla destra nella riproduzione, accanto alla casa dal tetto triangolare. Il dipinto si trova esposto all'Aja ed è così descritto nel sito del museo Mauritshuis:

Questo è il paesaggio urbano più famoso del XVII secolo olandese. Il gioco di luci e ombre, l'impressionante cielo nuvoloso e i sottili riflessi nell'acqua rendono questo dipinto un capolavoro assoluto.
Stiamo 
guardando Delft da sud. Non c'è quasi un soffio di vento e la città ha un'aria tranquilla. Vermeer riflette questa tranquillità nella sua composizione, realizzando tre strisce orizzontali: acqua, città e cielo. Ha anche dipinto gli edifici un po' più ordinati di quanto non fossero in realtà. 

https://machiave.blogspot.com/2013/02/proust-quel-piccolo-lembo-di-muro-giallo.html

Voltaire se la prende con i creduloni

  


LO SPIRITO FALSO

Abbiamo ciechi, orbi, strabici, guerci, torvi, presbiti, miopi, o distinti, o confusi, o deboli, o instancabili. Tutto questo è un'immagine abbastanza fedele del nostro intendimento. Ma difficilmente sperimentiamo una percezione falsa. Non c'è quasi nessuno che prenda sempre un gallo per un cavallo, né un vaso da notte per una casa. Perché spesso incontriamo menti che sono abbastanza giuste, ma che hanno assolutamente torto su cose importanti? Perché questo stesso siamese che non si lascerà mai ingannare quando si tratta di rimettergli tre rupie, crede fermamente nelle metamorfosi di Sammonocodom? Per quale strano capriccio gli uomini sensati assomigliano a Don Chisciotte, il quale credeva di vedere giganti dove gli altri uomini vedevano solo mulini a vento? Se non altro, Don Chisciotte appare più scusabile del siamese il quale crede che Sammonocodom sia venuto sulla terra più volte, e del turco che è convinto che Maometto gli abbia messo la metà della luna nella manica. Infatti Don Chisciotte, infervorato dall'idea di dover combattere contro i giganti, può immaginare che un gigante debba avere un corpo grosso come un mulino a vento, e braccia lunghe quanto le ali del mulino a vento: ma da quale supposizione può prendere le mosse  un uomo sensato per lui convincersi che la metà della luna è entrata in una manica, e che un Sammonocodom è sceso dal cielo per venire a giocare con gli aquiloni in Siam, abbattere una foresta ed eseguire giochi di prestigio?

I più grandi geni possono avere una falsa idea di un principio da essi recepito senza esame. Newton mostrava di avere una mentalità assai falsa quando commentava l'Apocalisse.  

Tutto ciò che alcuni tiranni delle anime desiderano è che gli uomini che essi istruiscono abbiano uno spirito falso. Un fachiro alleva un bambino che promette molto; impiega cinque o sei anni a ficcargli in testa che il dio Fo apparve agli uomini come elefante bianco, e persuade il bambino che sarà frustato dopo la sua morte per cinquecentomila anni, se non crede a queste metamorfosi. Aggiunge che alla fine del mondo il nemico del dio Fo verrà a combattere contro questa divinità.

Il bambino studia e diventa un prodigio; argomenta sulle lezioni del suo maestro, trova che Fo ha potuto solo trasformarsi in elefante bianco, perché questo è l'animale più bello. I re di Siam e del Pegu, dice, si sono fatti la guerra per un elefante bianco; certamente se Fo non fosse stato nascosto in quell'elefante, quei re non sarebbero stati così insensati da combattere per il possesso di un semplice animale.

Il nemico di Fo verrà a sfidarlo alla fine del mondo; sicuramente questo nemico sarà un rinoceronte, perché il rinoceronte combatte l'elefante. Così ragiona in età matura l'allievo sapiente del fachiro, e diventa una delle luci dell'India; più ha la mente sottile, più ce l'ha falsa, e forma poi spiriti falsi come lui.

Mostriamo a tutti questi energumeni un po' di logica, e la assorbono abbastanza facilmente; ma, cosa strana! La loro mente non è risanata per questo; essi vedono le verità della logica, ma essa non insegna loro a pesare le probabilità; hanno preso la loro piega, ragioneranno storto tutta la vita e ne sono arrabbiato per loro.

ESPRIT FAUX.



Nous avons des aveugles, des borgnes, des bigles, des louches, des vuës longues, des vuës courtes, ou distinctes, ou confuses, ou faibles, ou infatigables. Tout cela est une image assez fidelle de notre entendement. Mais on ne connaît guère de vuë fausse. Il n’y a guère d’hommes qui prenne toûjours un coq pour un cheval, ni un pot de chambre pour une maison. Pourquoi rencontre-t-on souvent des esprits assez justes d’ailleurs, qui sont absolument faux sur des choses importantes ? Pourquoi ce même Siamois qui ne se laissera jamais tromper quand il sera question de lui compter trois roupies, croit-il fermement aux métamorphoses de Sammonocodom ? Par quelle étrange bizarrerie des hommes sensés ressemblent-ils à Don Quichote, qui croyait voir des géants où les autres hommes ne voyaient que des moulins à vent ? Encore Don Quichote était plus excusable que le Siamois qui croit que Sammonocodom est venu plusieurs fois sur la terre, & que le Turc qui est persuadé que Mahomet a mis la moitié de la lune dans sa manche. Car Don Quichote frappé de l’idée qu’il doit combattre des géants, peut se figurer qu’un géant doit avoir le corps aussi gros qu’un moulin, & les bras aussi longs que les ailes du moulin : mais de quelle supposition peut partir un homme sensé pour se persuader que la moitié de la lune est entrée dans une manche, & qu’un Sammonocodom est descendu du ciel pour venir jouer au cerf-volant à Siam, couper une forêt, & faire des tours de passe-passe ?

Les plus grands génies peuvent avoir l’esprit faux sur un principe qu’ils ont reçu sans examen. Newton avait l’esprit très faux quand il commentait l’Apocalypse.

Tout ce que certains tyrans des ames désirent, c’est que les hommes qu’ils enseignent, aient l’esprit faux. Un faquir élève un enfant qui promet beaucoup ; il emploie cinq ou six années à lui enfoncer dans la tête que le dieu Fo apparut aux hommes en éléphant blanc, & il persuade l’enfant qu’il sera fouetté après sa mort pendant cinq cent mille années, s’il ne croit pas ces métamorphoses. Il ajoute qu’à la fin du monde l’ennemi du dieu Fo viendra combattre contre cette divinité.

L’enfant étudie & devient un prodige ; il argumente sur les leçons de son maître, il trouve que Fo n’a pû se changer qu’en éléphant blanc, parce que c’est le plus beau des animaux. Les rois de Siam & du Pégu, dit-il, se sont fait la guerre pour un éléphant blanc ; certainement si Fo n’avait pas été caché dans cet éléphant, ces rois n’auraient pas été si insensés que de combattre pour la possession d’un simple animal.

L’ennemi de Fo viendra le défier à la fin du monde ; certainement cet ennemi sera un rinocerot, car le rinocerot combat l’éléphant. C’est ainsi que raisonne dans un âge mûr l’élève savant du faquir, & il devient une des lumières des Indes ; plus il a l’esprit subtil, plus il l’a faux, & il forme ensuite des esprits faux comme lui.

