martedì 15 ottobre 2024

Aleksandra Kollontaj, femminista al tempo dei Soviet

 


Paola Ferretti, Aleksandra Kollontaj, femminista al tempo dei soviet,
il manifesto Alias, 9 luglio 2023

Nella storia del pensiero prerivoluzionario russo è spettato ai movimenti populisti delle ultime decadi dell’Ottocento dissodare il terreno dell’emancipazione femminile proponendo nuovi modelli di donna che mettessero in discussione l’istituto del matrimonio e il concetto di amore come appartenenza, prefigurando l’avvento di una società egualitaria, pacifica e prospera che fosse al contempo al riparo dalla prevaricazione maschile.

Senza quel lavoro strenuo e appassionato sarebbe stata impensabile la comparsa di una figura dirompente come quella di Aleksandra Kollontaj: rivoluzionaria, pacifista, diplomatica, pedagogista e soprattutto paladina di un empowerment femminile ante-litteram, raggiunse traguardi fino ad allora preclusi alle donne nella sfera pubblica, mentre in quella privata inverò l’utopia di liberazione sognata nel Che fare? di Černyševskij.

Un suo intenso ritratto biografico, dovuto a Hélène Carrère d’Encausse – studiosa francese di lungo e prestigioso corso, storica della Russia e dell’Unione Sovietica, voce tuttora interpellata nel nostro travagliato presente – esce ora da Einaudi: Aleksandra Kollontaj. La valchiria della rivoluzione (pp. 168, € 23,00). Un’esistenza lunga e decisamente burrascosa, la sua, passata in parte all’estero, come esiliata per sfuggire alla polizia zarista, come infaticabile congressista nelle città europee ma anche negli Stati Uniti e in Messico, e infine come apprezzata rappresentante dello stato sovietico nei paesi scandinavi (dal ’22 al ’45, sfiorando il Nobel per la Pace per gli sforzi diplomatici volti a placare le ostilità tra Finlandia e Urss nei primi anni ’40).

Pietroburghese, di natali altolocati e di indole impavida, ci lascia un’eredità di pensiero corposa e una lezione di indipendenza riconoscibile nella volontà di restare sempre saldamente al comando del proprio destino e al fianco delle donne: riuscì, nei fatti, a scalfire (almeno temporaneamente) il patriarcato russo, guadagnandosi l’accesso ai vertici della politica e alla diplomazia d’alto rango, scansando le manifestazioni di condiscendenza a colpi di argomentazioni veementi, di posizioni irriducibili e di interventi persuasivi. Varcato il solco sociale a lei predestinato, scardinò i limiti imposti al suo sesso da un rassicurante matrimonio borghese.

La sua azione in favore delle donne si tradusse in una mobilitazione inesausta delle lavoratrici russe, nella fondazione di istituti in loro difesa, in molteplici progetti destinati a instaurare la parità. Si coordinò, soprattutto all’inizio del suo percorso, con le esponenti tedesche, francesi e inglesi della lotta per il suffragio femminile e la conquista di misure di tutela sul lavoro e per la maternità.

Oltre a firmare testi di propaganda e di riflessione teorica, fu autrice di una narrativa di respiro e impegno notevoli (la cui summa è forse Gli amori delle api operaie), per quanto di solito liquidata come didascalica e dotata di un trascurabile appeal romanzesco.

La sua opera di femminista è tanto più ammirevole in quanto incontra una doppia resistenza: non solo quella della società russa tradizionale, ma anche quella all’interno del suo stesso schieramento politico, che considerava le richieste delle donne come marginali, se non addirittura controproducenti, per la causa della rivoluzione prima e dell’instaurazione del comunismo poi.

Alle rivendicazioni di emancipazione si accompagnava, sul piano personale, la ricerca della libertà e della felicità amorosa, perseguita lungo l’affollata galleria di uomini avvicendatisi al suo fianco, dal primo marito Kollontaj – che le lasciò il cognome e un figlio – presto lasciato indietro per dedicarsi agli studi e all’attività politica, ad Aleksandr Satkevič e Petr Maslov, dal giovane bolscevico Aleksandr Šljapnikov al quasi analfabeta marinaio del Baltico Pavel Dybenko, anch’egli ben più giovane di lei. Fino a quel Marcel Body, comunista e diplomatico, che le sarà vicino per lunghi anni nonostante la grande differenza di età.

Le posizioni politiche di Kollontaj scaturivano dalla sua speciale sensibilità per tutti coloro che si trovavano in difficoltà, e il suo impegno per migliorare le sorti del proletariato si consolidò attraverso assidue letture e studi, prima nella capitale russa poi a Zurigo, dove si recò per approfondire il pensiero marxista (tra i tanti incontri, quello con Rosa Luxemburg, da cui rimase abbagliata).

Di iniziali simpatie mensceviche, fu sempre più attratta nell’orbita di Lenin: lo aveva conosciuto già nel 1905 e a distanza di sei anni le loro strade si erano incrociate di nuovo a Parigi; ancora nel 1914 lui la teneva a distanza come menscevica, e allo scoppio della guerra ne deplorò il pacifismo.

