mercoledì 20 novembre 2024

Kafka, la scrittura e lo studio




Franz Kafka, Lettera al padre (1919)

Giustamente hai rivolto il tuo disprezzo alla mia attività di scrittore e a quanto, a te ignoto, le era collegato. Qui davvero mi ero allontanato autonomamente da te di un bel pezzo, anche se questo ricordava un po' il verme che, calpestato sulla coda da un piede, la abbandona e si trascina di lato con la parte anteriore. Un po' di sicurezza ce l'avevo, potevo tirare un sospiro di sollievo, e il disprezzo che naturalmente provavi per il mio scrivere mi era eccezionalmente benvenuto. La mia vanità e il mio amor proprio soffrivano naturalmente per il modo, ormai celebre per noi, con cui salutavi l'arrivo dei miei libri: "Mettilo sul comodino!" (perlopiù giocavi a carte quando arrivava un libro); ma in fondo esso sortiva un effetto benefico, perché quella formula suonava per me come: "Adesso sei libero!". Naturalmente era un'illusione, non ero o, nel più favorevole dei casi, non ero ancora libero. Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella direzione da me determinata. Ma quanto era poco, tutto ciò! Vale la pena di parlarne soltanto perché si è verificato nella mia vita; altrove non sarebbe minimamente degno di nota, e comunque soltanto perché ha dominato la mia vita, nell'infanzia come presagio, poi come speranza e dopo ancora, spesso, come disperazione, e mi ha dettato alcune piccole decisioni, se si vuole, ancora informate alla tua persona. Ad esempio la scelta della professione. Certo, tu mi hai dato piena libertà, alla tua maniera generosa e in questo senso perfino paziente. Tuttavia nel far ciò hai seguito anche il modo comune di trattare i figli da parte del ceto medio ebraico, che aveva per te un valore normativo, o comunque i giudizi di valore di tale ceto. Infine una certa influenza ha avuto uno dei tuoi fraintendimenti rispetto alla mia personalità. Tu mi ritieni infatti, da sempre, per orgoglio paterno, per ignoranza della mia vera esistenza, per le conclusioni che trai dalla mia debolezza, particolarmente studioso. Secondo te da bambino non facevo altro che studiare e poi non ho fatto altro che scrivere. Non è vero, neppure lontanissimamente. Si può semmai dire, con molta meno esagerazione, che ho studiato poco e non ho appreso niente; il fatto che in molti anni mi sia rimasto qualcosa, con una memoria decente e un'intelligenza non delle peggiori, non è poi molto strano, ma il risultato complessivo quanto alla conoscenza e soprattutto ai suoi fondamenti è comunque estremamente deplorevole, rispetto al dispendio di tempo e denaro e nel contesto di una vita esteriormente spensierata e tranquilla, in particolare anche in confronto a quasi tutta la gente che conosco. E deplorevole, ma per me comprensibile. Ho avuto, da quando so pensare, preoccupazioni così profonde relative all'affermazione spirituale dell'esistenza, che tutto il resto mi era indifferente. I ginnasiali ebrei da noi sono facilmente tipi singolari; tra loro si trovano le persone più improbabili; ma la mia indifferenza fredda, appena velata, indistruttibile, infantilmente inerme, quasi ridicola e animalescamente autocompiaciuta di bambino sufficiente a se stesso ma freddamente fantastico non l'ho ritrovata mai, per quanto qui fosse l'unico riparo contro la distruzione dei nervi da parte della paura e del senso di colpa. L'unica cosa che mi interessava era la preoccupazione per me stesso, che assumeva però le forme più differenti. Ad esempio come preoccupazione per la mia salute: cominciò in sordina, ogni tanto qualche leggera apprensione per la digestione, la caduta dei capelli, una deviazione della spina dorsale e così via; poi tutto ciò si intensificò nel corso di innumerevoli passaggi, fino a divenire una vera malattia. Ma poiché non ero sicuro di niente, avevo bisogno ad ogni momento di una nuova conferma della mia esistenza, niente era veramente e indubbiamente di mia esclusiva proprietà, proprietà che fosse determinata univocamente da me, così divenni naturalmente insicuro anche della cosa a me più vicina, il mio stesso corpo; crebbi molto in altezza ma non sapevo che farmene, il carico era troppo pesante la schiena si curvò; non osavo quasi muovermi o addirittura fare ginnastica, rimasi debole; se tutto quello di cui ancora disponevo sorprendeva, quasi fosse un miracolo, ad esempio la mia buona digestione, questo bastava a farmela perdere, e così era aperta la strada per ogni ipocondria, finché per lo sforzo sovrumano di volermi sposare (tornerò a parlarne) mi è uscito sangue dai polmoni, cosa della quale può essere in parte responsabile anche l'appartamento nel palazzo Schönborn, che però mi serviva solo perché credevo di averne bisogno per scrivere, e così è attinente a questa lettera. Quindi tutto ciò non è dovuto al superlavoro, come tu immagini da sempre. Ci sono stati anni in cui io, in piena salute, ho trascorso più tempo in ozio sul divano di quanto tu abbia fatto in tutta la tua vita, malattie comprese. Quando fuggivo da te occupatissimo, era in massima parte per andarmi a sdraiare in camera mia. Il mio rendimento complessivo sia in ufficio (dove peraltro la pigrizia non dà molto nell'occhio e inoltre era tenuta entro certi limiti dalla mia pavidità) che a casa è minimo; se tu ne avessi un'idea, rimarresti sconvolto. Probabilmente il mio impianto non è affatto pigro, ma per me non c'era niente da fare. Là dove ho vissuto ero rimproverato, giudicato, sconfitto; e fuggire altrove mi procurava una tensione estrema, ma non era fattibile, si trattava di una cosa impossibile, irraggiungibile con le mie forze, senza eccezioni di sorta. In queste circostanze ho avuto quindi la libertà di scegliermi la professione. Ma ero ancora capace di far davvero uso di una tale libertà? Confidavo davvero di riuscire a raggiungere una vera professione? La mia autostima dipendeva da te più che da qualsiasi altra cosa, ad esempio da un successo esteriore. Quello era il ristoro di un istante, nient'altro, ma dall'altra parte il tuo peso mi trascinava sempre più violentemente verso il basso. Non sarei mai andato al di là della prima elementare, pensavo; eppure ci riuscii, e mi dettero persino un premio; ma certamente non avrei superato l'esame di ammissione al ginnasio; eppure ci riuscii; ma adesso naturalmente all'esame di ammissione al ginnasio mi bocceranno; no, non fui bocciato, e continuai a riuscire. Ma questo non mi dette fiducia alcuna, anzi, fui sempre convinto--e ne avevo la prova formale nel tuo atteggiamento sprezzante-- che tanto più riuscivo tanto peggio sarebbe finita. 