On montre à tous ces énergumènes un peu de géométrie, & ils l’apprennent assez facilement ; mais, chose étrange ! Leur esprit n’est pas redressé pour cela ; ils aperçoivent les vérités de la géométrie, mais elle ne leur apprend point à peser les probabilités ; ils ont pris leur pli, ils raisonneront de travers toute leur vie, & j’en suis fâché pour eux.

mercoledì 16 ottobre 2024

Berthe Morisot, la magia della luce e del colore

 


Nell’anno internazionalmente dedicato all’Impressionismo, dal 16 ottobre 2024 al 9 marzo 2025, la GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino presenta la mostra “Berthe Morisot. Pittrice impressionista”, che celebra la storia e il percorso artistico dell’unica donna tra i fondatori del movimento impressionista.

L’esposizione è organizzata e promossa da Fondazione Torino MuseiGAM Torino e 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, a cura di Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin, con il sostegno eccezionale del Musée Marmottan Monet di Parigi, istituzione che vanta la più grande raccolta di opere di Berthe Morisot da cui provengono importanti dipinti.

La mostra illustra il legame della pittrice con la poetica del movimento impressionista e fa emergere il suo personalissimo timbro nel cogliere la labilità dell’attimo, a simbolo della fragilità dell’esistenza, capace di rappresentare con grazia gli elementi della natura e della realtà.




Valentina Muzi 

Stanchi di sottostare alle rigide regole dell’Accademia, un gruppo di giovani artisti realizzò una mostra nel laboratorio fotografico di Nadar  a Parigi, il 15 aprile del 1874. I dipinti di Claude Monet, Pierre-Auguste Renoir, Edgar Degas, Camille Pissarro, Alfred Sisley e Paul Cézanne – insieme ai lavori di altri 24 artisti rifiutati dal Salon ufficiale – fecero scalpore presso la critica parigina, incapace di leggerne lo stile innovativo di quello che sarà conosciuto a livello internazionale come Impressionismo. Tra questi dissidenti c’era anche Berthe Morisot (Bourges, 1841 – Parigi, 1895), l’unica pittrice donna tra i fondatori del movimento. Grande interprete della nouvelle peinture, Morisot ha rivestito un ruolo importante nell’affermazione del nuovo stile, partecipando a sette delle otto mostre che si sono tenute tra il 1874 e il 1886 (mancando nel 1879 per la nascita della figlia). Sebbene fosse la moglie di Eugène Manet – fratello di Édouard –, Berthe ha condotto autonomamente la sua carriera di pittrice, affermandosi con il suo tratto delicato e i suoi colori luminosi. Ora, nell’anno in cui ricorrono i 150 anni dalla nascita dell’Impressionismo,  Torino e Genova la omaggiano con due grandi mostre autunnali, rispettivamente alla GAM – Galleria d’Arte Moderna e al Palazzo Ducale.

Cioran, amaro maestro



Uno può vivere benissimo senza aver mai sentito parlare di questo saggista che nelle sue opere si interroga in modo ossessivo sul valore dell'esistenza umana e sulla morte. Emil Cioran è un cinico che senza fine esibisce il suo disincanto e la sua amarezza (Sillogismi dell'amarezza è il titolo di una sua opera). Il sociologo Durkheim riflettendo sul suicidio era giunto alla conclusione che per la stragrande maggioranza degli esseri umani la vita doveva apparire come una buona cosa, dato che solo una sparuta minoranza sceglieva di uccidersi. Cioran sembra escludere l'idea del suicidio, ma non cessa di rappresentare a tinte fosche l'esistenza. Per questo leggere un suo testo significa andare incontro a una prova cruciale. O si entra nella logica della sua argomentazione anche solo per una forma sperimentale di compiacimento nella sventura, o si rimane freddi, trovando preferibile mantenere una ferma adesione alla vita, senza macerazioni o paturnie. 

Vincenzo Fiore, Centodieci anni dopo. Breve ritratto di Emil Cioran,
Scenari, 8 aprile 2021

Je sens que je suis libre mais je sais que je ne le suis pas.

Agli inizi del Novecento il piccolo villaggio di Rășinari, parte della regione storica della Transilvania, è uno dei luoghi più arretrati e remoti dell’Impero Austro-Ungarico. A sorvegliare sulle avversità del paese ci sono i Carpazi che «come un paesaggio sprezzante, si ergono al di sopra del tormento che si stende ai loro piedi». Dal 1906 il pope del paese è Emilian Cioran, cognome che rimanda alla transumanza dei pastori transilvani i quali chiamavano le loro pecore nere oi ciorane. Attivo non solo dal punto di vista culturale, Emilian si batte per portare l’elettricità in quell’angolo buio dell’Impero e sposa Elvira Comanici, ragazza che proviene da una delle famiglie più in vista della zona per aver concepito generazioni di preti ortodossi e per essere in possesso di un diploma di nobiltà dal 1628. Il 23 dicembre 1908, i due coniugi danno alla luce la loro primogenita Virginia, il 25 maggio 1914 nascerà invece il loro terzo e ultimo figlio Aurel, in mezzo, esattamente centodieci anni fa, l’8 aprile 1911 veniva alla luce il dissacratore che ha attentato a ogni fede: Emil Cioran.

Il primo episodio fondamentale della sua vita risale a quando egli aveva soltanto cinque anni e si trovava nella località di Drăgășani. In un pomeriggio dell’estate del 1916, il piccolo Emil ebbe una crisi di noia che definirà come il risveglio della propria coscienza: «D’un tratto ho sentito la presenza del nulla nel mio sangue, nelle mie ossa, nel mio respiro, e in tutto ciò che mi circondava». Nello stesso anno, nel pieno svolgimento della Grande guerra, il 20 settembre il padre Emilian viene arrestato dalle autorità ungheresi, insieme a tanti intellettuali, con l’accusa di separatismo. Mesi dopo sarà arrestata anche la madre e trasferita nel carcere di Cluj-Napoca. Emil sarà affidato alla nonna materna e inizierà a frequentare la scuola nel suo villaggio natale. Soltanto nel 1918 e con la successiva ratifica del trattato del Trianon del 1920 quel territorio sarà annesso ufficialmente al Regno di Romania. Nonostante questa fanciullezza travagliata, Cioran dirà di questo periodo: «Un’infanzia meravigliosa. Credo di essere diventato infelice nella mia vita come punizione per essere stato così straordinariamente felice da bambino. Sto parlando della prima infanzia, fino all’età di sette-otto anni, non di più, dopo di che la mia vita è stata una catastrofe». E del successivo allontanamento da casa per frequentare l’Istituto “Gheorghe Lazăr” di Sibiu nel 1921 egli  parlerà come di una «caduta dal paradiso».