Ma all’epoca della rivoluzione di febbraio fu lei a organizzare, dalla Norvegia, il rientro in Russia del leader bolscevico, precedendolo e portando con sé le sue celebri Lettere da lontano destinate alla Pravda.

Per almeno un lustro ne diventerà una sorta di portavoce (non senza passare per un periodo di detenzione nelle carceri di Kresty sotto il governo Kerenskij), guadagnandosi l’appellativo di intrepida «Valchiria della Rivoluzione» per le sue doti di formidabile oratrice capace di trascinare le folle.

Nel governo uscito dalla rivoluzione di ottobre ebbe l’incarico di Commissario del popolo per gli affari sociali, ma alla fine del 1921 si schierò con l’Opposizione operaia, che denunciava l’evoluzione autoritaria del partito, ipercentralizzato e burocratizzato.

Le sue divergenze intellettuali e politiche si traducevano in critiche sempre più radicali, finché con un infiammato discorso al Terzo Congresso del Comintern, nel giugno del 1921, sfidò apertamente il partito giudicando la Nep un tradimento della classe operaia.

Riprendere in mano ancora una volta il filo delle vicende che mutarono la Russia in Unione Sovietica, ma con gli occhi e le aspettative di Kollontaj, come viene fatto in questo libro, vuol dire restituire alla sua figura quella centralità che le fu negata dagli uomini del suo stesso partito e dalla storiografia successiva.

La causa della Rivoluzione ha avuto in Russia un volto di donna che avrebbe potuto imprimere al corso degli eventi un diverso svolgimento, viene da pensare.

Carrère non manca di interrogarsi, nelle Conclusioni, anche sul punto dolente della sua parabola di amazzone della politica: il segreto di un destino privilegiato rispetto alle tante vite spezzate al tempo del Terrore, nel quadro della feroce lotta per il potere di quegli anni.

Nel 1938 la stessa Kollontaj constatava come solo due dei compagni di Lenin di una volta fossero rimasti in vita: Stalin e lei. Aggiungendo (si trattava di una conversazione privata): «Ho capito che la Russia non poteva passare dall’oscurantismo alla libertà in pochi anni. La dittatura di Stalin o di chiunque altro, che avrebbe potuto chiamarsi anche Trockij, era inevitabile».

Di certo, gli esiti della collisione tra rivoluzione e arretratezza, che tanto l’avevano colpita, a distanza di un secolo sono tuttora sotto i nostri occhi, in Russia.

https://www.enciclopediadelledonne.it/edd.nsf/biografie/aleksandra-kollontaj
https://www.marxists.org/italiano/kollontai/eros-alato.htm

Angelica e il vero amore



Marco ErbaAngelica contesa da tanti uomini sceglie (e insegna) il vero amore, Avvenire, 14 ottobre 2024

Nell’Orlando furioso, capolavoro del poeta rinascimentale Ludovico Ariosto, la figura di Angelica si impone subito all’attenzione. Angelica, principessa del Catai (la Cina), giunge in Occidente insieme al paladino cristiano Orlando, uno dei guerrieri più valorosi dell’esercito di Carlo Magno. L’opera è infatti ambientata secoli prima, all’epoca degli scontri tra cristiani e saraceni spesso enfatizzati dalla letteratura. Ma si sa, la narrazione dello scontro di civiltà, sovente finalizzata a consolidare il potere politico, funziona in tutte le epoche.

Per Ariosto però questo scontro di civiltà è solo lo sfondo per narrare meravigliose avventure, con arguta ironia. Non c’è alcun realismo storico nel suo racconto: si parla, ad esempio, dei saraceni che assediano Parigi, un falso così clamoroso da [risultare] divertente.

Angelica, dunque, giunge al campo cristiano. I suoi modi, la sua bellezza orientale, il suo fascino soggiogano moltissimi cavalieri, che dimenticano il re e la guerra santa e desiderano solo conquistare il cuore della principessa. Per Angelica nasce una contesa tra Orlando e suo cugino Rinaldo, altro guerriero valorosissimo. Re Carlo ne approfitta: toglie Angelica a Orlando, la assegna al vecchio e saggio Namo, duca di Baviera, e promette la donna a quello dei due cugini che meglio si comporterà nell’imminente battaglia con i saraceni.

Finora Angelica è solo un simulacro, un oggetto di desiderio. È una donna vista come un trofeo da possedere, di cui si guarda solo l’attraente involucro. Angelica è il desiderio inconfessabile di ciascuno: una bellezza irraggiungibile, e che per questo accende ancor di più di passione. Un seducente corpo senz’anima. La descrizione di Ariosto potrebbe anche oggi interrogarci su come vengono presentati i corpi, sia femminili che maschili, sui social, nella pubblicità, a livello mediatico. Persone o oggetti? Storie o icone? Sostanza o apparenza?

Ariosto vive in una società maschilista. L’uomo agisce, decide, governa. La donna gli appartiene: di essa può disporre. Ma l’autore del Furioso è un genio e spariglia le carte. Angelica non si fa possedere, sfugge. Non solo, si fa beffe di ogni maschio alfa che pensa di poterla dominare.

