domenica 31 luglio 2022
martedì 26 luglio 2022
Non basta dire Draghi
Nadia Urbinati, Ma qual è la proposta elettorale del centrosinistra? Domani, 23 luglio 2022
Al centro-sinistra (al PD) spetta di chiarire subito la proposta elettorale. Mai come ora vale il detto “chi comincia bene è a metà dell’opera”. Cominciare bene significa scongiurare una tentazione: quella di presentarsi come partito-testimonianza del governo Draghi. Questa tentazione è comprensibile visto che il governo appena caduto è stato profondamente sostenuto dal PD, tanto da apparire più una sua espressione che l’espressione di una coalizione anomala. Il PD dovrebbe evitare di trasformare queste elezioni in un plebiscito pro/contro il governo Draghi. Sarebbe una scelta non oculata per almeno due ragioni.
Prima di tutto, perché quel governo è stato di “unità nazionale” e condizionato ad alcuni scopi predefiniti (non da Draghi né dalla stessa coalizione, ma dall’emergenza ben riassunta dal Presidente Sergio Mattarella al momento dell’insediamento) – invece, dalle prossime elezioni dovrà scaturire un governo di parte (di una maggioranza) e che duri un’intera legislatura, per il raggiungimento di scopi che saranno gli attori stessi a scegliere (e per i quali, appunto, chiederanno il voto agli elettori). In secondo luogo, il governo Draghi, benché autorevole nella leadership, dal momento in cui ha raggiunto gli scopi previsti ha mostrato alcuni limiti che sono da evitare, non replicare. Pensiamo in primo luogo alla questione “sociale” – che non è solo di alcune fasce di popolazione ma dell’intera collettività democratica, della sua capacità o meno di prendersi cura di tutti i suoi cittadini equamente e che non può accettare di avere una parte fuori del binario dell’eguale dignità a causa di politiche fiscali e del lavoro che favoriscono alcuni a scapito di altri. L’insoddisfazione sociale per il carovita, i salari da fame e l’endogena precarizzazione del lavoro ha cause antiche. Ma oggi, il punto critico è raggiunto. E il rischio, che chi studia il populismo conosce bene, è che non trovando una rappresentanza a sinistra, questa insoddisfazione sociale si volga a destra.
Qui si misura la differenza tra le proposte della destra e della sinistra – ovvero, la fine del governo di “unità nazionale e di scopo”. Le differenze emergeranno tutte e saranno dirimenti, come lo è il rispondere alla questione sociale con politiche di inclusione, di reddito di cittadinanza (pur riformato), di eguali opportunità di trovare lavoro e di poter contare su salari decenti. All’opposto, una risposta che fa perno su ideologie di esclusione, xenofobiche e di disprezzo delle minoranze, che predica la flat tax e strizza l’occhio agli evasori fiscali, sarebbe non solo ingiusta ma una rovina per le nostre finanze. Questo non è il tempo di un plebiscito sul governo Draghi, anche perché la polarizzazione che scatenerebbe andrebbe a tutto vantaggio delle posizioni estreme, che oggi trovano casa sicura a destra (dopo che si è alleggerita del centro).
venerdì 22 luglio 2022
Quel che resta di Draghi
Quel che resta di Draghi
Marco Damilano, In Aula Draghi diventa il banchiere del popolo. Chi raccoglierà la sua eredità?, Domani, 21 luglio 2022
L’ultima immagine prima del voto di fiducia è tutti in piedi, la confusione, la conta del numero legale, il capannello attorno al presidente del Consiglio Mario Draghi ai banchi del governo. Si potevano soltanto immaginare i pensieri del banchiere che ha scherzato sul suo cuore, provare a indovinarli in una seduta interminabile come un supplizio, nei gesti impercettibili, in un momento di stizza verso il microfono non funzionante, nella solitudine in cui si è immerso per tutta la giornata, in silenzio tra i ministri Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini. Veniva in mente una scena di quattordici anni fa, anche quella volta nell’aula del Senato della Repubblica. «Stare qui non è testardaggine, è coerenza, non si fugge davanti a un giudizio. Dobbiamo toglierci di dosso questo fango, anche per questo sono qui», disse il premier dell’epoca Romano Prodi.