A sedici anni Cioran vive un episodio apparentemente banale, ma che risulterà determinate per la sua concezione dell’amore e del suo rapporto con le donne. Passeggiando in una foresta nei dintorni di Sibiu gli capitò di vedere Cela Schian, ragazza di cui era segretamente innamorato da più di due anni, alla quale, tuttavia, non aveva mai osato rivolgere la parola, in compagnia di un ragazzo soprannominato “il pidocchio”. Di quello che definirà un vero e proprio tradimento, egli scriverà: «Quell’istante ha deciso della mia carriera, di tutto il mio futuro. Ne derivarono anni di completa solitudine. E io divenni quello che dovevo diventare».

Cioran si iscrive all’Università di Bucarest, dove avrà fra i docenti Nae Ionescu, personaggio carismatico appartenente ad un movimento mistico-filosofico vitalista detto trăirism. Il professore di Logica e di Metafisica avrà un’importante influenza sulla generazione Criterion [raggruppamento culturale rumeno attivo tra il 1932 e il 1934], su personaggi del calibro di Mircea Eliade, Constantin Noica e Petru Comarnescu. Dopo un’iniziale fascinazione, Cioran descriverà Nae Ionescu come «scarsamente preparato a riconoscere alcune disposizioni filosofiche incontestabili e che da sole giustificano lo studio della filosofia». Deluso dall’Università, che non «offre un’esistenza migliore rispetto a quella di un mendicante di strada», Cioran porterà comunque a termine gli studi con una tesi su Bergson. Nel luglio del 1933 Cioran va alla ricerca della solitudine disperatamente desiderata nella zona montuosa di Păltiniş-Şanta, dove si ritirerà per scrivere il suo primo libro, quasi come un nuovo Zarathustra, «in direzione di vette affini alle alture dei miei stati emotivi», così come scriverà in una lettera ad Arșavir Acterian. Il 4 gennaio 1934 il manoscritto Al culmine della disperazione si aggiudica il premio della fondazione letteraria che porta il nome di re Carlo II, quest’ultima si occuperà di pubblicare il libro, che diventerà il suo esordio letterario. [...] 

Intanto, da giovane neo-laureato, si era aggiudicato la prestigiosa borsa della fondazione von Humboldt, a Berlino, dove seguirà il corso di metafisica di Hartmann. Alloggia in una pensione nei pressi dell’ospedale universitario Charité, dove si intrufolerà nei corsi di psichiatria, e nei quali passerà il tempo ad interrogare i pazienti. Cioran si trova in Germania in concomitanza con l’ascesa di Hitler al potere, il filosofo disgustato dalla situazione politica del suo paese natale, si lascia accecare dal carisma del Führer e sogna una vera e propria trasfigurazione della Romania, aderendo, ma senza farne mai parte, al movimento legionario Guardia di ferro guidato da Corneliu Zelea Codreanu. Da lettore di Spengler, si rammarica del fatto che la Romania non si sia svegliata attraverso l’evoluzione organica e preconizza una rivoluzione cosciente, unica possibilità per uscire dalla perenne diseguaglianza e attuare la «sincronizzazione» con i paesi maggiormente sviluppati. Nella  Trasfigurazione della Romania (1936) egli ipotizza l’abbattimento violento del capitalismo e l’attuazione di quello che chiama «collettivismo nazionale». Il sogno è quello di vedere una Romania imperialistica e aggressiva, trasformata in una nuova Costantinopoli dei Balcani, un impero romeno che politicamente si collocherebbe oltre il comunismo e il nazismo.

In questi anni di estasi febbrile, Cioran fa esperienza di una vera e propria «crisi religiosa senza fede» e trascorre più di un intero anno ad ascoltare musica e leggere quasi esclusivamente agiografie e opere di sante, fatta eccezione di Shakespeare. Il filosofo confessa di essere arrivato a un punto limite e di non aver altro interlocutore che Dio. Nel 1937 viene dato alle stampe Lacrime e santi, opera che farà scandalo e troverà la stroncatura di Eliade. Sua madre gli scrive che non avrebbe dovuto pubblicare quel libro, almeno non prima della sua morte, ma Cioran risponde che quello era «l’unico libro veramente religioso mai pubblicato nei Balcani». Ventitré anni dopo, nei Quaderni, egli appunterà: «Ho scritto un interno libro sulle lacrime. E da allora, senza versarne una sola, non ho mai smesso di piangere».

Il 1941 è l’anno della «svolta», mentre è a Parigi per redigere una tesi di dottorato che non concluderà mai, inizia ad allontanarsi per sempre dalla politica, rinnegando quanto teorizzato in passato, e lavora a un trattato sulla decadenza della Francia che sarà pubblicato postumo (Sulla Francia). Il 18 novembre 1942 in una mensa universitaria, l’allora trentunenne Cioran si avvicina, con una scusa, alla sua futura compagna di vita Simone Boué, una giovane ragazza che si apprestava a salire in cattedra nei licei per insegnare lingua e la letteratura inglese. Per tutta la vita Boué nasconderà la sua relazione con Cioran ai propri genitori, limitandosi a dire alla madre di aver trovato un coinquilino.
Nel marzo 1944 Cioran assiste da vicino alle barbarie perpetrate dall’ideologia nazista, l’amico e filosofo Benjamin Fondane e sua sorella Line, denunciati dal portinaio del loro appartamento per non aver indossato la stella di David, vengono arrestati dalla polizia del governo collaborazionista di Vichy. Cioran, insieme a Jean Paulhan e Stéphane Lupasco, interviene per salvare il suo «migliore amico». Cioran cercò di spiegare alle autorità francesi che Fondane era una sorta di icona in Romania e il suo arresto avrebbe potuto mettere a repentaglio l’alleanza del suo paese con le potenze dell’Asse. L’ufficiale con cui Cioran stava parlando, dopo un iniziale convincimento, ispezionando i documenti, scoprì che ormai Fondane era naturalizzato francese dal 1938 e che aveva combattuto con l’esercito sotto le note della marsigliese. Successivamente, gli amici di Fondane si appellarono al diritto di liberazione in quanto coniuge di un ariano, principio che poteva essere applicato a lui ma non alla sorella. Fondane si rifiutò di lasciare sola la sorella e venne deportato il 30 maggio ad Auschwitz. Fra il 2 e il 3 ottobre, Fondane morì nelle camere a gas di Birkenau.

Finita la guerra, Cioran è sempre più convinto di dover restare in Francia, dove vivrà con lo statuto di apolide, mentre in Romania i comunisti prendono il potere. Non immaginava che non sarebbe mai più ritornato nella sua terra di origine. Poco dopo, la nuova Repubblica socialista di Romania arresterà e condannerà gli ex-militanti della Guardia di Ferro, a farne le spese nel 1948 sarà Aurel, fratello del filosofo. Intanto, un anno prima, mentre traduceva in romeno il poeta Stéphane Mallarmé a Dieppe, località della Normandia, Cioran si rese conto che non aveva alcun senso quello che stava facendo. «A cosa serve tradurre Mallarmé in una lingua che nessuno conosce?», e rispondendo a se stesso prese una decisione: «Devi rinunciare alla tua lingua madre». È questo il momento conclusivo della svolta, una svolta che tuttavia guarda indietro, riportando il pensatore alle posizioni, ora radicalizzate, della sua prima opera. Egli stesso parlerà dell’evoluzione del suo pensiero, che evoluzione non è, come un superfluo percorso di verifica

Egli adotta perlopiù l’aforisma come modalità di scrittura, spiegando che il suo non è un vero e proprio aforisma, ma il risultato di uno svolgimento di un pensiero di cui si è salvata soltanto la conclusione, dopo aver cancellato l’intera pagina. Il frammento permette, a differenza della rigidità del sistema, una certa libertà e smorza sul nascere la possibile creazione di una dottrina. Il vantaggio dell’aforisma è che esso non ha bisogno di fornire prove ed essendo frutto di sensazioni temporanee giustifica anche eventuali contraddizioni: «Si tira un aforisma come si tira uno schiaffo». Dunque, mentre un frammento è capace, nella sua flessibilità, di esprimere tutti gli aspetti dell’esperienza, il sistema totalitario esprime, nella sua rigidità, soltanto la voce del «controllore».

