In antropologia, nello studiare gli aspetti culturali di una società, si utilizzano due punti di vista: etico ed emico. Sgombriamo subito il campo da equivoci: etico non ha nulla a che vedere con la morale, semplicemente rappresenta il punto di vista dell’osservatore esterno, mentre emico è quello del “nativo” interno alla comunità. Per fare un esempio, da un punto di vista etico si può spiegare il tabù della carne suina per ebrei e islamici in termini storici ed ecologici, ma se si chiede a un ebreo e a un islamico perché non mangiano maiale risponderanno perché c’è scritto sulla Bibbia o sul Corano.

Proviamo ad applicare lo stesso metodo alla situazione attuale tra Russia e Ucraina. Premesso che l’invasione russa è un atto criminale, sebbene contestualizzata in una ragnatela di azioni precedenti e meno raccontate, e dichiarazioni di molti leader “volenterosi”, di voler continuare la guerra, si fondano su un’idea di giustizia, di onore, di pensiero di Stato, per cui far tacere le armi oggi, sarebbe disonorevole.

Questa visione, che potremmo definire “etica”, è adottata, ovviamente dal governo ucraino, e da osservatori esterni, non direttamente coinvolti in senso fisico nel conflitto, che ragionano in termini politici ideali, piegando le loro motivazioni anche a ragioni di carattere geopolitico. Quello che manca in questa discussione è l’altro punto di vista, quello dei cittadini ucraini. Proviamo a metterci nei loro panni: dopo tre anni di bombardamenti, dopo centinaia di migliaia di morti, forse preferirebbero davvero finalmente la pace, anche a prezzo di pagare in termini territoriali.

Proviamo a metterci nei loro panni: preferiremmo davvero continuare a subire bombardamenti in nome di una sacralità territoriale oppure la fine di tutto questo e il ritorno alla normalità, anche se c’è da pagare un prezzo. Ma il prezzo da pagare c’è comunque, c’è da scegliere tra la terra e la vita. Mi rendo conto, che questo ragionamento porterebbe a legittimare ogni invasione, ma ogni guerra deve prima o poi finire con una pace e la storia ci insegna che prima questa fine arriva, meno morti ci sono. Veniamo al mondo per vivere, non per combattere, anche se a volte è necessario, ma anche il greco narrato da Primo Levi ne La tregua dice: «Guerra è sempre», non è così.

La comodità di un salotto

La pace si fa con il nemico, per quanto odioso questo possa essere. La si fa per evitare la distruzione totale, il protrarsi in eterno della guerra. La pace è un compromesso, certo, come ogni atto politico. È troppo facile essere integerrimi sulle spalle degli altri, proclamare diritti assoluti, che peraltro sono stati spesso traditi dagli stessi che li evocano: ci dimentichiamo facilmente delle “nostre” invasioni, così come nascondiamo sotto il tappeto quella di Gaza, da parte di un Paese nostro amico.

Chiediamoci, ma soprattutto chiediamo a chi la vive sulla propria pelle, se è meglio una pace “ingiusta” o una guerra “giusta”.

Piccola parentesi, nei dibattiti televisivi i pacifisti sono spesso definiti “da salotto”, come se i sostenitori della guerra fossero tutti in prima linea con l’elmetto a combattere, eppure non risulta che ci sia un George Orwell che va volontario in Spagna a combattere contro i fascisti: «per comune decenza». Inoltre, a parlare di guerra sono in genere maschi di una certa età, che in guerra non ci andrebbero in alcun caso. A proposito di punto di vista emico, chiediamo ai giovani quanto sarebbero disposti a partire per il fronte, come accadde ai loro nonni nel 1940?