http://www.salottoconti.it/public/F.Kafka_Lettera-al-Padre.pdf

Il patriarcato



Giorgia Serughetti, Complottismo, nativismo e anti-femminismo: le parole di Valditara sui femminicidi, Domani, 20 novembre 2011


«Il patriarcato è finito» , ha annunciato il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, intervenendo in   video durante la presentazione alla Camera dei deputati della fondazione intitolata a Giulia Cecchettin. E poiché questa parola è da consegnare al passato, ha continuato, parlare di femminicidio come manifestazione del potere patriarcale è una «visione ideologica».

A questa andrebbe sostituita una comprensione diversa delle cause del fenomeno, tra cui rilevano, in particolare, le «forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti dall’immigrazione illegale».

Non poteva essere espressa in modo più chiaro, in pochi minuti di video-messaggio, la narrazione che la destra di governo fa propria e intende imporre nel discorso pubblico in tema di violenza di genere. Quella, cioè, di un fenomeno legato all’insicurezza sociale e associato a culture “non occidentali”, non raggiunte dai progressi nella parità giuridica tra donne e uomini che, da questa parte del mondo, segnalano il definitivo tramonto dell’oppressione femminile. Il ruolo dell’«immigrazione illegale di massa» è stata rimarcato, del resto, anche da Giorgia Meloni in conferenza stampa a Rio de Janeiro.

Le parole d’ordine

Le parole di Valditara sono suonate particolarmente fuori luogo, nella commemorazione di un femminicidio perpetrato da un ragazzo italiano e della buona borghesia “nativa”. Ma la verità è che il ministro ha colto quella che deve essergli apparsa come un’occasione d’oro per far passare, sotto la veste di un messaggio istituzionale, le parole d’ordine della destra radicale ed estrema sul caso in questione. Nel discorso complottista che circola sui social network, l’enfasi di parte progressista e femminista sulla morte di Giulia Cecchettin sarebbe motivata dalla possibilità di colpire un giovane “bianco”, per rimuovere la responsabilità della componente migrante della popolazione.

Ecco dunque arrivare il ministro a ristabilire i fatti contro le ideologie. Provando a celare il carattere di quella che, a tutti gli effetti, è una visione ideologica, sebbene di segno diverso e opposto. Perché questo sono le ideologie: insiemi di idee, valori, opinioni, che orientano l’agire pubblico. E scegliere di evidenziare la componente straniera come determinante significa inquadrare il problema della violenza di genere nella visione nativista e identitaria tipica della destra, per strumentalizzare il relativo allarme sociale e proporne la soluzione attraverso il contrasto all’«immigrazione illegale».

A questo obiettivo serve anche l’attacco alla visione concorrente: quella che attribuisce invece l’origine della violenza alla persistenza di un potere di matrice patriarcale. A partire in particolare dall’omicidio Cecchettin, la parola “patriarcato” ha conosciuto una rinnovata fortuna nel dibattito pubblico, dopo decenni in cui era largamente caduta in disuso fuori dai circoli femministi. Ma proprio la sua ricorrenza ha provocato, come effetto, il moltiplicarsi dei tentativi di distorcerne il significato, o negarne la validità.

Il fraintendimento

La critica essenziale a questo concetto – che ispira anche il discorso di Valditara – è che non possa chiamarsi patriarcato un regime di formale uguaglianza, dove le donne hanno conquistato parità di diritti e quote di potere sociale, dove addirittura una donna siede alla presidenza del Consiglio dei ministri.

Questo però significa fraintendere – più o meno consapevolmente – ciò che il femminismo ha inteso parlando di patriarcato: un millenario ordine materiale e simbolico fondato sul dominio degli uomini e l’oppressione delle donne. Un ordine che dà forma alla divisione e organizzazione del lavoro produttivo e riproduttivo, determina la distribuzione diseguale delle risorse, condiziona i ruoli che sono attribuiti a donne e uomini, e inoltre modella il linguaggio, l’immaginario, le rappresentazioni.