Era il 24 gennaio 2008, dopo una seduta segnata dagli sputi, gli svenimenti, la mortadella e lo spumante. «Meglio perdere che perdersi», commentò il prodiano Arturo Parisi. Il senatore Franco Turigliatto, il trotzkista, votò no, tra le ovazioni della destra, la scena si è ripetuta, questa volta è stata la capogruppo del Movimento 5 stelle Mariolina Castellone ad auto-licenziarsi con un allegro «togliamo il disturbo», che spalanca le porte a un voto anticipato con un probabile successo della destra guidata da Giorgia Meloni, la vera vincitrice della giornata, che si affaccia in piazza mentre nel palazzo si consuma il dramma.
La moltiplicazione dei no
Tolgono il disturbo. Il «miracolo civile» del governo di unità nazionale non si è ripetuto, si è capovolto nel suo opposto, nella moltiplicazione dei no. Lo sfarinamento invocato da Draghi nel suo discorso di apertura, una citazione di Rino Formica di una crisi di governo di quarant’anni fa, diventa alla fine una valanga, una slavina.
Esce dall’aula Forza Italia, esce dall’aula la Lega, escono dall’aula i Cinque Stelle. Votano solo in 133, in appena 95 danno la fiducia più striminzita al presidente della defunta unità nazionale. Finisce così la legislatura più folle della storia repubblicana che potrà vantare come unico risultato il taglio del numero dei parlamentari. Con un percorso di disfacimento, con un autoscioglimento collettivo, il tutti a casa, un nuovo 8 settembre.
Tolgono il disturbo, ma sono stati quattro anni e più persi, un buco nero che ha inghiottito governi, formule politiche, leadership e al termine perfino Mario Draghi. Una legislatura senza un baricentro, senza un punto di equilibrio che non fosse la sua stessa sopravvivenza, durare a dispetto di coerenze, impegni con gli elettori, razionalità, dignità. Fino agli spettacoli imprevisti della giornata decisiva.
La mossa Salvini
Nel copione della vigilia i protagonisti della crisi dovevano essere i Cinque stelle, la giornata viveva dello scontro tra Draghi e Giuseppe Conte, che invece si è dileguato. Fin dalle prime battute si è capito che la parte del duellante sarebbe stata occupata da Matteo Salvini, desideroso di recuperare la leadership della destra smarrita in questi mesi a vantaggio di Meloni. Nella debolezza di Draghi, Salvini ha visto l’occasione di riprendersi il primato, nel centrodestra e nella Lega: vedi lo sguardo perso nel vuoto di Giancarlo Giorgetti al termine del discorso di Draghi.
La mossa di Salvini, come il trenino dei desideri che all’incontrario va, ha trainato Forza Italia e poi la stretta cerchia di Silvio Berlusconi che per tutta la giornata ha interdetto al Cavaliere la possibilità di parlare con Draghi, con Gianni Letta e con i ministri. Al posto della prevista rissa tra i Cinque stelle c’è stato invece il litigio tra Gelmini e Ronzulli a favore di cronisti e quindi l’addio della ministra a Forza Italia. Il centrodestra si è in apparenza ricompattato, ma sulla posizione più estremista: i moderati svaniscono o si preparano a incassare qualche collegio. Draghi ha forse sottovalutato l’istinto ferito di Salvini, mai a suo agio nei panni del futuro capo dei centristi. O, al contrario, ha voluto farlo riemergere, riportandolo al modello originale.