I saraceni sconfiggono i cristiani. Angelica approfitta del caos, salta su un cavallo e si lancia al galoppo nel bosco. Parte così un infinito inseguimento, senza esito per i paladini.

Angelica a un certo punto si nasconde in un cespuglio, presso al quale giunge Sacripante, re di Circassia, saraceno. Anch’egli è innamorato di lei. Prorompe in un lamento d’amore, senza sapere che Angelica è proprio lì, al suo fianco, e lo ascolta. La principessa decide così di uscire allo scoperto per farsi aiutare. Sacripante, a questo punto, si rivela per ciò che è: uno smargiasso, che pensa di essere in grado di usare gli altri come vuole, grazie al suo potere e alla sua stazza. Sacripante paragona la verginità di Angelica a una rosa e si dice certo di poter cogliere questo fiore. Il guerriero usa parole che alla nostra sensibilità suonano brutali, violente, agghiaccianti:

Corrò la fresca e matutina rosa,

che, tardando, stagion perder potria.

So ben ch’a donna non si può far cosa

che piú soave e piú piacevol sia,

ancor che se ne mostri disdegnosa,

e talor mesta e flebil se ne stia:

non starò per repulsa o finto sdegno,

ch’io non adombri e incarni il mio disegno.

«Mi prenderò Angelica» dice Sacripante. «A lei piacerà; piace a tutte le donne, anche se a volte fingono di no. Ma io non mi fermerò di certo, neanche se mi respinge, tanto è per finta».




Parole atroci e, purtroppo, ancora attualissime: la volontà di Angelica non conta, il consenso non esiste: c’è solo il brutale desiderio maschile. Ariosto si fa beffe di Sacripante. Il rozzo re di Circassia ha appena finito di parlare ed ecco che spunta un cavaliere vestito di bianco. Il nuovo venuto sfida Sacripante a duello, lo sconfigge in un lampo e lo lascia a terra umiliato. Pochi versi dopo si scopre chi è il misterioso cavaliere: è Bradamante, una fortissima guerriera cristiana. Una donna! Il maschilismo brutale di Sacripante viene dunque umiliato da una donna libera, controcorrente, che invece di restare nel ruolo sociale che la società dell’epoca le vorrebbe imporre, decide di combattere e di sfidare gli uomini alla pari, sconfiggendoli. Un’icona affascinante, che anticipa di secoli le lotte per l’emancipazione femminile. Sacripante, ferito nell’orgoglio, vedrà sfuggirsi anche Angelica poco dopo, quando a lui si contrapporrà in un nuovo scontro lo stesso Rinaldo, in precedenza citato. Tutti si battono per possedere Angelica e lei fugge sempre, ricordandoci che l’amore è dono reciproco, non è mai cattura e conquista.

Dopo mille peripezie, anche Angelica troverà l’amore. E accadrà non con un guerriero oberato di trofei, non con un tronfio cavaliere pieno di sé, non con qualcuno che indossa una impenetrabile armatura. L’amore non tollera corazze, non può riguardare gli egolatrici incapaci di sentire e vedere l’altro. L’amore è dono, appunto. L’amore è tenerezza, è compassione, è cura. Per questo i poeti spesso paragonano l’amore a una ferita: è un modo iperbolico per dire che amare significa sentire l’altro dentro, provare la sua gioia, ma anche essere disposti a condividere la sua sofferenza.

L’amore vero di Angelica nasce dalle ferite. Ferite che Medoro, un oscuro fante saraceno, ha subìto perché sorpreso dai cristiani mentre era impegnato nella nobile impresa di dare sepoltura al corpo del suo re Dardinello, caduto in battaglia e dimenticato. Medoro è una persona nobile d’animo e generosa: l’amore si radica nella parte più bella di noi e la risveglia. L’amore rifiuta le dinamiche di potere.

Angelica si imbatte in lui, quasi morto; lo cura, grazie alle tecniche mediche che ha imparato in Oriente. E lì accade un miracolo:

Quando Angelica vide il giovinetto

languir ferito, assai vicino a morte,

che del suo re che giacea senza tetto,

piú che del proprio mal si dolea forte;

insolita pietade in mezzo al petto

si sentí entrar per disusate porte,

che le fe’ il duro cor tenero e molle,

e piú, quando il suo caso egli narrolle.

Angelica, a poco a poco, si scopre innamorata di Medoro. Prendendosi cura di lui più che di sé stessa, donandogli ciò che ha, scopre un amore ben diverso da quello preteso dagli arroganti paladini. Un amore autentico:

Assai piú larga piaga e piú profonda

nel cor sentí da non veduto strale,

che da’ begli occhi e da la testa bionda

di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.

Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;

e piú cura l’altrui che ’l proprio male:

di sé non cura, e non è ad altro intenta,

ch’a risanar chi lei fere e tormenta.

Angelica «più cura l’altrui che il proprio male». Amare non è dimenticarsi di se stessi, non è umiliarsi: amare è però mettere il bene dell’altro al primo posto. Se ciò avviene reciprocamente, il cammino può iniziare.