La prima opera pubblicata in lingua francese sarà il Sommario ["précis"] di decomposizione, testo che riscriverà più volte, e nel quale non a caso il primo paragrafo si intitolerà: Généalogie du fanatisme. Cioran necessita di lasciarsi alle spalle quello che è stato «l’apice negativo» della sua esistenza, ma, nonostante le chiare evidenze testuali, critici e inquisitori vari alimenteranno per il resto dei suoi giorni – ma ancora oggi – una cultura del sospetto sulle sue presunte preferenze politiche. Equivoci che centodieci anni dopo, trovano il favore di una sinistra dogmatica e di una destra che sembra ignorare gran parte della produzione letteraria ed epistolare dell’autore. In una lettera spedita al fratello soprannominato Relu, egli scriverà, con un velo di amara ironia, che uno scrittore che ha combinato guai da giovane è come una donna dal passato indecente, gli verrà sempre fatto pesare quello che è stato. Il Privatdenker lontano dagli ambienti accademici, dalla vita pubblica e sconosciuto ai più, continuerà a scrivere e a pubblicare, nel 1952 esce Sillogismi dell’amarezza, testo che seppur molti anni dopo, lo farà conoscere ai lettori di tutto il mondo.

Agli inizi e alla fine degli anni ’60, Cioran pubblica due testi fondamentali: Storia e utopia Il funesto demiurgo. Quando un individuo crede di essersi allontanato dalla religione, rimane comunque fatalmente assoggettato al suo naturale e probabilmente ineliminabile sentimento religioso, per effetto del quale, sostiene Cioran, egli crea «simulacri di dèi» che si precipita ad adorare. Proprio quest’indole di venerazione è responsabile di tutti i crimini dell’essere umano: «chi ama indebitamente un dio costringe gli altri ad amarlo» ed è pronto a sterminare coloro i quali si rifiutano di inchinarsi dinanzi alla sfilata di questi «falsi Assoluti». In ogni uomo «sonnecchia un profeta» e ogni qualvolta che quest’ultimo si risveglia, compare un nuovo male nel mondo. Ogni uomo, «dagli spazzini agli snob», prodiga la sua generosità criminale dispensando ricette di felicità. L’abbondanza di queste soluzioni è solo un’ennesima prova della loro futilità. Se avessimo il giusto senso della nostra posizione nel mondo, se confrontare fosse inseparabile dal vivere, scrive Cioran, la rivelazione della nostra infima presenza ci schiaccerebbe. Vivere però significa ingannarsi sulle proprie dimensioni. Chi mai, si chiede retoricamente il filosofo, avendo la visione della propria nullità si ergerebbe a salvatore? Tutti dovrebbero andare a lezione dagli antichi sofisti per apprendere l’arte del relativismo. L’utopia è figlia della promessa tradita della vita eterna, le ideologie sono soltanto un surrogato delle religioni, dalle quali hanno ereditato i peggiori vizi. Pertanto, è lecito considerare malvagia ogni tipo di società, ricordando che l’umanità, così come credeva la setta eretica dei bogomili, è frutto della creazione di un dio tarato. 

Con il passare degli anni, la produzione letteraria di Cioran calerà notevolmente, nonostante lo scrivere sia per lui un Ultimatum all’esistenza, per citare una delle ultime raccolte di interviste e conversazioni pubblicate in Italia. Egli trovò nella scrittura una pratica auto-terapeutica capace di attenuare le proprie ossessioni, l’unica attività che gli ha permesso di evitare il suicidio: «Non credo alla letteratura, credo soltanto ai libri che traducono lo stato d’animo di chi scrive, il bisogno profondo di sbarazzarsi di qualche cosa. Ogni mio scritto è una vittoria sullo sconforto. I miei libri hanno molti difetti, ma non sono fabbricati, sono veramente scritti a caldo: invece di schiaffeggiare qualcuno scrivo qualcosa di violento. Dunque non si tratta di letteratura, ma di terapia frammentaria: sono delle vendette. I miei libri sono frasi scritte per me o contro qualcuno, per non agire. Atti mancati».
L’ultimo Cioran si concentrerà, appunto, sui temi quali la nascita e il suicidio. In tanti, attaccheranno Cioran per aver fatto l’apologia del suicidio e non essersi suicidato. Ma il suicidio non serve a niente, poiché è incapace di restituirci «la dolcezza prima della nascita». Il suicidio è un atto inconcludente per il fatto che non è in grado di risolvere la tragedia della nascita, che è la vera tragedia, così come aveva intuito il Buddha e non Cristo. Ciò che invece risulta utile è «l’idea del suicidio», ovvero la certezza che ogni individuo possa mettere fine alla sua esistenza in qualsiasi momento. Eppure, prima di spegnersi definitivamente il 20 giugno del 1995, logorato dall’Alzheimer e da altre patologie, Cioran implorerà a lungo l’abbraccio della morte con cui aveva danzato per tutto il corso della sua vita. 


FRIEDGARD THOMA

Annalena BeniniL'indispensabile maledizione di un amore senile, la punizione della carne. Emil e Friedgard, Il Foglio, 11 aprile 2015