Nelle prossime settimane Salvini tornerà al suo più comodo repertorio di stop agli sbarchi, difesa dei pescatori, dei tassisti, dell’Italia avvelenata dalla crisi. L’Italia della rabbia e del disagio che i Cinque stelle hanno abbandonato per rifugiarsi nel palazzo, ora attende una rappresentanza politica. Salvini è pronto a offrirla, in competizione con Giorgia Meloni. Un ritorno all’indietro che promette sconquassi.
Il partito della nazione
Nell’attesa, un abbozzo di rappresentanza, è la vera sorpresa della giornata, è sembrato volerlo cercare il personaggio più lontano dalle strategie di marketing ricerca del consenso, il premier Draghi.
Con i suoi continui richiami all’Italia che in questi giorni si è mobilitata in difesa del suo governo: i sindaci, le associazioni, il terzo settore, le categorie economiche, lo sport, citato esplicitamente perché all’ex banchiere centrale non è sfuggito l’appello del presidente del Coni Giovanni Malagò.
Costretto a fare finalmente politica, la politica rifuggita e poco amata per non dire di peggio, Draghi ha rovesciato sui senatori che si apprestavano a voltargli le spalle le voci di fuori, di un paese che assiste distratto e allibito all’ennesima crisi politica, la più grave.
È sembrato parlare a nome del Partito della nazione, il Country party, il fronte dell’interesse generale. «La risposta che vi chiedo non la dovete dare a me, ma agli italiani», ha detto alla fine del suo discorso.
È apparsa una trasfigurazione, la nascita in un’aula parlamentare del banchiere del popolo, contro l’avvocato del popolo che ha smarrito gli elettori e contro i sovranisti di altra natura. Per ora è un’illusione ottica.
Le istituzioni personali
Prima di tutto perché è da vedere in che modo questa mobilitazione potrà tradursi in consenso elettorale, come Matteo Renzi (e Carlo Calenda), ma anche un pezzo del Pd si propongono di fare. Ma soprattutto perché gli appelli degli intellettuali, con il loro narcisismo, della minoranza rumorosa della Ztl, dei vertici (i sindaci, i presidenti), esaltano e non riempiono il vuoto della politica, l’assenza dei partiti, costretti ad affidarsi ad agenzie esterne, a una società civile più di vertice che di base, piuttosto che contare sulle proprie energie e sulle proprie strutture.
Dopo la stagione dei partiti personali si è assistito in queste settimane all’embrione delle istituzioni personali: istituzioni o territori che si identificano con le persone che provvisoriamente le occupano, come sembrano voler fare alcuni sindaci. Un altro fattore di debolezza del sistema.
Draghi non è mai stato neppure percorso da questa tentazione, per fortuna. Chi vuole fare politica, soprattutto ora, ha una strada maestra, partecipare alla campagna elettorale. Su Draghi pesa il pessimo esempio di Mario Monti con Scelta civica nel 2013, da evitare. Ma c’è l’esigenza di non disperdere l’esperienza di governo o affidarla a epigoni di comodo, in cerca di un’etichetta riconoscibile con cui presentarsi sul mercato elettorale.
Non si tratta di chiedere al premier uscente di farsi partito, ma di colmare il suo progetto di paese in quello che finora è sempre mancato: una radice nella società, un affondo nella realtà. Era un lavoro che un tempo facevano i partiti. Non può essere sostituito dai tecnici e dai politici improvvisati che diventano i tatticisti di palazzo più esasperati, come dimostra la parabola dei Cinque stelle.