È Angelica a rivelare il suo amore a Medoro. Anche questo passaggio è contro ogni regola dell’epoca, che vuole che sia l’uomo a chiedere in sposa la donna. Angelica invece fa il primo passo, è contraccambiata: i due si sposano nell’umile casa del pastore che li ha accolti. Un matrimonio antitradizionale, senza riti né banchetti. Un matrimonio semplice, che punta all’essenza. L’amore rende liberi, non si fa rinchiudere in schemi. L’amore apre avventure nuove, non è una storia già scritta.

Angelica e Medoro partono insieme. Orlando, il grande paladino che in virtù del suo valore e della sua smisurata forza si credeva in diritto di possedere la principessa del Catai, giunge nei pressi della casa del pastore, nei luoghi in cui è sbocciato l’amore tra i due. Quando scopre cosa è accaduto, si dispera, si strappa la corazza, distrugge tutto ciò che incontra, ormai folle. Rivedrà Angelica tempo dopo, emergendo nudo dalla sabbia della spiaggia di Tarragona: la principessa sta per caso passando di lì con Medoro. Orlando la insegue, cerca di catturarla; lei gli sfugge per l’ennesima volta. Ma la cosa terribile è che Orlando, ormai pazzo, non la riconosce nemmeno:

Come di lei s’accorse Orlando stolto,

per ritenerla si levò di botto:

cosí gli piacque il delicato volto,

cosí ne venne immantinente giotto [desideroso].

D’averla amata e riverita molto

ogni ricordo era in lui guasto e rotto.

Gli corre dietro, e tien quella maniera

che terria il cane a seguitar la fera.

Il suo inseguimento è bestiale. Orlando vede un “delicato volto” e lo desidera. Non vede la persona, non la riconosce, perché la passione egoistica e il desiderio di possesso nulla hanno a che fare con l’amore. Lo stalker non vede l’altro, non lo riconosce. Vede solo il suo desiderio, vede solo sé stesso.

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Sembra una favola a lieto fine. Nelle intenzioni dell'autore vuole essere una parabola, come le parabole evangeliche. Se però si lascia cadere l'interesse prevalente per la narrazione e si guarda al modo in cui sono presentati e si muovono i personaggi, allora si scopre un diverso contenuto del testo. Quelle che appaiono in successione sono figure del desiderio. Prima compare il desiderio astratto che nasce dalla contemplazione del simulacro, dalla bellezza che riluce e attira. E c'è anche la rivalità tra gli spasimanti, due cugini per nulla impressionati dalla parentela che li unisce. Poi compare Sacripante, lo smargiasso che vorrebbe possedere la fanciulla, uno stalker, si direbbe oggi. Viene tolto di mezzo da un'altra donna, Bradamante. Le figure femminili avanzano in primo piano e diventano protagoniste. Le vie dell'amore sono a volte tortuose, Angelica si trova davanti a Medoro, che non è in quel momento un maschio aitante nel pieno possesso delle sue facoltà, è "quasi morto". Lo cura, lo restituisce alla vita e se ne innamora. Il desiderio ha cambiato sesso, è diventato un fatto femminile. È lei che si fa avanti. In pieno Cinquecento, e in un ambiente popolato di cavalieri in armi, non è male. Al povero Orlando non resta che impazzire. Prende il posto di Sacripante, ora è lui lo stalker, il persecutore, prigioniero di un desiderio che non va oltre la sua persona e gli impedisce di vedere l'altro.   


lunedì 14 ottobre 2024

Se un giornale non trova il suo pubblico


Lettera alla redazione di Domani

Ieri non sono riuscito a comprare Domani, c'era il supplemento che non mi interessava e allora il prezzo (4,30 euro) mi è sembrato eccessivo. Ho rimediato oggi, prendendo il quotidiano al prezzo di un euro e ottanta. Ho aggiunto la Repubblica, che con il supplemento Robinson costava 2,70 euro: spesa totale 4 euro e 50. Da un certo tempo sono scontento di Domani e vorrei spiegare perché. Capisco, il giornale non ha i mezzi propri di un grande quotidiano. Però è di una povertà desolante. Sulla Repubblica la notizia che apre la prima pagina riguarda le tasse. Un argomento che interessa tutti o quasi i lettori. Che cosa trovo sulla prima pagina di Domani? Arianna Meloni spiata e la Meloni soffia sul complotto. Ammettiamo pure che Giorgia Meloni stia esagerando, alzando un polverone, confondendo le carte. A chi interessa? Cosa cambia? La denuncia del complotto è una litania quotidiana, ripetitiva e stancante. Siete veramente obbligati a seguire la presidente del consiglio su questo terreno? Va bene, voi cercate di smentirla, ma non fate che aggiungere rumore al rumore. Non vedo la notizia. Stessa cosa per i Cpr in Albania. Sembra che stiano per aprire - apprendo dalla Repubblica, che segnala anche la possibile sentenza negativa della Corte europea. Domani, invece, punta sullo scandalo eventuale: ombre sugli appalti. Un'altra non notizia. L'editoriale è affidato a Rino Formica, un trapassato che lancia un generico avvertimento. Altro buco nell'acqua. Su la Repubblica trovo Amato che rimette in discussione la scelta di Marini per la Consulta. Amato è stato presidente del consiglio e giudice costituzionale. Non è un qualsiasi Cirino Pomicino, come Rino Formica, è paragonabile, tra gli ex democristiani, a Casini, presidente della Camera non tanto tempo fa, capo partito nell'Udc in un'epoca non troppo lontana. Marco Damilano interviene poi sulla reputazione del governo nel mondo. Altro avvertimento. Prima pagina in basso: tre annunci. Al centro trovo "Analisi": Dividere e distrarre gli scontenti. Consigli a una Forza Oscura. Non ho capito l'allusione, avrei preferito un riferimento chiaro. Altro annuncio, l'articolo di una filosofa sul femminismo. L'ho poi scorso e l'ho trovato interessante. Non riguarda l'attualità immediata, è un rimando al contesto della nostra epoca. Ora, Domani non è la Rivista studio, non è la Civiltà Cattolica. È un quotidiano. Mi spiace, sui fatti del giorno imparo molto di più ascoltando un giornale radio o la trasmissione Prima pagina su Radiotre che non guardando la vetrina di Domani. Potrei continuare esaminando il giornale pagina per pagina. Mi sembra di averla fatta già abbastanza lunga. Se siete arrivati fin qui nella lettura del mio messaggio, vi ringrazio di tutto cuore.