Quando Cioran incontrò a Parigi Friedgard Thoma, nella primavera del 1981, lei indossava un abito nero “non troppo corto” e aveva deciso di piacergli. Gli aveva scritto una lettera in tedesco, pochi mesi prima, da lettrice entusiasta e diffidente: gli disse che, a differenza del resto del mondo, non lo trovava affatto distruttivo. Lui le rispose in fretta e lei ne fu felice, lusingata, eccitata, e allegò alla nuova lettera una sua foto (“al mio solito modo, frivolo ma piuttosto vanitoso”) per mostrargli chi era: una giovane donna attraente, non soltanto una insegnante di Filosofia e Letteratura folgorata dalla lettura de “L’inconveniente di essere nato”. Lui aveva settantadue anni, lei trentasei, lei voleva incontrare “una delle più grandi menti di Parigi” e forse aveva anche progettato di farlo innamorare, di portare scompiglio dentro quello scetticismo, di giocare con la seduzione non solo intellettuale verso l’uomo che aveva per tutta la vita riso dell’amore e dell’insensatezza della vita. Parlavano di suicidio, di solitudine, di ozio disperato, e intanto ridevano, bevevano vino, lui la prendeva sottobraccio, passeggiavano per Parigi di notte, cucinavano insieme. Fu una tale tempesta che Cioran arrivò a scriverle, quella stessa estate: “Lei è diventata il centro della mia vita, la dea di uno che non crede in nulla, la più grande felicità e sventura che mi sia capitata. (…)  Dopo che per lunghi anni ho parlato con sarcasmo di tali… cose come l’amore (e simili) dovrei essere punito in qualche modo, e lo sono, ma non importa. Il fallimento è il punto capitale del mio programma”.  Friedgard ce l’aveva fatta: con la vitalità della giovinezza, con le gambe lunghe e i vestiti leggeri era entrata nella vita di un uomo che considerava un dio, ne aveva ottenuto la capitolazione amorosa, possedeva perfino le prove scritte di quel corteggiamento disperato che aveva deciso di rifiutare. Diventando “l’indispensabile maledizione” di Cioran, era infine diventata qualcuno. Friedgard Thoma ha raccontato questa storia d’amore (senza amore fisico, i baci solo sulle mani) in un libro intitolato “Per nulla al mondo, un amore di Cioran” (pubblicato in Italia da L’orecchio di Van Gogh qualche anno fa), in cui ha raccolto le lettere, ha infilato fiera le foto di loro due ai giardini del Luxembourg, il tavolo di Cioran nella mansarda a Parigi, i bigliettini che lui le mandava, e una foto triste di lui che le prende la mano, negli ultimi anni. Lui si aggrappa a lei come ci si aggrappa alla vita che sfugge, lei gli sorride.
La prima lettera che Cioran scrisse dopo quel primo incontro a Parigi, la domenica di Pasqua, era già esplicita: “Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a Lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna. Come possono essere letali certe cose” e anche “In genere non provo alcuna attrazione sessuale per le donne per cui provo un’affinità intellettuale. Parlerei volentieri del Lenz con lei a letto”. Lei civettava, gli scriveva che sentiva la sua mancanza, gli proponeva di incontrarsi a Colonia, dove viveva e lavorava, lo supplicava di non telefonarle troppo raramente (“il telefono è l’unico modo per attenuare la ‘catastrofe naturale’ in cui sono coinvolta insieme a lei”). Parlavano della solitudine di lui (che pure viveva con sua moglie, Simone Boué), dell’abitudine a bere tisane la sera, dell’affitto troppo caro, di Ionesco e di quella “perversa attrazione” che Cioran provava per il corpo di lei, della gelosia che gli causava saperla a letto con un altro uomo, quando le telefonava la mattina presto. Lei voleva tutto: le parole, l’amore, la devozione, la presenza, l’ironia, i libri, gli aforismi e le passeggiate, voleva essere la donna che lui amava intensamente, ma non voleva che le si avvicinasse troppo. Nel mese di maggio Cioran andò “improvvisamente”, scrive Friedgard, a Colonia da lei. Ma non era un viaggio improvvisato, era la risposta a una lunga serie di inviti, di richieste e anche di dichiarazioni d’amore senz’altro sincero (“La prego di considerarmi la persona che l’ama, qualunque cosa s’intenda; quella che ha bisogno di più tempo (ci siamo visti solo un pomeriggio e due sere), più lenta e ponderata quando si tratta di infrangere certe soglie”). Andò a prenderlo alla stazione vestita di rosso e di nero, dopo avere ascoltato il quintetto d’archi in Do maggiore di Schubert, e lo ospitò nel suo appartamento. Notò che, nonostante predicasse da sempre l’insonnia (“L’unica forma di eroismo compatibile con il letto”), Cioran dormì piuttosto bene. Lui cercò di starle il più vicino possibile, pianse sulla riva del lago, e infine le scrisse, dal treno che lo riportava a Parigi: “Ho recitato troppo a lungo la commedia della saggezza”.

 Era una disfatta, il tumulto del cuore, perfino un’autoridicolizzazione a cui Friedgard rispondeva compassionevole e adorante ma insieme sprezzante: “Dunque, caro: Lei mi ha trascinato nell’immediatezza inequivocabile di una relazione fisica, mentre io cercavo l’erotica ambiguità della relazione ‘intellettuale’”. Cioran non era più scettico, leggero, distaccato, non era più Cioran: era ossessionato da una donna che non voleva lasciarsi toccare da lui. “Sento che tra noi qualcosa si è rotto. Resteremo certamente amici, ma l’ambiguità, il torbido, spariranno irrimediabilmente. Poiché il nostro secondo incontro ha sortito un esito simile, non posso più farmi illusioni su quelli futuri”. Friedgard gli aveva detto, nella sostanza, e con gentili artifici: tu sei vecchio e io sono giovane. Non posso amarti come tu mi ami. E lui aveva perduto il distacco, lo scetticismo, la sua disperazione adesso era diversa, era la disperazione per un rifiuto. “La fortuna di esser cinico mi ha abbandonato, da che l’ho conosciuta”. Durante il loro terzo incontro, a Parigi, sospeso tra ossessione e leggerezza, le scrisse su un tovagliolo la frase di Colette, “Pour rien au monde”, per niente al mondo avrebbe rinunciato a lei. E così è stato fino alla fine, tra gelosia, nostalgia, slanci e altre lacrime, e con lei che gli scriveva: “Oh, se non ci fossero le cosce, ma solo le mani”.

UNA FAMOSA STRONCATURA

 John Updike, Un monaco mancato, "A Monk Manqué",
12 maggio 1975, 
 The New Yorker, ristampato in Hugging the Shore,1983

Nessuno dei rivali e dei critici di Cioran ha pensato di considerarlo come uno scrittore che, come altri scrittori, abbia il dovere di essere interessante né lo rimprovera che compie questo dovere in modo davvero sinistro. Benché erudito ed intellettuale all’estremo, non è tanto un pensatore quanto un posatore che inanella una serie di modi, di pose davanti a noi senza quel desiderio, tipico dei filosofi, volto a dirigere le nostre azioni e le nostre attitudini. È un intrattenitore, se diamo per assodato che l’esibizione compulsiva delle proprie ferite psichiche abbia qualcosa di interessante. Figlio di prete ortodosso, Cioran è innamorato e senza speranze del Cristianesimo – insaziabilmente arrabbiato col Cristianesimo. Viene dalla terra di Dracula e cerca le sale gotiche della storia, si trova claustrofobicamente a casa sua dentro l’orrore, il dolore, la negazione di sé, la rabbia. Che benedizione affamata è quella che spalanca le sue fauci sul collo del bene! Il lato oscuro di Cioran ha però un risvolto positivo, vale a dire una genuina ammirazione per la vita monastica, specialmente nei suoi aspetti [morbosi]. (…)

I suoi saggi, con la vastità di riferimenti – sa tutto per non dirci niente – sono un genere di rammemoramento agonizzante fatto dall’interno vacuo della ‘civiltà incapace di respirare’ che lo circonda. Non è mera arroganza ma volontà tesa a umiliare, vuole lo spopolamento che lo porta alla sua sistematica abolizione dei nomi dei contemporanei, e dice perciò “qualche teologo” o – per dire de Gaulle – “il meno insignificante degli uomini moderni”. Ma l’assenza, nei suoi dibattiti elettrizzati coi fantasmi, di nomi viventi enfatizza la mancanza di ogni altro incontro che non sarà mai possibile, e nemmeno a forzare le cose il suo pensiero verrà mai domato dal confronto, da avversari all’altezza, da alternative che non esistono nella sua danza di idee morte; la sua prosa istrioneggia ed è agitata e spezzettata come le movenze di un vampiro. (…)