A questa sfida è chiamato soprattutto il Pd, che non potrà contare su campi larghi precocemente appassiti. Lo spirito repubblicano evocato da Draghi non è roba da appelli chic, da élite vanesie, non esiste senza un popolo alle spalle. E il popolo si costruisce con un progetto, una organizzazione, un combattimento sui territori e nella società. Un’identità e una cultura politica. Contro una destra pronta a prendersi tutto, la sfida è rifondare quello schieramento popolare, il partito che (ancora) non c’è che Draghi ha fatto balenare, mentre conosceva l’amarezza della caduta e della sconfitta.
martedì 19 luglio 2022
lunedì 18 luglio 2022
Draghi cattivo mediatore
Neppure Alfio Mastropaolo sembra disposto a ammettere che Draghi ha agito da politico
Alfio Mastropaolo, Tutti contro il M5S miopie del centrosinistra, il manifesto, 17 luglio 2022
Come sempre capita alla politica italiana, ma non solo a quella, situazione disperata, ma non seria. Premessa: un movimento, o un partito, qualche che sia, è un fatto sociale. Come tale lo plasmano chi l’inventa, chi lo dirige, chi lo abita, ma pure i suoi concorrenti: alleati e avversari. Il Movimento 5 Stelle è un fatto sociale assai complicato. L’ha inventato, per scherzo, o dileggio, un comico che aveva qualche motivo per odiare i partiti convenzionali. Forse non se l’aspettava, ma l’iniziativa ha avuto successo. Il consenso sulle piazze l’ha indotto ad avventurarsi sul terreno elettorale, con un numero crescente di voti. Li ha presi dapprima profittando degli arretramenti programmatici e del decadente costume politico del centrosinistra.
Ha quindi risucchiato un po’ di voti da destra: disorientati dal declino del berlusconismo e della Lega di Bossi l’hanno votato in parecchi. Se non che, il M5S non aveva alcun programma – tranne l’«odio» per la politica – né una leadership e un personale politico. Difficile immaginare una leadership più improvvisata di quella di Grillo (per un po’ di tempo contenuta da Casaleggio sr.) e una rappresentanza politica reclutata in maniera più sgangherata.
Almeno le forze politiche di centrosinistra avrebbero dovuto accoglierlo con una riflessione matura, che approfondisse le ragioni del fenomeno. L’hanno classificato come una degenerazione populista, non pure peggio della destra berlusconiana, leghista e, più recentemente, a guida Meloni. Anzi: il partito dell’odio della politica ha suscitato nel centrosinistra – è la pena del contrappasso – una folla di haters, che l’hanno demonizzato, senza provarsi né ad approntare un antidoto, rinnovando la loro offerta politica in funzione degli elettori che se n’erano andati, né a superare i pregiudizi e instaurare una qualche collaborazione. Impresa, quest’ultima, difficile, ma non irragionevole, come si è poi dimostrato.
Piuttosto, il Movimento, sopraffatto dopo le ultime elezioni da una responsabilità ben superiore alle sue forze, è stato indotto a stipulare un disastroso contratto di governo con la Lega, conclusosi, com’era inevitabile, in fallimento. Finché il Pd si è deciso ad azzardare un’apertura che ha condotto al governo rossoverde. In questo estremo disordine, il Movimento ha trovato una figura di riferimento in Giuseppe Conte. Prima arruolato per presiedere il governo con la Lega e poi confermato alla guida della coalizione col Pd. Si può discutere quanto si vuole il suo operato come presidente del consiglio. Fatto sta che i sondaggi hanno testimoniato un elevato apprezzamento nel corso della difficilissima prima fase di contrasto alla pandemia. È per questo apprezzamento che, una volta licenziato il governo col Pd (e con Italia Viva), Conte si è ritrovato alla testa del Movimento. L’impresa era improba. Una volta perso l’elettorato che era giunto da destra, perché la destra si era riorganizzata intorno a Salvini e Meloni, lui ha provato a riposizionarlo proprio sui temi che il Pd aveva abbandonati.
Poteva essere la premessa di una fruttuosa divisione del lavoro: l’hanno capito Zingaretti, Bersani, Letta e qualcun altro. Ma proprio questo ha sovreccitato gli haters del Movimento: il partito mediatico di Repubblica/Corriere e le microformazioni che (abusivamente) indossano l’etichetta di riformiste. Che hanno capito che la manovra avrebbe spostato un po’ più a sinistra un’eventuale coalizione da opporre alla destra.