Giovanni Carpinelli


 

Il suicidio di Israele

 



Israele stava già attraversando un periodo di crisi drammatica prima del criminale attacco del 7 ottobre 2023. Grandi manifestazioni chiedevano a gran voce le dimissioni di Netanyahu e del suo governo e il paese era praticamente bloccato. La risposta al gesto terroristico di Hamas con la guerra di Gaza rischia però di essere un vero e proprio suicidio per Israele. Da un lato, infatti, abbiamo l’involuzione del sionismo, o meglio dei sionismi: da quello originario della fine del XIX secolo, passando per quello liberale e favorevole alla pace con gli arabi, fino alla crescita del movimento oltranzista dei coloni e all’assassinio di Rabin. Dall’altro, il resto del mondo ebraico – la diaspora americana e quella europea – si confronta oggi con un crescente antisemitismo che, contrariamente alla propaganda di Netanyahu, non è la stessa cosa dell’antisionismo, ma che certo dalle vicende della guerra di Gaza trae spunto e alimento. Per salvare Israele è necessario contrapporre al suprematismo ebraico, proprio dell’attuale governo Netanyahu, l’idea che lo Stato di Israele deve esercitare l’uguaglianza dei diritti verso tutti i suoi cittadini e deve porre fine all’occupazione favorendo la creazione di uno Stato palestinese. Qualunque sostegno ai diritti di Israele – esistenza, sicurezza – non può prescindere da quello dei diritti dei palestinesi. Senza una diversa politica verso i palestinesi Hamas non potrà essere sconfitta ma continuerà a risorgere dalle sue ceneri. Non saranno le armi a sconfiggere Hamas, ma la politica. (presentazione editoriale)

Anna Foa davanti alla tomba del padre Vittorio nel cimitero di Castagneto a Formia



Anna Foa, come Gad Lerner del resto e altri ancora, mostra come sia possibile mantenere una palese appartenenza all'ebraismo senza per nulla sposare il nazionalismo ebraico inteso alla maniera di Netanyahu. 
Buona parte della soluzione più appropriata del conflitto tra israeliani e palestinesi risiede in un ripensamento delle identità. Sarebbe un compito delle nuove generazioni ed è una speranza per il futuro. Anna Foa si incammina su questa strada, pur essendo avanti negli anni. Intesa in un senso dinamico, la vecchiaia può essere il momento in cui ci si libera dai condizionamenti indesiderati. Vittorio Foa ha avuto in tal senso una splendida vecchiaia e sua figlia non è da meno. 

domenica 13 ottobre 2024

Lolita, una sfida per il lettore



Giuseppina Falco
, Così Nabokov l'enigmista ci lancia il guanto di sfida, la Repubblica, 13 settembre 2024

Lolita è una ninfa. Figura di culto dell'età pagana, la ninfa non è né donna né dea, è uno spirito che ammalia uomini e dei, possederla significa essere posseduti. Humbert con lei esaspera la sua solitudine, chiudendosi in una bolla, vagando attraverso l'America, illudendosi di circuire il tempo senza riuscire a farsi odiare. Lo stile letterario è colto, ironico e magnetico, da un lato in grado di evocare immagini tridimensionali e dall'altro di giocare con le parole, creando una serie di piccoli enigmi (Nabokov era un enigmista), una sfida per il lettore. 


Arianna Marchente, I 60 anni di Lolita, Il Post, 28 ottobre 2015

Lolita, il romanzo di Vladimir Nabokov che racconta l’ossessione semi-incestuosa di un professore di letteratura nei confronti di una ragazzina di 12 anni, fu pubblicato per la prima volta nel 1955, 60 anni fa. Il romanzo parla del professore di letteratura francese Humbert che, con un matrimonio finito male alle spalle, decide di trasferirsi a Ramsdale, una piccola città del New England. Affitta una stanza a casa di una donna sua coetanea, Charlotte Haze, e perde completamente la testa per la figlia dodicenne di lei. Tra i due si crea un rapporto particolare, di estrema complicità, che contribuisce ad alimentare ancora di più l’ossessione di Humbert, fino al punto in cui deciderà di mettere in atto un piano: sposerà la madre di Lolita e alla sua morte diventerà patrigno della bambina.