Tutti i saggi raccolti nel The new gods (Le mauvais demieurge) si interrompono ogni volta che potrebbero diventare graziosi e fluenti; sembrano, invero, scritti punto per punto, shock dopo shock, una serie di cadenze che vorrebbero passare per melodia. Il frequente ricorso agli asterischi e agli attacchi di nuovi paragrafi tradisce la prospettiva mobilissima di un’intelligenza devota soltanto a se stessa. La migliore sezione di questo libro, la più divertente, concreta e suggestiva della mente vivente di Cioran, è l’ultima – una stringa di aforismi sconnessi intitolata Pensieri strangolati. (…) Reso celebre per un defatigante perfezionismo stilistico, Cioran è quel tipo di intellettuale outsider che Thomas Mann ha descritto nella storia breve Dal Profeta: “l’Io solitario cantava, farneticava, comandava; si perdeva in intricate immagini, sprofondava in un gorgo di sconnessioni e riemergeva, improvviso e pauroso, là dove meno lo si sarebbe aspettato. Le bestemmie si mescolavano agli osanna, l’incenso ai vapori di sangue; e in tonitruanti battaglie veniva conquistato e redento il mondo…”.

Ora, benché i suoi sponsor americani ce lo passino come filosofo, a Cioran difetta almeno la metà di quel che la parola greca suggerisce: amare il sapere. Saggezza senza amore è sofisticheria. Leggete subito un altro scrittore di frammenti che sia nervoso e dubitante, uno come Wittgenstein – a Cioran mancano spaventosamente due qualità di pensiero che l’austriaco possiede. Sono gentilezza e serietà. Non desidera farci rinascere dalle nostre ire per mezzo della chiarificazione; non desidera, diversamente da Nietzsche e Kierkegaard, infiammare la nostra rabbia sino al punto critico per poi curarla. Desidera darci soltanto, col suo agile e sinistro zampettare ragnesco tra le complessità delle nostre vicende attuali, dei frissons – ecco la sua parola favorita, i brividi. E i mezzi sembrano sproporzionati rispetto ai fini.

John Updike

*traduzione di Andrea Bianchi. Il passo di Mann è cavato dai Racconti ed. Mondadori 1978

https://www.treccani.it/enciclopedia/emile-cioran_(Enciclopedia-Italiana)/
https://www.rsi.ch/cultura/letteratura/Emil-Cioran-un-Don-Chisciotte-cinico--2179281.html

martedì 15 ottobre 2024

Aleksandra Kollontaj, femminista al tempo dei Soviet

 


Paola Ferretti, Aleksandra Kollontaj, femminista al tempo dei soviet,
il manifesto Alias, 9 luglio 2023

Nella storia del pensiero prerivoluzionario russo è spettato ai movimenti populisti delle ultime decadi dell’Ottocento dissodare il terreno dell’emancipazione femminile proponendo nuovi modelli di donna che mettessero in discussione l’istituto del matrimonio e il concetto di amore come appartenenza, prefigurando l’avvento di una società egualitaria, pacifica e prospera che fosse al contempo al riparo dalla prevaricazione maschile.

Senza quel lavoro strenuo e appassionato sarebbe stata impensabile la comparsa di una figura dirompente come quella di Aleksandra Kollontaj: rivoluzionaria, pacifista, diplomatica, pedagogista e soprattutto paladina di un empowerment femminile ante-litteram, raggiunse traguardi fino ad allora preclusi alle donne nella sfera pubblica, mentre in quella privata inverò l’utopia di liberazione sognata nel Che fare? di Černyševskij.

Un suo intenso ritratto biografico, dovuto a Hélène Carrère d’Encausse – studiosa francese di lungo e prestigioso corso, storica della Russia e dell’Unione Sovietica, voce tuttora interpellata nel nostro travagliato presente – esce ora da Einaudi: Aleksandra Kollontaj. La valchiria della rivoluzione (pp. 168, € 23,00). Un’esistenza lunga e decisamente burrascosa, la sua, passata in parte all’estero, come esiliata per sfuggire alla polizia zarista, come infaticabile congressista nelle città europee ma anche negli Stati Uniti e in Messico, e infine come apprezzata rappresentante dello stato sovietico nei paesi scandinavi (dal ’22 al ’45, sfiorando il Nobel per la Pace per gli sforzi diplomatici volti a placare le ostilità tra Finlandia e Urss nei primi anni ’40).

Pietroburghese, di natali altolocati e di indole impavida, ci lascia un’eredità di pensiero corposa e una lezione di indipendenza riconoscibile nella volontà di restare sempre saldamente al comando del proprio destino e al fianco delle donne: riuscì, nei fatti, a scalfire (almeno temporaneamente) il patriarcato russo, guadagnandosi l’accesso ai vertici della politica e alla diplomazia d’alto rango, scansando le manifestazioni di condiscendenza a colpi di argomentazioni veementi, di posizioni irriducibili e di interventi persuasivi. Varcato il solco sociale a lei predestinato, scardinò i limiti imposti al suo sesso da un rassicurante matrimonio borghese.

La sua azione in favore delle donne si tradusse in una mobilitazione inesausta delle lavoratrici russe, nella fondazione di istituti in loro difesa, in molteplici progetti destinati a instaurare la parità. Si coordinò, soprattutto all’inizio del suo percorso, con le esponenti tedesche, francesi e inglesi della lotta per il suffragio femminile e la conquista di misure di tutela sul lavoro e per la maternità.

Oltre a firmare testi di propaganda e di riflessione teorica, fu autrice di una narrativa di respiro e impegno notevoli (la cui summa è forse Gli amori delle api operaie), per quanto di solito liquidata come didascalica e dotata di un trascurabile appeal romanzesco.

La sua opera di femminista è tanto più ammirevole in quanto incontra una doppia resistenza: non solo quella della società russa tradizionale, ma anche quella all’interno del suo stesso schieramento politico, che considerava le richieste delle donne come marginali, se non addirittura controproducenti, per la causa della rivoluzione prima e dell’instaurazione del comunismo poi.

Alle rivendicazioni di emancipazione si accompagnava, sul piano personale, la ricerca della libertà e della felicità amorosa, perseguita lungo l’affollata galleria di uomini avvicendatisi al suo fianco, dal primo marito Kollontaj – che le lasciò il cognome e un figlio – presto lasciato indietro per dedicarsi agli studi e all’attività politica, ad Aleksandr Satkevič e Petr Maslov, dal giovane bolscevico Aleksandr Šljapnikov al quasi analfabeta marinaio del Baltico Pavel Dybenko, anch’egli ben più giovane di lei. Fino a quel Marcel Body, comunista e diplomatico, che le sarà vicino per lunghi anni nonostante la grande differenza di età.