Conte non è un politico e non ha esperienza politica. Né pare attorniato da competenze in grado di sostenerlo. Si è ritrovato un Movimento senza progetto e con una rappresentanza parlamentare indisciplinata e resa nervosissima dalla prospettiva di essere definitivamente espulsa dalla scena politica. Non gli hanno dato tregua. Accanendosi su quelle poche misure che il Movimento iscrive a suo merito: reddito di cittadinanza in testa. Non ha nemmeno aiutato l’azione del governo Draghi, dove le componenti più sensibili alle difficoltà delle classi popolari e del Mezzogiorno sono state sistematicamente mortificate.
Conte ha fatto molte mosse sbagliate. Chi avrebbe fatto di meglio?
Draghi, per parte sua, non ha mostrato gran capacità di mediare. Sarà
perché difetta anche lui d’esperienza politica, sarà perché avverso alle
misure richieste dai 5 Stelle. Alla fine, Conte ha compiuto la mossa
che non si aspettavano nemmeno i suoi nemici più accaniti: preferivano
seguitare a logorarlo.
La conclusione è che Draghi si è dimesso e le elezioni si avvicinano. Ad
esser realisti, il Pd, se gli va bene, arriva al 25 per cento.
Un accordo coi soi-disant riformisti arriverebbe al 30 per centro. Gli haters illusoriamente ripropongono la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, ma il loro sogno è probabilmente una maggioranza Letta-Renzi-Calenda-Giorgetti. Mal che vada, per loro un governo Meloni-Salvini è preferibile a un’intesa stabile coi 5 Stelle entro il centrosinistra. Saranno esauditi. Meloni e Salvini arriveranno al governo, combineranno un disastro, l’Europa che conta li punirà, il Pd dovrà un’altra volta dissanguarsi per rimediare, il conto toccherà agli italiani. Cos’abbia in mente il capo dello Stato non lo sappiamo. Ma l’uomo è accorto e ha ributtato la palla in campo. Potrebbe essere un’opportunità, se Draghi si mostrerà più incline a mediare e glielo consentiranno. Non è detto.
domenica 10 luglio 2022
Il canto del pane
Lo stato della resistenza ucraina
Matteo Pugliese, Davvero l'Ucraina sta perdendo la guerra? I quattro fronti del conflitto, Domani, 6 luglio 2022
La controffensiva ucraina da Mykolaiv ha avuto successo ed è arrivata a lambire la periferia occidentale di Kherson, dove sono state ricatturate Ivanivka, e Barvinok.
Qui opera un forte movimento di resistenza partigiana che si è dimostrato una spina nel fianco per gli occupanti, costretti a guardarsi le spalle da attentati esplosivi e imboscate.
Anche la torre della televisione del capoluogo, convertita in amplificatore della propaganda russa, è stata fatta esplodere dai partigiani.
Per rifornire le truppe russe di pezzi di artiglieria sono stati mandati 17 vagoni carichi di munizioni dalla Crimea, ma anche le rotaie possono diventare un obiettivo di sabotaggio. Infatti, sono già state danneggiate a Melitopol facendo saltare un ponte ferroviario a Lyubimivka e facendo deragliare un altro convoglio.
Sul fronte di Kherson, dunque, i russi stanno subendo la controffensiva ucraina che potrebbe arrivare a liberare la città, segnando un punto di svolta per il controllo della fascia costiera del mar Nero sino alla Crimea.
L’attività partigiana a Melitopol disturba la riorganizzazione delle forze russe dopo la fine dell’assedio di Mariupol. Gli invasori hanno accumulato numerosi gruppi tattici di battaglione con l’obiettivo di puntare a nord verso Zaporizhzhia, ma è notizia di ieri che l’artiglieria ucraina avrebbe centrato l’aeroporto occupato di Melitopol uccidendo numerosi soldati russi, come ha dichiarato il sindaco Fedorov, che aveva già annunciato un attacco notturno di artiglieria contro una delle quattro basi militari cittadine occupate.