Pensare che questa struttura possa essere sradicata in un paio di generazioni per il solo effetto dell’innovazione giuridica è illusorio. Il cambiamento richiede impegno costante sul tempo lungo. Mentre negarne la persistenza, solo perché la superficie della rappresentazione pubblica restituisce una maggiore parità tra i generi, rappresenta un’ottima giustificazione per non agire.

Quasi trent’anni fa, nel 1996, dopo la Conferenza Onu sulle donne di Pechino, la Libreria delle donne di Milano parlò di «fine del patriarcato». Ma intendeva ben altra cosa rispetto alla vulgata della destra. Non era il dominio ad essere finito, ma la disponibilità femminile ad accettarne le regole. E siamo ancora in quello snodo. Troppe donne vengono ancora uccise. Ma in milioni alzano la voce. Perché il patriarcato esiste ancora, ma non è più accettabile.



La bomba all'orizzonte



Lorenzo Cremonesi, Atomiche, Putin alza il livello, Corriere della Sera, 20 novembre 2020

Il ministero della Difesa a Mosca comunque minimizza e afferma di avere abbattuto 5 missili e danneggiato il sesto. Putin coglie l’occasione per ufficializzare la sua nuova dottrina atomica, già annunciata nel recente passato: d’ora in poi la Russia potrà ricorrere all’arma nucleare contro qualsiasi attacco convenzionale considerato «un pericolo per la sicurezza nazionale» e che venga lanciato da un Paese anche privo di atomica, ma alleato di potenze che ne sono muniti. In realtà, è dal primo giorno di guerra il 24 febbraio 2022 che il presidente russo sventola lo spauracchio atomico. «Il ricorso agli Atacams è il segnale chiaro che il fronte Nato vuole l’escalation», commenta il ministro degli Esteri russo Lavrov. «Ci riserviamo il diritto di ricorrere alle armi nucleari», ha reagito minaccioso anche il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov. Resta l’impressione che Mosca intenda attendere la presidenza Trump prima di compiere alcuna mossa drastica.

Marco Imarisio, Lo zar prova a far leva sull’ansia occidentale E a infiammare la propaganda interna, Corriere della Sera, 20 novembre 2024

Tutto come previsto. Ma con una scelta di tempo che meno casuale di così non potrebbe essere. Con la firma del decreto numero 991, «Le basi della politica statale nel campo della deterrenza nucleare», Vladimir Putin parla senza dire una parola. Lascia capire, senza esporsi in prima persona su una notizia tanto importante quanto non ancora confermata ufficialmente, com’è quella del via libera della Casa Bianca all’uso di armi a lunga gittata in territorio russo da parte dell’esercito ucraino.

La nuova dottrina, che sostituisce quella del 2020 la quale a sua volta riscriveva quella del 2010, era stata annunciata all’inizio della scorsa primavera, dopo una settimana ad alta tensione con l’Occidente. Per essere poi lasciata in naftalina. Fino a ieri mattina. Sette pagine in tutto, e una premessa benevola. «La Russia considera l’arma nucleare come (...) una misura estrema e obbligata, e intraprende tutti gli sforzi necessari per diminuire la minaccia nucleare e scongiurare un inasprimento dei rapporti interstatali capace di provocare conflitti militari di ogni genere».

Ma dopo le buone intenzioni, ecco le novità, già ampiamente anticipate a mezzo stampa. «In seguito all’insorgere di nuovi rischi e pericoli militari per la Russia», così spiega la Tass, l’agenzia di Stato incaricata di rendere note e spiegare le leggi appena approvate dal Cremlino, viene confermato il principio secondo cui la Russia può usare l’atomica in risposta ad un attacco contro sé stessa o la Bielorussia, avvenuto con l’impiego di armi convenzionali, a patto che minacci la sovranità e l’integrità territoriale. Mentre prima si parlava di «minaccia all’esistenza stessa dello Stato», qui l’asticella viene abbassata fino a una più generica e sindacabile «minaccia critica».

Con effetto immediato, l’aggressione di qualunque Stato appartenente a una coalizione militare contro la Russia e i suoi alleati, viene considerata come un’aggressione della coalizione intera. Anche un attacco da parte di uno Stato non-nucleare, vedi alla voce Ucraina, con la partecipazione o con il sostegno di uno Stato nucleare sarà considerato come un attacco congiunto e quindi passibile di una risposta nucleare. L’opzione atomica è possibile anche in caso di «informazione veritiera» riguardo un lancio di missili balistici contro la Russia o su suoi obiettivi militari ubicati fuori dai suoi confini, e pure in presenza di «un’informazione attendibile» sul decollo in massa di «mezzi di attacco aereo» in territorio russo.

Il semplice dispiegamento da parte dell’avversario potenziale di sistemi e mezzi della difesa antimissilistica, di armi ipersoniche ad alta precisione, e di droni d’urto, può invece autorizzare il Cremlino a far scattare una eventuale deterrenza nucleare. Così come da oggi potrebbe essere sufficiente a raggiungere lo stato d’allerta nucleare anche la semplice progettazione e lo svolgimento di grosse manovre militari vicino ai confini e, lampante il riferimento alla Nato, «la formazione o l’allargamento delle coalizioni militari esistenti che avvicinano la loro infrastruttura alla Russia».

Il messaggio è chiaro. Più che i contenuti, conta il momento. Putin conosce bene qual è la grande paura dell’occidente e di tutto il mondo. Il presidente sa anche che si tratta di una partita che non può permettersi di giocare, per assenza di risorse.

