Franco Antonicelli, nel suo racconto del confino, parla delle ottave cilentane. Esistono ormai diverse raccolte di
canti popolari pubblicate da editori improbabili che sembrano
inventati per l’occasione: Assessorato al Turismo della Regione
Campania, Urania, A. Testaferrata, Poligraf art grafiche, Edizioni di
storia e folklore del Cilento, Thyrus, Centro di promozione culturale
per il Cilento.
Ecco
i testi principali:
Guido
Gugliucci, Canti
e itinerari cilentani,
1954;
Giuseppe
Stifano, Canti
popolari cilentani,
1973;
Giovanni
Rizzo, Raccolta
di canti popolari cilentani,
1977;
Giuseppe
Stifano, Canti
sociali e politici del Cilento,
1978;
Giuseppe
Mollo Antonio Orlando, Strambotti:
canti e proverbi cilentani,
1990;
Enrico
Renna, Carmina
Cilenti,
1995;
Canti
cilentani di Caterina Scarpa,
con il patrocinio del Comune di Ogliastro Cilento, 2010.
Nessuno
di questi libri è presente in una biblioteca dell’Italia
settentrionale. Tre si trovano alla Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze: Gugliucci, Strambotti
di Mollo e Orlando e i Canti cilentani di Caterina Scarpa. C’è da
sperare che vi sia un giorno un etnomusicologo disposto a riprendere
questi materiali per fare il punto e pubblicare un testo più
largamente accessibile. Nel 1978, Silvana Pepe e Giovanni Pico
pubblicarono un volumetto dal titolo: Torchiara:
canti e tradizioni
(Tipografia Europa, Salerno). Contiene una cinquantina di pezzi che
spaziano dal tema dell’amore variamente declinato alla devozione
religiosa. Uno riecheggia Fenesta
ca lucive,
ma fa rimpiangere l’originale napoletano. Due sono i temi trattati:
l’amore e la fede religiosa.
Rispetto alla canzone napoletana, una
differenza salta all’occhio. La canzone napoletana sembra
appartenere a un mondo in cui le differenze sociali non contano. Era
de maggio, O' sole mio, ‘E spingule francese, Comme facette mammeta,
‘O surdato nnammurato esaltano la meraviglia dell’esistenza
femminile di fronte al desiderio del maschio. Lui corteggia, lei si
lascia corteggiare.
Nei
canti cilentani, invece, prevale la semplice esibizione del desiderio, con qualche accenno ogni tanto ai problemi posti dalla differenza
sociale o lavorativa.
Tu
saresti ricca, ma io non è per questo che ti amo.
Bella
nun t’amo pe denari
manco si n’avissi nu trasoro
t’amo
pe stu genio ca me rai
Trasoro
vale tesoro. Genio
è “desiderio”. Nun
tengo genio
sta per non ho voglia. “Non
ti amo per soldi, nemmeno se avessi un tesoro” [e non è detto che
tu ce l’abbia, questo tesoro]. Ti amo per questa voglia che mi
ispiri”.
Ora
è la ragazza a parlare: non voglio sposare un contadino ma un
pastore, per sfuggire al lavoro nei campi e avere la garanzia del
cibo. Questo dicono con un’altra eleganza le metafore del testo.
Mamma
nu lu voglio lu ualano
vogliu nu pasturiello ca me cummene
lu
ualanu me porta a zappare
lu pasturiello a la seggia me
tene
vene nu iuorno ca nun tene pane
na ricuttella fresca
me mantene.
Ualano
sta per “galano”, gualano
[voce dei dial. merid., dal provenz. galan «giovane,
garzone»]: nell’Italia meridionale, lavoratore agricolo a
contratto annuo, addetto alla custodia di terre o alla cura e al
governo di animali (equini e bovini) che impiega nei lavori di
trasporto o di aratura (Treccani). Cummene
= conviene. Seggia
= sedia. Iuorno,
giorno.
Non
sposare uno di Cicerale, faresti una brutta fine.
Bella
figliola te voglio avvertire
a Cicerale nun te maritare
Lu
primo iuorno vai cu li scarpuni
e lu sicondo li puorci a
guardare
te rano a mangià pane e vezzuni
chistu è lu pane
si lu buò mangià
n’anti voglio esse cuonzo re allina
e
nu a Cicerale me maritare.
Negli
ultimi versi cambia il soggetto. “Questo è il pane se lo vuoi
mangiare” simula una ingiunzione rivolta alla donna dal marito o
dalla famiglia di lui. Poi è la donna a prendere la parola:
“piuttosto voglio essere una scodella di gallina, e non sposarmi a
Cicerale”. Te
rano a mangià pane e vezzuni,
“ti danno da mangiare pane e fave”.
Lui
appartiene a “sangue gentile” e lei è una ragazza di “bassa
mano”.
Uocchi
neurielli chiù de n’auliva,
ccu
bui nun me pozzo apparentare
Mamma toa m’a
mannato a dice
ca
lu figlio suo nun m vole rare.
Vui
pruveniti ra sango gentile
e
io puverella da la bassa mano.
“Occhi
morettini più di un’oliva, con voi non mi posso imparentare. Tua
madre mi ha mandato a dire che non mi vuole dare [in sposo] suo
figlio”. Ciò nonostante, la ragazza alla fine conclude: “Mamma
non vuole e noi ci amiamo”.
C’è
perfino una serenata in cui la fanciulla amata viene vista “morta
di freddo e insonnolita” e allora viene invitata a chiudere la
finestra. Una tale premura concreta sottrae poesia, ma esprime tenerezza e
aggiunge verità al gesto galante.
Tutto
stanotte voglio ì cantanno
mo ca lu lietto mio nun pozzo
rorme
a la funestra me stai aspettanno
morta re friddo e
sceccata r suonno
T preo bella mia trasitenne
nu boglio ca p
me pierdi lu suonno
Io t’aggio amato iuorni, misi e anni
e
mo t’avessa perde p nu iuorno.
“Tutta
questa notte voglio andare cantando, ora che nel mio letto non posso
dormire. Mi stai tutta infreddolita e morta di sonno aspettando alla
finestra. Ti prego, bella mia, rientra [in casa], non voglio che tu
mi perda il sonno”.
Nel
campo della morale sessuale, è interessante la soluzione offerta dal
sogno al problema del contatto fisico: l’innamorato riesce a
contemplare il corpo nudo della ragazza, ma resta prudente nelle
mosse successive.
Sera
passai e tu bella rurmivi
tutto
lu tuovo ciardino caminai
E
te truvai a lietto ca rurmivi
ieri
a la nura e te cummegliai
Truvai
roie labbra gentili
e
pe crianza mia nun le vasai
Ngera
lu fuoco
e
nun me cagliendai.
Per
una volta l’idillio prende forma, emerge una dolce sollecitudine che si esprime in un piccolo gesto e in un atto di muta contemplazione. La chiusura lascia trasparire una certa delusione: c’era il
fuoco e non mi scaldai. Rurmivi,
dormivi. A
la nura:
nuda. Cummegliai,
coprii. Roie, due. Crianza, creanza, educazione, rispetto delle buone maniere. Vasai, baciai. Ngera, c'era.
Si
capisce che quella cilentana è una società dominata dall’assillo
della sussistenza e dall’attenzione per lo svolgimento quotidiano
della vita. Francesco Volpe, nel suo libro sul Cilento nel secolo 17
(Ferraro, Napoli 1981), fa notare la grande importanza che viene
attribuita nella mentalità locale al possesso della roba, della
proprietà e dei
beni materiali.