Questo fronte è dunque stazionario e difficilmente il Cremlino riuscirà a lanciare un’offensiva efficace verso il capoluogo lungo il fiume Dnipro.
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Anche gli ucraini hanno pagato un prezzo altissimo nella difesa di Severodonetsk e Lysychansk, con molte delle unità decimate o completamente distrutte dal fuoco di artiglieria russo. Il morale dei difensori del Donbass è sceso a causa della mancata rotazione con reparti freschi e dei ritardi nell’arrivo degli armamenti occidentali.
Al summit Nato di Madrid, il presidente americano Biden ha annunciato che una coalizione allargata ad altri partner sta donando all’Ucraina 600 carri armati, 500 sistemi di artiglieria e oltre 140mila armi anticarro.
I pezzi più preziosi sono i mezzi lanciamissili e gli obici da 155mm, donati anche dall’Italia. Ma occorrono varie settimane affinché questi sistemi d’arma raggiungano la linea del fronte. Inoltre, richiedono un addestramento specifico per l’utilizzo da parte dei soldati ucraini, che vengono inviati a centinaia in Inghilterra per un corso accelerato di alcune settimane da parte dell’esercito britannico.
LA RUSSIA IN CERCA DI RECLUTELa Russia ha perso circa 800 carri armati dall’inizio dell’invasione, inclusi quelli più moderni, ed è stata costretta a mandare al fronte vecchi mezzi sovietici, ancora più facili prede delle armi anticarro.
Le autorità della repubblica fantoccio di Donetsk stanno reclutando a forza uomini da mandare al fronte, tra cui i giovanissimi cadetti dell’accademia del ministero dell’Interno locale, o semplici passanti fermati per la strada da squadracce, come testimonia un video di denuncia di uomini fatti salire a forza su un furgone e privati dei documenti, nonostante le proteste delle mogli.
Tra l’altro, il reclutatore del video è stato identificato grazie ai tatuaggi come un neonazista con svastica sulla spalla, per ironia della sorte incaricato di mandare malcapitati a de-nazificare l’Ucraina.
In Russia la situazione non è migliore, perché arrivano report di creazione di battaglioni raccogliticci, composti da guardie costiere, poliziotti e altri corpi paramilitari. Ma a San Pietroburgo l’Fsb e il gruppo mercenario Wagner starebbero reclutando persino detenuti nella prigione numero 7 di Yablonevka, come denunciato alcuni, con la promessa di libertà e denaro.
Putin non ha annunciato la mobilitazione generale, ma è in corso una mobilitazione silenziosa in cerca di carne da cannone soprattutto nelle province remote e nelle periferie.
In Ucraina non mancano le reclute, confluite nella Difesa Territoriale, ma anche gli uomini non convocati sono obbligati a non lasciare il proprio comune di residenza senza l’autorizzazione del commissario militare, in base alla legge marziale.
Non è sufficiente schierare una massa di decine di migliaia di persone, perché occorre addestrarle ed equipaggiarle adeguatamente.
Nonostante la Bielorussia di Lukashenko stia accumulando battaglioni sul confine nord, sono pochi a credere che prenderà parte alle ostilità.
Si tratta di un esercito ancora più scadente di quello russo e molti tra gli ufficiali si sono schierati contro la guerra, per cui il governo di Minsk rischierebbe una rivolta interna qualora ordinasse un attacco.
In ultima analisi la situazione è quindi sfaccettata, molto dipenderà dall’arrivo delle armi pesanti sul fronte del Donbass, che potrebbe decidere le sorti della guerra nei prossimi mesi.
https://www.corriere.it/esteri/22_luglio_08/ucraina-resistenza-colpisce-depositi-munizioni-complica-logistica-russa-99d3f362-fecc-11ec-a7e1-ce25a76ed272.shtml