Ma la scelta di sbrinare un decreto pronto da mesi non è solo rivolta al mondo esterno. Dopo la notizia giunta venerdì dagli Usa, l’opinione pubblica russa, soprattutto quella televisiva, ha subito gonfiato i muscoli dell’orgoglio patriottico. I talk show serali del lunedì hanno toccato vette altissime. «Bastano tre missili ben piazzati e l’intera civiltà britannica crollerà e sarà distrutta per sempre» ha detto un esperto militare sul primo canale di Stato, mostrando una cartina con tutte le capitali e luoghi sensibili d’Europa potenzialmente raggiungibili dai missili del suo Paese, per poi concentrarsi sul «nemico principale», ovvero il Regno Unito.

Non importa se i pochi media avveduti e le persone con reale conoscenza delle intenzioni di Putin e del suo circolo ristretto continuano a escludere il ricorso all’arma totale. Questa è l’aria che tira e che da anni viene fatta soffiare in Russia, veicolando messaggi di natura ultra-nazionalistica. Putin non poteva parlare, ma doveva dare una risposta.

«L’uso dei missili può essere ora qualificato come aggressione dei Paesi del blocco Nato contro la Russia. Questa è già la Terza Guerra Mondiale. Forse il vecchio Biden ha deciso davvero di lasciare la vita in bella maniera portandosi dietro una buona parte dell’umanità». Firmato Dmitry Medvedev, uno dei pochi ad avere commentato finora il nuovo trattato firmato dal Cremlino, l’ex enfant prodige della politica russa che all’estero gode ancora di ampia visibilità proprio in virtù delle sue invettive senza freni. La doppia narrazione andrà avanti a lungo, anche in Russia. Con i cavalieri dell’apocalisse sempre in prima fila.

martedì 19 novembre 2024

Elezioni di svolta. Verso un bipolarismo asfittico

 


L’andamento delle elezioni regionali in Emilia Romagna e in Umbria si presta a diverse riflessioni che vanno ben al di là dell’episodio. Avrà anche ragione Mario Sechi quando fa notare che non può essere questo l’inizio della riscossa destinata a condurre la sinistra al potere. Tuttavia alcuni tra i fatti che si sono verificati in questa occasione rivestono un’importanza notevole. Negli anni Sessanta Giorgio Galli ricorreva alla formula del bipartitismo imperfetto per caratterizzare il sistema politico italiano. Ora forse stiamo andando verso un bipolarismo asfittico. 
Al primo posto troviamo il crollo della Lega in entrambe le regioni. A destra in Emilia Romagna Fratelli d’Italia triplica i suoi voti,balzando dall’8,6 per cento al 23,75, Forza Italia li raddoppia, va dal 2,6 al 5,62, mentre la Lega sprofonda: aveva il 32, scende al 5,29, perde cinque voti su sei. In Umbria Fratelli d’Italia quasi raddoppia i consensi,il 10,4 diventa il 19,55, Forza Italia passa dal 5,5 al 9,31, mentre la Lega si ritrova al 7,72 dopo aver raggiunto il 37 la volta precedente. Si ha un bel dire che le elezioni amministrative sono un’altra cosa rispetto alle politiche, i sondaggi nazionali riflettono in parte una tendenza simile: la Lega ottiene un terzo del risultato attribuito a Fratelli d’Italia. Diverso è il caso dei rapporti con Forza Italia. Nelle elezioni locali Forza Italia supera agevolmente la Lega, mentre nei sondaggi i due partiti sono appaiati. La destra estrema si sta unificando sotto le bandiere della forza politica che ha un radicamento nazionale più omogeneo e che si è attestata su posizioni meno oltranziste rispetto a Salvini e ai suoi seguaci. C’è da chiedersi a questo punto se la Lega riuscirà a mantenere il controllo del Veneto e se non le converrebbe intanto cambiare segretario per poter meglio calibrare le sue scelte di fondo.
Al secondo posto c’è un altro crollo, più o meno annunciato, questo. I Cinque stelle scendono al 4,85 per cento in Umbria e al 3,5 in Emilia Romagna. Le pretese egemoniche di Giuseppe Conte appaiono quanto mai ingiustificate, se questa è la misura della forza mantenuta.  Anche in questo caso tanta agitazione e tanti distinguo per sostenere la sfida al maggiore partito della coalizione si sono rivelati inutili, se non controproducenti. La questione di sapere che fine stanno facendo i voti dei suoi dei suoi elettori passati rimane aperta.
Al terzo posto possiamo collocare la ulteriore caduta dell’affluenza: dal 67,6 al 46,42 in Emilia Romagna, dal 64,7 al 52,53 in Umbria. Un sorpasso in discesa. Il fenomeno ha molte cause. La disaffezione per la politica in quanto tale fa certo la sua parte. Altri fattori pesano ugualmente: l’indegna gazzarra a cui si riduce spesso la polemica tra i partiti maggiori, l’allarme per le insorgenze fasciste o comuniste, la disputa sull’antifascismo, le accuse alla magistratura, la trovata dell’Albania come luogo di deportazione per i migranti, le attese frustrate sul terreno delle pensioni, il mantenimento delle accise sulla benzina,e altre bizzarrie. La politica che si accapiglia e non fa, non produce decisioni utili. Ultimo elemento, la rappresentanza introvabile per quegli elettori che si erano lasciati illudere dalle sirene populiste e si ritrovano privi di rappresentanza. L’astensione insomma può essere causata sia da un eccesso che da una carenza di politica. Fratelli d’Italia dopo aver conosciuto una ascesa folgorante nel livello dei consensi sembra aver raggiunto un tetto oltre il quale non riesce ad andare. Forse questo accade per via del persistente legame con le radici fasciste di questa forza politica. Un’altra causa della stasi andrebbe individuata nello straripamento delle tentazioni autoritarie e retrograde. Questo vale anche per la Lega. Gli esempi si moltiplicano: Bandecchi, Delmastro, Valditara. Suscitano scandalo tra gli oppositori, forse rafforzano la coesione della base, difficilmente contribuiscono ad allargare i consensi. Un proverbio napoletano aiuta a capire meglio cosa succede: "trasire ‘e spighette e metterse ‘e chiatto", entrare di fianco e poi allargarsi comodi.
Il grande successo della destra nella sua versione meloniana è consistito nell’assecondare le pulsioni diffuse, nel voler apparire come un riferimento naturale e sicuro. Questo è “entrare di fianco”. I richiami identitari, la faccia feroce, le dichiarazioni roboanti non producono lo stesso effetto. Rassicurano i fedeli, mentre rischiano di spaventare il più vasto pubblico. Se la destra si allarga comoda nelle sue espressioni di volontà allarma tutti quelli che pur essendo sensibili alle sue lusinghe non sono troppo convinti e restano allora sulla soglia. Si fa tanto parlare di egemonia. Gli alleati non si conquistano agitando il bastone del comando. Si conquistano adeguando lo stile e le proposte alle loro esigenze e alle loro aspirazioni.   