Le posizioni politiche di Kollontaj scaturivano dalla sua speciale sensibilità per tutti coloro che si trovavano in difficoltà, e il suo impegno per migliorare le sorti del proletariato si consolidò attraverso assidue letture e studi, prima nella capitale russa poi a Zurigo, dove si recò per approfondire il pensiero marxista (tra i tanti incontri, quello con Rosa Luxemburg, da cui rimase abbagliata).

Di iniziali simpatie mensceviche, fu sempre più attratta nell’orbita di Lenin: lo aveva conosciuto già nel 1905 e a distanza di sei anni le loro strade si erano incrociate di nuovo a Parigi; ancora nel 1914 lui la teneva a distanza come menscevica, e allo scoppio della guerra ne deplorò il pacifismo.

Ma all’epoca della rivoluzione di febbraio fu lei a organizzare, dalla Norvegia, il rientro in Russia del leader bolscevico, precedendolo e portando con sé le sue celebri Lettere da lontano destinate alla Pravda.

Per almeno un lustro ne diventerà una sorta di portavoce (non senza passare per un periodo di detenzione nelle carceri di Kresty sotto il governo Kerenskij), guadagnandosi l’appellativo di intrepida «Valchiria della Rivoluzione» per le sue doti di formidabile oratrice capace di trascinare le folle.

Nel governo uscito dalla rivoluzione di ottobre ebbe l’incarico di Commissario del popolo per gli affari sociali, ma alla fine del 1921 si schierò con l’Opposizione operaia, che denunciava l’evoluzione autoritaria del partito, ipercentralizzato e burocratizzato.

Le sue divergenze intellettuali e politiche si traducevano in critiche sempre più radicali, finché con un infiammato discorso al Terzo Congresso del Comintern, nel giugno del 1921, sfidò apertamente il partito giudicando la Nep un tradimento della classe operaia.

Riprendere in mano ancora una volta il filo delle vicende che mutarono la Russia in Unione Sovietica, ma con gli occhi e le aspettative di Kollontaj, come viene fatto in questo libro, vuol dire restituire alla sua figura quella centralità che le fu negata dagli uomini del suo stesso partito e dalla storiografia successiva.

La causa della Rivoluzione ha avuto in Russia un volto di donna che avrebbe potuto imprimere al corso degli eventi un diverso svolgimento, viene da pensare.

Carrère non manca di interrogarsi, nelle Conclusioni, anche sul punto dolente della sua parabola di amazzone della politica: il segreto di un destino privilegiato rispetto alle tante vite spezzate al tempo del Terrore, nel quadro della feroce lotta per il potere di quegli anni.

Nel 1938 la stessa Kollontaj constatava come solo due dei compagni di Lenin di una volta fossero rimasti in vita: Stalin e lei. Aggiungendo (si trattava di una conversazione privata): «Ho capito che la Russia non poteva passare dall’oscurantismo alla libertà in pochi anni. La dittatura di Stalin o di chiunque altro, che avrebbe potuto chiamarsi anche Trockij, era inevitabile».

Di certo, gli esiti della collisione tra rivoluzione e arretratezza, che tanto l’avevano colpita, a distanza di un secolo sono tuttora sotto i nostri occhi, in Russia.

https://www.enciclopediadelledonne.it/edd.nsf/biografie/aleksandra-kollontaj
https://www.marxists.org/italiano/kollontai/eros-alato.htm

Angelica e il vero amore



Marco ErbaAngelica contesa da tanti uomini sceglie (e insegna) il vero amore, Avvenire, 14 ottobre 2024

Nell’Orlando furioso, capolavoro del poeta rinascimentale Ludovico Ariosto, la figura di Angelica si impone subito all’attenzione. Angelica, principessa del Catai (la Cina), giunge in Occidente insieme al paladino cristiano Orlando, uno dei guerrieri più valorosi dell’esercito di Carlo Magno. L’opera è infatti ambientata secoli prima, all’epoca degli scontri tra cristiani e saraceni spesso enfatizzati dalla letteratura. Ma si sa, la narrazione dello scontro di civiltà, sovente finalizzata a consolidare il potere politico, funziona in tutte le epoche.

Per Ariosto però questo scontro di civiltà è solo lo sfondo per narrare meravigliose avventure, con arguta ironia. Non c’è alcun realismo storico nel suo racconto: si parla, ad esempio, dei saraceni che assediano Parigi, un falso così clamoroso da [risultare] divertente.

Angelica, dunque, giunge al campo cristiano. I suoi modi, la sua bellezza orientale, il suo fascino soggiogano moltissimi cavalieri, che dimenticano il re e la guerra santa e desiderano solo conquistare il cuore della principessa. Per Angelica nasce una contesa tra Orlando e suo cugino Rinaldo, altro guerriero valorosissimo. Re Carlo ne approfitta: toglie Angelica a Orlando, la assegna al vecchio e saggio Namo, duca di Baviera, e promette la donna a quello dei due cugini che meglio si comporterà nell’imminente battaglia con i saraceni.

Finora Angelica è solo un simulacro, un oggetto di desiderio. È una donna vista come un trofeo da possedere, di cui si guarda solo l’attraente involucro. Angelica è il desiderio inconfessabile di ciascuno: una bellezza irraggiungibile, e che per questo accende ancor di più di passione. Un seducente corpo senz’anima. La descrizione di Ariosto potrebbe anche oggi interrogarci su come vengono presentati i corpi, sia femminili che maschili, sui social, nella pubblicità, a livello mediatico. Persone o oggetti? Storie o icone? Sostanza o apparenza?

Ariosto vive in una società maschilista. L’uomo agisce, decide, governa. La donna gli appartiene: di essa può disporre. Ma l’autore del Furioso è un genio e spariglia le carte. Angelica non si fa possedere, sfugge. Non solo, si fa beffe di ogni maschio alfa che pensa di poterla dominare.

I saraceni sconfiggono i cristiani. Angelica approfitta del caos, salta su un cavallo e si lancia al galoppo nel bosco. Parte così un infinito inseguimento, senza esito per i paladini.

Angelica a un certo punto si nasconde in un cespuglio, presso al quale giunge Sacripante, re di Circassia, saraceno. Anch’egli è innamorato di lei. Prorompe in un lamento d’amore, senza sapere che Angelica è proprio lì, al suo fianco, e lo ascolta. La principessa decide così di uscire allo scoperto per farsi aiutare. Sacripante, a questo punto, si rivela per ciò che è: uno smargiasso, che pensa di essere in grado di usare gli altri come vuole, grazie al suo potere e alla sua stazza. Sacripante paragona la verginità di Angelica a una rosa e si dice certo di poter cogliere questo fiore. Il guerriero usa parole che alla nostra sensibilità suonano brutali, violente, agghiaccianti:

Corrò la fresca e matutina rosa,

che, tardando, stagion perder potria.

So ben ch’a donna non si può far cosa

che piú soave e piú piacevol sia,

ancor che se ne mostri disdegnosa,

e talor mesta e flebil se ne stia:

non starò per repulsa o finto sdegno,

ch’io non adombri e incarni il mio disegno.