La storia della pubblicazione

Nabokov impiegò circa cinque anni a scrivere Lolita: iniziò nel 1948 e finì nel dicembre del 1953. Per quasi due anni spedì il libro a diverse case editrici, ma fu a lungo rifiutato: nessuno voleva pubblicare un libro il cui tema predominante a prima vista era la pedofilia. Una delle lettere di rifiuto ricevute da Nabokov riportava questo commento: “Per gran parte è nauseante, anche per un freudiano illuminato… è una specie di incrocio instabile tra una realtà orribile e una fantasia improbabile. Spesso diventa un sogno a occhi aperti nevrotico e selvaggio… Consiglio di seppellirlo sotto una pietra e tenerlo lì per almeno mille anni.”

Eppure dopo molte fatiche a settembre del 1955 Lolita uscì per la prima volta a Parigi e in lingua inglese. A pubblicarlo fu l’Olympia Press, una casa editrice statunitense, allora specializzata in letteratura erotica (pubblicava tra gli altri i libri di Henry Miller), che aveva stabilito la propria sede a Parigi per sfuggire alla censura nazionale. In poco tempo il libro andò a ruba. Tuttavia nel 1956 in Francia Lolita venne ufficialmente vietato e ritirato dalle vendite. Nabokov dovette attendere due anni prima di riuscire a rimettere in circolazione il suo romanzo: nel 1958 Lolita uscì negli Stati Uniti ed ebbe un successo notevole. Nel giro di pochi giorni venne ristampato per la terza volta e divenne il secondo romanzo, dopo Via col vento, a vendere 100.000 copie nel giro di tre settimane. In Italia Lolita uscì per Mondadori nel 1959; dal 1993 viene pubblicato da Adelphi.

La firma di Nabokov

Fin dalle prime pagine del romanzo compare un personaggio femminile molto misterioso, di nome Vivian Darkbloom. “Vivian Darkbloom” è l’anagramma di Vladimir Nabokov, e quindi la firma dell’autore nascosta tra le righe all’inizio del suo stesso romanzo. Una firma nascosta ma al tempo stesso in qualche modo dichiarata perché, sempre nella prima pagina, troviamo questa frase “Vivian Darkbloom ha scritto una biografia dal titolo Il mio Cue”. Cue in inglese significa anche segno, traccia: Nabokov invita il lettore a prestare un’attenzione particolare e a cogliere l’indizio.

Lolita non è Lolita

Il termine “Lolita” è entrato a far parte del linguaggio comune per indicare generalmente una ragazza giovane, sessualmente disinibita e maliziosa. Chi non ha letto il libro però non sa che Lolita non si chiama davvero Lolita, ma Dolores Haze. Soprannominata dalla madre Lo, Lola o Dolly: Lolita diventa Lolita solo in presenza di Humbert, solo attraverso il suo personale punto di vista, e il lettore non ha mai la garanzia che lei sia oggettivamente così, spregiudicata e maliziosa: ne ha solo l’impressione, attraverso una visione filtrata. In questo senso “Lolita” non è altro che l’evoluzione del più generale termine di cui si era spesso servito Humbert in passato, per riferirsi ad altre ragazzine da cui si era sentito attratto: “ninfetta”.

Definire Lolita

Proprio questo aspetto ha contribuito alla categorizzazione del romanzo di Nabokov come “romanzo erotico”. Effettivamente ancora oggi Lolita è largamente definito in questi termini, ma non si tratta di una definizione estremamente precisa, anche e soprattutto perché l’abilità di Nabokov è di trasmettere al lettore l’attrazione ossessiva di un adulto nei confronti di una ragazzina e la relazione morbosa che si crea tra i due, senza mai scadere nella descrizione di rapporti sessuali tra i protagonisti: che ci sono, e il lettore lo sa benissimo che ci sono, ma rimangono essenzialmente nascosti ai suoi occhi. Inoltre i punti salienti della trama non sono di natura erotica. In generale, come osservato da un articolo uscito sul New Yorker, “la visione di una Lolita sensuale, così come l’idea che il libro sia di carattere erotico, non hanno molto a che vedere con il romanzo di Nabokov”.

La sfida delle copertine

Difficile da definire e da etichettare, Lolita è un romanzo estremamente complesso, così tanto da essere considerato uno dei libri che ha messo maggiormente in crisi la scelta della copertina da parte degli editori. La prima copertina di Lolita, quella del 1955, era rigida, color verde militare e con il titolo in nero. Attualmente esistono 185 copertine, ma nessuna viene considerata, da chi conosce bene il libro, pienamente efficace o soddisfacente. La copertina di Lolita è una sfida così grande da un punto di vista editoriale che sul tema è stato scritto perfino un libro.