lunedì 18 novembre 2024

Penelope





Sì, vediamo anche con il corpo, un corpo che abita lo spazio e rende la visione un tutt’uno con l’esperienza. Per questo non lascia indifferenti entrare nel Foro Romano e sentire l’impatto col tempo, la meraviglia per l’inverosimile sopravvivenza di cose antiche, pur nella versione consumabile in cui si presentano oggi. Si passa così sotto le colonne del tempio di Faustina e Antonino Pio – il vociare dei turisti, il cielo di vetro – e dopo poco ecco l’ingresso del Tempio del Divo Romolo.

È uno dei due siti in cui si sviluppa la mostra Penelope (a cura di Claudio Franzoni e Alessandra Sarchi, fino al 12 gennaio 2025) nel Parco archeologico del Colosseo. Un luogo straordinario. Nella grande aula rotonda si innalza una sorta di schermo semicircolare di legno, un’intelaiatura attorno agli oggetti, ai dipinti, agli affreschi che ripercorrono il mito della regina di Itaca dall’età classica fino ai giorni nostri. Fasce di stoffa bianche, rosse e nere intrecciate tra i pali, riquadri di tessuto tesi tra le assi: l’allestimento ha un chiaro valore metaforico. Gli spettatori entrano nell’impalcatura-telaio, oltrepassando simbolicamente quell’antica tela mai compiuta, soglia di una dimensione immaginaria. Si cammina lungo una passerella e la cadenza dei passi sul legno ricorda ancora una volta il gesto mai definitivo di Penelope – alzare il liccio, far passare il filo, avvicinare il pettine, ancora e ancora.

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Allestimento della mostra.

L’impostazione data dai due curatori appare essa stessa una tessitura, essendo il filo di trama la disposizione cronologica delle opere e l’ordito i nuclei tematici suggeriti nelle diverse sezioni per illuminare i tratti peculiari del personaggio; la Penelope dolente, velata, la Penelope che sogna e attende, la moglie regina al potere e ancora le sfumature del suo essere donna (per un mio recente ritratto di Penelope, leggi qui). D’altra parte, proprio la complessità e il mistero legati al personaggio hanno contribuito alla fortuna del mito e stimolato le sue numerose reinterpretazioni, facendo prevalere un tratto o l’altro a seconda dell’epoca e dei valori culturali di riferimento.

La mostra non è solo una affascinante ricostruzione storica e filologica dell’iconografia di Penelope, ma riflette al tempo stesso su come si è evoluta la fascinazione per la sua figura e pone implicitamente agli spettatori la domanda: cosa può dirci, oggi, il mito di Penelope? Ci tocca di più la sofferenza della persona o la psicologia della donna, la cifra morale o una rilettura politica del suo ruolo? L’operazione si interroga anche su un’altra interessante questione, quella del rapporto tra letteratura e immagine. Le due sfere sono in una relazione complicata, si direbbe, perché, come scrive Claudio Franzoni nel bel catalogo che accompagna la mostra, “quando c’è di mezzo una grande pagina letteraria siamo portati a pensare alle immagini come mere traduzioni visive, eppure questo non succede quasi mai, poiché l’uno e l’altro medium hanno un loro autonomo meccanismo narrativo”. Così, ad esempio, nonostante nell’Odissea Penelope non sia mai descritta nell’atto di tessere (quando inizia il poema l’inganno della tela è già stato scoperto), questa è proprio la raffigurazione più frequente dal tardo Medioevo a oggi.