«Mi prenderò Angelica» dice Sacripante. «A lei piacerà; piace a tutte le donne, anche se a volte fingono di no. Ma io non mi fermerò di certo, neanche se mi respinge, tanto è per finta».




Parole atroci e, purtroppo, ancora attualissime: la volontà di Angelica non conta, il consenso non esiste: c’è solo il brutale desiderio maschile. Ariosto si fa beffe di Sacripante. Il rozzo re di Circassia ha appena finito di parlare ed ecco che spunta un cavaliere vestito di bianco. Il nuovo venuto sfida Sacripante a duello, lo sconfigge in un lampo e lo lascia a terra umiliato. Pochi versi dopo si scopre chi è il misterioso cavaliere: è Bradamante, una fortissima guerriera cristiana. Una donna! Il maschilismo brutale di Sacripante viene dunque umiliato da una donna libera, controcorrente, che invece di restare nel ruolo sociale che la società dell’epoca le vorrebbe imporre, decide di combattere e di sfidare gli uomini alla pari, sconfiggendoli. Un’icona affascinante, che anticipa di secoli le lotte per l’emancipazione femminile. Sacripante, ferito nell’orgoglio, vedrà sfuggirsi anche Angelica poco dopo, quando a lui si contrapporrà in un nuovo scontro lo stesso Rinaldo, in precedenza citato. Tutti si battono per possedere Angelica e lei fugge sempre, ricordandoci che l’amore è dono reciproco, non è mai cattura e conquista.

Dopo mille peripezie, anche Angelica troverà l’amore. E accadrà non con un guerriero oberato di trofei, non con un tronfio cavaliere pieno di sé, non con qualcuno che indossa una impenetrabile armatura. L’amore non tollera corazze, non può riguardare gli egolatrici incapaci di sentire e vedere l’altro. L’amore è dono, appunto. L’amore è tenerezza, è compassione, è cura. Per questo i poeti spesso paragonano l’amore a una ferita: è un modo iperbolico per dire che amare significa sentire l’altro dentro, provare la sua gioia, ma anche essere disposti a condividere la sua sofferenza.

L’amore vero di Angelica nasce dalle ferite. Ferite che Medoro, un oscuro fante saraceno, ha subìto perché sorpreso dai cristiani mentre era impegnato nella nobile impresa di dare sepoltura al corpo del suo re Dardinello, caduto in battaglia e dimenticato. Medoro è una persona nobile d’animo e generosa: l’amore si radica nella parte più bella di noi e la risveglia. L’amore rifiuta le dinamiche di potere.

Angelica si imbatte in lui, quasi morto; lo cura, grazie alle tecniche mediche che ha imparato in Oriente. E lì accade un miracolo:

Quando Angelica vide il giovinetto

languir ferito, assai vicino a morte,

che del suo re che giacea senza tetto,

piú che del proprio mal si dolea forte;

insolita pietade in mezzo al petto

si sentí entrar per disusate porte,

che le fe’ il duro cor tenero e molle,

e piú, quando il suo caso egli narrolle.

Angelica, a poco a poco, si scopre innamorata di Medoro. Prendendosi cura di lui più che di sé stessa, donandogli ciò che ha, scopre un amore ben diverso da quello preteso dagli arroganti paladini. Un amore autentico:

Assai piú larga piaga e piú profonda

nel cor sentí da non veduto strale,

che da’ begli occhi e da la testa bionda

di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.

Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;

e piú cura l’altrui che ’l proprio male:

di sé non cura, e non è ad altro intenta,

ch’a risanar chi lei fere e tormenta.

Angelica «più cura l’altrui che il proprio male». Amare non è dimenticarsi di se stessi, non è umiliarsi: amare è però mettere il bene dell’altro al primo posto. Se ciò avviene reciprocamente, il cammino può iniziare.

È Angelica a rivelare il suo amore a Medoro. Anche questo passaggio è contro ogni regola dell’epoca, che vuole che sia l’uomo a chiedere in sposa la donna. Angelica invece fa il primo passo, è contraccambiata: i due si sposano nell’umile casa del pastore che li ha accolti. Un matrimonio antitradizionale, senza riti né banchetti. Un matrimonio semplice, che punta all’essenza. L’amore rende liberi, non si fa rinchiudere in schemi. L’amore apre avventure nuove, non è una storia già scritta.

Angelica e Medoro partono insieme. Orlando, il grande paladino che in virtù del suo valore e della sua smisurata forza si credeva in diritto di possedere la principessa del Catai, giunge nei pressi della casa del pastore, nei luoghi in cui è sbocciato l’amore tra i due. Quando scopre cosa è accaduto, si dispera, si strappa la corazza, distrugge tutto ciò che incontra, ormai folle. Rivedrà Angelica tempo dopo, emergendo nudo dalla sabbia della spiaggia di Tarragona: la principessa sta per caso passando di lì con Medoro. Orlando la insegue, cerca di catturarla; lei gli sfugge per l’ennesima volta. Ma la cosa terribile è che Orlando, ormai pazzo, non la riconosce nemmeno:

Come di lei s’accorse Orlando stolto,

per ritenerla si levò di botto:

cosí gli piacque il delicato volto,

cosí ne venne immantinente giotto [desideroso].

D’averla amata e riverita molto

ogni ricordo era in lui guasto e rotto.

Gli corre dietro, e tien quella maniera

che terria il cane a seguitar la fera.

Il suo inseguimento è bestiale. Orlando vede un “delicato volto” e lo desidera. Non vede la persona, non la riconosce, perché la passione egoistica e il desiderio di possesso nulla hanno a che fare con l’amore. Lo stalker non vede l’altro, non lo riconosce. Vede solo il suo desiderio, vede solo sé stesso.

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Sembra una favola a lieto fine. Nelle intenzioni dell'autore vuole essere una parabola, come le parabole evangeliche. Se però si lascia cadere l'interesse prevalente per la narrazione e si guarda al modo in cui sono presentati e si muovono i personaggi, allora si scopre un diverso contenuto del testo. Quelle che appaiono in successione sono figure del desiderio. Prima compare il desiderio astratto che nasce dalla contemplazione del simulacro, dalla bellezza che riluce e attira. E c'è anche la rivalità tra gli spasimanti, due cugini per nulla impressionati dalla parentela che li unisce. Poi compare Sacripante, lo smargiasso che vorrebbe possedere la fanciulla, uno stalker, si direbbe oggi. Viene tolto di mezzo da un'altra donna, Bradamante. Le figure femminili avanzano in primo piano e diventano protagoniste. Le vie dell'amore sono a volte tortuose, Angelica si trova davanti a Medoro, che non è in quel momento un maschio aitante nel pieno possesso delle sue facoltà, è "quasi morto". Lo cura, lo restituisce alla vita e se ne innamora. Il desiderio ha cambiato sesso, è diventato un fatto femminile. È lei che si fa avanti. In pieno Cinquecento, e in un ambiente popolato di cavalieri in armi, non è male. Al povero Orlando non resta che impazzire. Prende il posto di Sacripante, ora è lui lo stalker, il persecutore, prigioniero di un desiderio che non va oltre la sua persona e gli impedisce di vedere l'altro.