Le trasposizioni cinematografiche, gli spettacoli teatrali e il musical

Di Lolita esistono due trasposizioni cinematografiche: quella celebre di Stanley Kubrick del 1962 e quella meno famosa del 1997, diretta da Adrian Lyne. Nel mezzo, oltre a una lunga serie di spettacoli teatrali tratti dal romanzo, venne lanciato anche un musical apprezzato dalla critica, con il titolo Lolita, my love. Le due versioni cinematografiche sono accomunate da una rappresentazione molto poco infantile di Lolita, ma sono di base molto diverse: Kubrick infatti ha trasposto in modo preciso l’atmosfera del romanzo di Nabokov, assecondando anche il suo stile, che rende difficile al lettore/spettatore prendere una posizione chiara nei confronti dei due personaggi. Kubrick, come Nabokov, ha inoltre evitato di mostrare l’elemento sessuale che avrebbe potuto urtare lo spettatore. Adrian Lyne invece ha offerto una propria e personale trasposizione di Lolita: una Lolita con la faccia da ragazzina di 12 anni, ma con il corpo e gli atteggiamenti di una donna che ha il doppio dei suoi anni.

Il problema di chiamarsi Lolita

In un’intervista data a Life nel 1964 Nabokov disse: «tra tutti i libri che ho scritto, Lolita è quello che mi ha dato più gioia, forse perché è il più puro, quello più costruito e inventato da un punto di vista narrativo. Probabilmente però sono la causa per cui i genitori hanno smesso di chiamare le loro figlie Lolita. Dal 1965 in giro ci sono molti barboncini che si chiamano così, ma pochi esseri umani». In effetti, stando alle statistiche svolte sui nomi dal governo americano durante i vari censimenti, la popolarità del nome Lolita è stata inversamente proporzionale al successo del libro.  All’inizio degli anni ’60 Lolita si collocava circa a metà della classifica dei 1000 nomi femminili più usati negli Stati Uniti, mentre negli anni ’70 era già scomparso da quella stessa classifica, per tornarci – occupando l’ultima posizione – negli anni ’90. La ragione è semplice: chiamarsi Lolita, socialmente, è considerato un problema.

Lolita nella musica pop

In occasione dell’anniversario la Los Angeles Review of Books, a partire da gennaio 2015, ha pubblicato una serie di interviste a donne, scrittrici, artiste, studiose, sulle sfaccettature del personaggio di Lolita, per capire in che modo e con che significati il termine “Lolita” è entrato a far parte del nostro immaginario comune. In queste lunghe interviste si nota come, soprattutto negli anni Novanta, l’icona di Lolita sia arrivata anche nel mondo della musica pop. Non è emblematico solo il caso della famosa canzone – Lolita appunto – di Alizeé, ma anche il look con cui ha esordito Britney Spears, ispirato a quello della Lolita di Adrian Lyne: basti pensare al video di Baby one more time.

Tra i testi raccolti in Diario Minimo di Umberto Eco è presente anche una parodia di Lolita, scritta nel 1959, i cui protagonisti sono Nonita e Umberto Umberto. Il testo è stato poi tradotto anche in inglese con il titolo Granita. Nel 1996 invece Pia Pera, scrittrice e attualmente blogger, ha pubblicato con Marsilio Diario di Lo: la stessa storia di Nabokov raccontata però interamente dal punto di vista di Lolita. Nel 2011 Luca Ronconi, partendo dalla sceneggiatura che lo stesso Nabokov aveva scritto per Kubrick, porta Lolita a teatro in Italia con il titolo Lolita, prove di un amore. Nel 2013 Stefano Benni, durante una lezione della scuola Holden, ha tenuto un lungo reading notturno di Lolita: la lettura è andata avanti dalle 10 di sera alle 4 del mattino. Benni ha spiegato la scelta dicendo che «vorrei far leggere Lolita a chi ancora non l’ha letto. È l’unica cosa che posso fare, perché se dovessi convincere la gente a leggere Lolita spiegandolo, non ci riuscirei».


Così le sette ragazze appresero, nell'immenso carcere di Teheran, che cos'è la letteratura: non la realtà, ma "l'epifania di ciò che è vero" (Pietro Citati).

https://www.repubblica.it/2004/f/sezioni/spettacoli_e_cultura/libri36/lolita/lolita.html