Il testo omerico precede del resto di vari secoli le prime immagini di Penelope arrivate a noi; solo verso la metà del V secolo a.C. gli artisti figurativi mettono a punto un’iconografia della regina che ne privilegia l’aspetto umano. Ne è un esempio il vaso attico di Chiusi, risalente al 440 a.C. circa, tra pezzi più antichi dell’esposizione: Penelope appare seduta, la mano sinistra appoggiata allo sgabello, la destra preme la guancia e forse asciuga le lacrime. Anche le crepe della terracotta dicono la sua sofferenza, quando finirà la pena? ll corpo richiuso su sé stesso, dolorante di nostalgia: Telemaco, in piedi di fronte a lei, non può davvero avvicinarsi, né capire la madre, donna sola al mondo, sola di giorno e di notte. Alle loro spalle il sudario di Laerte, incompiuto, dà la misura del silenzio, anni vuoti pieni di fantasmi. Pende dalla staffa come il braccio del Cristo morto, triste. Il disegno ha permesso di ricostruire un modello a grandezza naturale visibile in mostra ed è una sorpresa trovarsi di fronte allo stesso telaio, noi oggi lei allora, percepire le proporzioni, immaginare l’ampiezza dei movimenti.

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Telemaco e Penelope, skýphos attico, 440 a.C. circa.

E poi l’idea del tempo che consuma il corpo – onda e risacca, speranza e sconforto – anche quando il corpo è di pietra. Tra le opere più struggenti, una testa di Penelope dal Tevere, copia romana del I secolo d.C. Si riconoscono appena i tratti del volto e commuove; una profonda spaccatura orizzontale le cuce gli occhi, lacrime secche, la bellezza scivolata altrove.

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Testa di Penelope, dal Tevere, copie romana del I secolo d.C.

Il velo è l’elemento su cui insiste una serie di raffigurazioni. La donna si copre ai pretendenti che l’attendono nella sala, questo ci si aspetta da lei nel suo ruolo: riserbo e pudore. Ma il nascondimento ha sempre un legame con la seduzione e Penelope sa di essere bella, elude: tenere sospeso il regno è la formula del suo potere.

Proseguendo il percorso, il visitatore trova reperti in bronzo, gioelli, rilievi in terracotta. Due meravigliosi frammenti di un affresco proveniente da Pompei del I sec d.C. raccontano gli episodi forse più carichi di tensione narrativa del poema omerico. Nel primo, Euriclea riconosce Ulisse nel mendicante a cui lava i piedi; nel secondo, Penelope incontra il marito, punto decisivo in cui si decide per lei – per noi – la totalità del suo mondo, se le cose abbiano o no un senso, se si possa resistere alla fine del dolore, se il desiderio sopravviverà al suo soddisfacimento. La scena si svolge dentro una casa patrizia, la regina è in piedi, veste una tunica romana, mentre Ulisse porta il copricapo di feltro della tradizione iconografica antica; ancora una volta le immagini fondono i piani temporali, creano, seguono percorsi autonomi distanti dal testo omerico.

Collocare un oggetto nello spazio non è mai gesto innocente e talvolta riaffiora l’inconscio del luogo, dal dialogo tra l’opera e ciò che sta attorno. Un originale perduto, di cui vediamo in mostra una riproduzione, una statua di Penelope dolente ha come sfondo l’affresco di una Madonna in trono con Bambino tra i Santi Medici. Ne risulta un corto circuito iconografico interessante, anche perché nel mondo medievale si impone una Penelope non più astuta, ma devota, come ad esempio nelle miniature illustrate del De mulieribus claris di Boccaccio: una casta donna coperta da un manto azzurro, emblema della virtù cristiana, modello di pudicizia. 

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Ricostruzione del tipo statuario antico della Penelope dolente, 2005-2006.

I due padiglioni delle Uccelliere Farnesiane sul Palatino ospitano la seconda parte della mostra, con i dipinti e i disegni più recenti. In epoca moderna, la raffigurazione di Penelope prende le strade più diverse; all’interpretazione del testo omerico prevalgono le ragioni dell’epoca nonché l’intenzione dell’autore. Abbiamo così la Penelope guerriera, regina dei serpenti, in abito da amazzone a seno scoperto disegnata da Georges-Antoine Rochergosse. Oppure la Penelope di Leandro Bassano: la giovane tesse nella penombra al lume di candela, medita, la nostalgia diventa un nido dolcissimo in cui appartarsi. Oppure ancora la bella Penelope secentesca di Pellegrino Pellegrini da Fanano, con occhi che guardano altrove, il realismo dei dettagli e nel complesso una quotidianità pervasa di sentimento.

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Angelika Kauffmann, Penelope piange sull’arco di Ulisse, 1779 circa.

“Nessuno ha mai indovinato che il mio corpo era intento e teso, nessuno ha mai indovinato il bisogno che provavo di offrire il mio essere, completamente, a un altro essere” (La vita di Angelica KauffmanAlla ricerca del bello e dell'amore, Leros Pittoni). Potrebbero essere le parole della stessa Penelope, invece è lo sfogo di Angelika Kauffmann, tra le più ammirate pittrici del Settecento: forse nella regina greca riconosce sé stessa, donna desiderante… l’infelicità? Non essere nel posto in cui vogliamo essere. Incalzata dai Proci, Penelope ha deciso di porre fine all’attesa e di risposarsi e per scegliere uno dei pretendenti ha indetto una gara, ma il suo corpo appartiene a un altro piange sull’arco di Ulisse. Il talamo rosso, la voglia di lui, il dolore ovunque.

Tessitura, textum, trama: il legame etimologico tra queste parole rende articolata la metafora della tela (per un approfondimento leggi qui), la lega al canto, alla scrittura, dunque al tempo. La portata simbolica della donna al telaio viene qui attualizzata con l’inserimento nella mostra di un omaggio a Maria Lai, l’artista che ha fatto della materia tessile il centro della sua poetica. Le strutture, la disposizione dei fili e le stoffe sono rielaborati con nuova libertà compositiva: il gesto diventa colore diventa materia. Splendido esempio: Errando n. 2. Un gioco di rimandi tra la tela della pittura e la tela ricamata, tra la cornice e il telaio; i fili e il tessuto inscritti nel quadro formano un paesaggio, un disegno sta per manifestarsi ma è ancora incompiuto. Questo spazio di azione, di attesa del gesto, quel che si nasconde tra l’idea e l’atto di metterla in pratica non rappresenta, in fondo, un’autentica possibilità di riscatto?

D’altra parte, il filo possiede grandi “potenzialità metaforiche”, e “malgrado tutti gli sforzi fatti per prendere il congedo da un’immagine del pensare tanto radicata, siamo qui ancora a misurarci con fili virtuali o metaforici che collegherebbero le cose le parole, la coscienza e i suoi contenuti”. (S. Catucci, Sul filoEsercizi di pensiero materiale, Quodlibet 2024. Qui su Doppiozero una recensione).

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Maria Lai, Errando n. 2, 2008.

Di Maria Lai sono poi esposti i libri, certamente tra i suoi lavori più noti. Qui il legame ancestrale tra ricamo e scrittura si rivela con grande intensità. Nelle fibre di parole lanuginose, si impiglia l’eco di antiche narrazioni. Le eccedenze di filo – e forse di frasi – raggrumate a lato della pagina assomigliano a formazioni organiche, alghe, cose primordiali della natura. E così la scrittura si fa motore della creazione, una forza misteriosa, indecifrabile.

Prima di tornare nel mondo, un ultimo sguardo alle opere incastonate nelle teche. Sì, noi vediamo attraverso la griglia del corpo e allora queste geometrie regolari, intrecci tra pali e montanti, stecche perpendicolari, inquadrature immaginarie in una sorta di mise en abyme in cui la struttura-telaio contiene una cornice che contiene un quadro con dentro disegnata la tela incompiuta… Penelope deve essersi sentita così, in una gabbia d’oro, prigioniera del ruolo, del suo desiderio, e del volere degli Dei.

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Allestimento della mostra.

Penelope, a cura di Claudio Franzoni e Alessandra Sarchi
Roma, Palatino e Foro romano
Fino al 5 gennaio 2025
Catalogo Electa

Leggi anche:
Francesca Zanette | Penelope, un ritratto di donna
Adriana Cavarero | Penelope al Colosseo


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https://machiave.blogspot.com/2024/09/penelope-la-sposa-ritrovata.html

 

Caillebotte, l'impressionismo al maschile





Davide Racca, Gustave Caillebotte, uomini cinematografici, il manifesto, 17 novembre 2024

Nel 1894, all’età di 45 anni, Gustave Caillebotte muore. Lascia allo Stato francese più di sessanta opere, tra dipinti e disegni, parte delle quali – Le Balcon di Manet, Bal du moulin de la Galette di Renoir, una tela della serie La Gare Saint-Lazare di Monet, solo per citarne alcune – costituiscono la prima galleria impressionista al mondo. Quando, infatti, dopo tre anni, per accoglierle, viene inaugurata una nuova galleria al musée du Luxembourg di Parigi, solo la metà di esse viene esposta. Subito monta l’«affaire Caillebotte», conteso tra i sostenitori dell’accademismo, timorosi per l’entrata di quel tipo di opere nell’anticamera del Louvre, e i sostenitori della modernità, offesi perché il lascito non è stato pienamente accettato.

In realtà la scelta di un numero inferiore di opere è il frutto, oltreché di questioni di spazio, di trattative tra l’amministrazione des Beaux-Arts e gli eredi della famiglia Caillebotte. In particolare, Martial, fratello minore dell’artista, e Renoir, esecutore testamentario del pittore, hanno insistito perché anche alcuni dipinti di Gustave fossero aggiunti al lascito. Tra questi Raboteurs de parquets, del 1875, che entrambi considerano il suo capolavoro.

Che sia stata questa l’opera rifiutata al Salon di quell’anno, non è dato di saperlo con certezza. Si sa invece che, ammesso all’École des beaux-arts dopo una formazione nell’atelier di Léon Bonnat, Caillebotte, a seguito di tale rifiuto, si unisce al gruppo degli impressionisti, di cui condivide la voglia di voltare le spalle alla tradizione accademica per rappresentare la società del loro tempo e la loro stessa esistenza.
Raboteurs de parquets è la prima opera matura dell’artista, che rappresenta tre piallatori di parquet in un interno borghese parigino, còlti nel momento in cui la luce accentua la tensione muscolare della loro azione e l’elasticità dei trucioli sparsi sul pavimento. Notevoli gli studi preparatori a matita per il dipinto, che denotano l’interesse dell’artista per la rappresentazione realistica del corpo degli operai, e della fatica del loro compito. Un’opera, questa, che può essere letta anche come l’espressione di un ideale maschile moderno, repubblicano, fondato sull’idea dello sforzo collettivo, del lavoro, dell’uguaglianza e della fraternità.