sabato 12 ottobre 2024

Una regina, una donna, una madre




Una donna fra tante, certo. Una donna dal destino singolare. Una Asburgo che sposa il re di Francia. Una giovinetta svagata e folleggiante che di colpo si trova a vivere una esperienza tragica. La detenzione, la morte del marito, il patibolo al quale lei stessa è condannata. Una donna che è stata a lungo, e già prima della Rivoluzione, oggetto di maldicenza e insulti, perché è stata vista come la straniera, malvagia e perversa. Alla domanda: che cosa aveva di speciale Maria Antonietta? Google risponde: "Maria Antonietta rimane uno dei personaggi genuinamente romantici e maltrattati della storia. Regina compassionevole e madre devota, fece ben poco per meritare il suo tragico destino. Nacque nel 1755, una dei sedici figli dell'imperatrice austriaca Maria Teresa". Quello che colpisce nella sua vicenda è il rovesciamento subitaneo della sorte. Nulla faceva presagire prima del 1789 un destino tanto tanto sfortunato e tragico. La regina di Francia, una volta scaraventata nel turbine degli eventi avversi, si rivela all'altezza del ruolo. Si dice che, di fronte al problema posto dalla mancanza di pane, abbia reagito pronunciando la fatidica frase: "Che mangino brioche". Si tratta in realtà di una leggenda, Rousseau nelle Confessioni attribuisce la frase a una principessa di cui non fa il nome, e non c'è modo di provare che sia stata invece la regina a esprimersi in quel modo.  Quello che, invece, è accertato e sicuro è il fatto che Maria Antonietta con la sua sola presenza e con i suoi atteggiamenti fa saltare gli schemi. Questo vale sia per i suoi contemporanei che per gli storici. Prendiamo Barnave, tra i contemporanei. Questo giovane e fulgido rappresentante del Terzo stato all'Assemblea nazionale sale sulla carrozza che ospita la regina e sua cognata, Madame Elisabeth, dopo la fuga di Varennes. Con lui c'è, bisogna dire, il collega Pétion che non sa bene come muoversi e moltiplica la brutte figure. Barnave al contrario è uomo di mondo, un vero gentiluomo, e si lancia in una conversazione garbata con Madame Elisabeth e con la stessa Maria Antonietta. "La regina fece una sorprendente impressione sul giovane deputato, impressionandolo con il suo comportamento malinconico e la sua raffinata grazia. Anche Barnave ebbe un effetto sulla regina, che in seguito scrisse della sua "eloquenza più animata e accattivante" (Fraser). Ne seguì un fitto scambio di lettere, poi raccolte in un volume di oltre 250 pagine (Alma Söderhjelm, Marie Antoinette et Barnave: correspondance secrète, A. Colin, Paris 1934, 257 p.). Quanto agli storici si può citare il socialista Jaurès che così ritrae la regina sul cammino verso il patibolo: "Cercava un prete rimasto fedele alla Chiesa per poter ricevere da lui la sola benedizione che per lei contasse. Lo riconobbe a una finestra, e si inchinò impercettibilmente. Questo segno leggero poneva tra lei e la folla un abisso più profondo della morte". 
Al di là delle possibili interpretazioni merita poi di essere citato un episodio del processo intentato alla passata regina nell'ottobre 1793. Maria Antonietta in genere risponde con educazione e distacco alle domande che le vengono rivolte. Abbandona ogni cautela quando viene sollevata nei suoi confronti l'accusa di incesto in base a una testimonianza estorta al figlio che è un bimbo di otto anni. Allora l'accusata si scompone e chiede: "Avete assistito?" e non va oltre. Un giurato invita il presidente del Tribunale a riformulare la domanda. Qui Maria Antonietta appare veramente commossa e esclama: "Faccio appello a tutte le madri qui presenti". Questo dice il resoconto del Moniteur. Stefan Zweig e Antonia Fraser dopo di lui forniscono una versione più ampia della replica: "Se non ho risposto è perché la Natura stessa rifiuta di rispondere a una simile accusa lanciata contro una madre. Mi appello a tutte le madri presenti in questa sala". La dichiarazione suscitò un certo sdegno tra le popolane che avevano  assistito alla scena. L'argomento fu abbandonato. Alla fine, la condanna a morte fu pronunciata lo stesso, ma impersonando la madre offesa l'imputata aveva mostrato di sapersi difendere, segnando un punto a suo favore. 
Veniamo ora al famoso disegno tracciato dal pittore David, che da una finestra osserva il passaggio della carretta che conduce al patibolo la vedova Capeto, come viene chiamata. Niente più che uno schizzo, pochi tratti di una grande efficacia. Quella che ci viene restituita è l'immagine di una vecchia signora seduta su un asse di legno con le mani legate dietro la schiena. La condannata si tiene dritta, ha i capelli corti e sul capo reca una cuffia con i merletti. Mostrando sul volto una espressione impassibile, tiene gli occhi bassi. Maria Antonietta aveva allora solo 37 anni, ma sembra molto più anziana. Lo schizzo si presta a una duplice interpretazione secondo Antonia Fraser. Potrebbe essere decifrato "come paradigma di arroganza o di inalterabile calma e dignità, secondo il punto di vista". Maria Antonietta ancora una volta, in punto di morte, sorprende l'osservatore, lo costringe a riflettere. Non era forse quello che ci si poteva aspettare da una spensierata principessa asburgica, ma la traccia che del suo passaggio sulla terra merita di restare è proprio questa.



https://www.ebooksgratuits.com/html/zweig_marie-antoinette.html#_Toc293610681
https://www.barnebys.it/blog/i-ritratti-di-maria-antonietta-di-elisabeth-vigee-lebrun
https://wordpress.com/post/palomarblog.wordpress.com/9965
https://machiave.blogspot.com/2017/08/la-pittrice-e-la-regina.html
https://machiave.blogspot.com/2017/12/il-destino-di-maria-antonietta.html
Antonia Fraser, Maria Antonietta. Il destino di una regina, Mondadori, Milano 2009, Maria Antonietta, Jacques Revel, Maria Antonietta, pp. 251-262, in François Furet - Mona Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione Francese, Bompiani, Milano 1988

Alma Söderhjelm