E in effetti, rispetto ai suoi compagni impressionisti, sorprende la predilezione di questo artista per le figure maschili. All’epoca in cui Manet dipinge parigine vestite alla moda, Degas, lavandaie e danzatrici, Renoir, donne al ballo o al bagno, Caillebotte, dal 1876 in poi, dà figura perlopiù ai parigini in cappello a cilindro e ombrello, come nella prospettiva radiale in perfetto stile Haussmann di Rue de Paris; temps de pluie; ai Canotiers immersi in uno spettro audace di blu e gialli nel verde fluviale, con cappelli di paglia nello sforzo di remare, o nel quieto lasciarsi trascinare dalle correnti; ai pittori edili, nell’assorta concentrazione dei Peintres en bâtiments; ai Jardiniers, mentre innaffiano le piante tra le geometrie di un’orto; alla sua cerchia di amici celibi, ritratti singolarmente, o còlti in dinamiche collettive di gioco.
Caillebotte è consapevole che, per portare una rinnovata sensibilità maschile al centro della modernità artistica, serve sì introdurre figure inedite come il lavoratore urbano, l’uomo al balcone che contempla i viali da nuove altezze, i bagnanti e i canoisti che si divertono in campagna. Ma lo sguardo sugli uomini deve essere sostenuto anche da scelte artistiche audaci, come le inquadrature con viste di schiena, e i primissimi piani molto ravvicinati ai suoi soggetti.

È il caso di Jeune homme à sa fenêtre, in cui l’artista rappresenta il fratello minore, René, di schiena, con le mani nelle tasche, mentre osserva la strada dalla finestra dell’hotel di famiglia all’incrocio di Rue de Miromesnil e Rue de Lisbonne. E di Partie de bateau, quadro che Monet avrebbe preferito a Raboteurs de parquets per rappresentare l’artista al musée du Luxembourg, che ritrae il primissimo piano di un borghese parigino con cappello a cilindro nell’atto di remare sul fiume Yerres, vicino alla residenza di villeggiatura della famiglia Caillebotte. Questi due dipinti, presentati rispettivamente durante le esposizioni impressioniste del 1876 e 1879, propongono effetti di composizione radicalmente nuovi per la pittura dell’epoca. Il modo di tagliare lo spazio pittorico, si è detto, ha del cinematografico. Caillebotte vuole modificare le abitudini visive dello spettatore per meglio sottolineare la modernità di queste scene e gettare una nuova luce sulle figure maschili.

Oggi, questo rinnovato studio sull’uomo Caillebotte sensibile alle figure maschili del suo tempo, oltre alla recente entrata di Partie de bateau nella collezione del musée d’Orsay, di Jeune homme à sa fenêtre nella collezione del J. Paul Getty Museum, e al restauro del capolavoro Rue de Paristemps de pluie realizzato all’Art Institute of Chicago, giustificano l’esposizione Caillebotte. Peindre les hommes, in corso al musée d’Orsay fino al 19 gennaio 2025. La mostra, in coproduzione col J. Paul Getty Museum e l’Art Institute of Chicago, dove andrà di seguito, è curata da Allan Scott, Gloria Groom e Paul Perrin, che insieme ne curano anche il catalogo (Éditions Hazan, pp. 256, € 45,00).

In questo contesto espositivo e di studio, un ruolo singolare spetta sicuramente all’opera Partie de bézigue del 1881, che, unico ritratto di gruppo maschile di Caillebotte, raffigura l’atmosfera di cameratismo del suo circolo di scapoli. In ciascuno di questi uomini si sente la concentrazione mentale e la tensione dei giocatori di bazzica. L’unico in disparte è l’amico Paul Hugot, in secondo piano sul divano, lo sguardo nel vuoto, la cui distrazione serve a mettere in risalto la coesione e l’energia psicologica del gruppo.

Secondo l’interpretazione di Bridget Alsdorf in catalogo, quest’opera assume un significato particolare in un momento in cui il gruppo impressionista è sul punto di sciogliersi. In fondo l’opera rappresenterebbe l’intimo desiderio di Caillebotte di una maggiore coesione tra gli impressionisti, invece del momento di depressione vissuto a seguito delle defezioni dell’esposizione del 1881 e dei profondi disaccordi con Degas.

La rappresentazione di una nuova sensibilità maschile in Caillebotte passa disinvolta dalla complessa psicologia di gruppo alla cruda concentrazione sul corpo del singolo. Ed ecco Homme au bain del 1884, dove viene ritratto un uomo nudo di spalle che si asciuga dopo aver fatto il bagno. La sua figura, dalle gambe divaricate e il sedere ben in vista, costituisce il punto focale dell’intero quadro. L’interno della sala è sobrio, l’arredamento minimale, i suoi vestiti sono poggiati su una sedia ordinaria. Va detto che il nudo maschile al bagno, a differenza di quello femminile, è una rara rappresentazione artistica all’epoca, anche tra gli impressionisti. Un precedente significativo di nudo maschile colto di schiena è sicuramente Le Pêcheur à l’épervier, del 1868, del pittore – morto giovane – Frédéric Bazille. Come in quest’opera, il soggetto ritratto da Caillebotte non è consapevole della presenza dello spettatore, e ciò innesca un meccanismo voyeuristico scandaloso per l’epoca, e una dinamica in qualche modo erotica che mette in questione le granitiche convenzioni di genere.

Ovviamente non si discute qui della sessualità di Caillebotte, di cui si sa poco. Piuttosto ne va della sua grande sensibilità di artista. Perché, come scrive a Pissarro nel 1881: «I veri argomenti di un pittore sono il suo dipingere».