Karima Moual, La rabbia dei figli di immigrati “Gli italiani ci hanno isolato per questo ci sentiamo africani”, la Repubblica, 7 giugno 2022
«Quello
che è successo è vergognoso, quelle molestie sono terribili, ma
possibile che i riflettori si accendono solo quando scoppia il caos? Si
svegliano solo adesso scoprendo la rabbia e la violenza che molti
ragazzi stanno sfogando? Ma di noi non ha mai avuto pietà nessuno,
dallo stesso momento in cui ci hanno sbattuti nei peggiori quartieri,
possibilmente ammassando tutti insieme, per identificarci ancora
meglio come immigrati, africani a vita. Alla fine, ce l’hanno fatta.
Sono riusciti a farci credere di essere più africani che italiani. Non
capisco quindi perché tutto sto scandalo». Così Hassan (nome di
fantasia) da Milano, quartiere San Siro, spiega il disagio di una
generazione di figli di immigrati. «Sì, mi sento africano, marocchino e
non certo italiano. Non sono mica scemo. So come ci guardano gli
italiani e, sinceramente, preferisco tenermi strette le mie origini».
Mentre si racconta, cerca di spiegare, la voce a volte trema, eppure
non ha nessuna voglia di fermarsi ed è convinto di rientrare in una
specie di figura, marocchina, immigrata, africana, che non è altro che
qualcosa di immaginario e astratto. E basta vedere il volto dei
genitori, sentirli parlare, per capire quanta distanza ci sia tra lui e
il loro mondo. «Ma non ti guardi intorno sorella? Siamo solo la feccia
per loro (inteso, gli italiani, ndr), e da dentro queste fatiscenti
palazzine sono in pochi a permettersi di sognare. Fare piccole rapine,
spacciare, per molti ragazzi è ormai normale».
Un disagio che esprime anche Farid, che ha appena 14 anni e vive a
Vercelli, Mounir, diciottenne di Tor bella Monaca, estrema periferia est
di Roma. Ragazzi che vivono inquartieri popolari e realtà diverse ma
sembrano tutti fatti con lo stampino: abbigliamento, gusti musicali,
tanta rabbia e voglia di emergere, uscire dal “ghetto” a tutti i costi.
«È un ghetto non solo di palazzine - spiega Fatma, 18 anni, tunisina
ma di percezioni, opportunità, parole, stigmatizzazione e pregiudizi
che continuano ad imprigionarci, senza via di scampo. I rapper
emergenti, come Sacky, Baby Gang, Neima Ezza un po’ danno sfogo al
nostro disagio».
Dice
Rashid, 20 anni, Barriera di Torino: «Io non sono una vittima.
Semplicemente so che devo andare a prendere quello che mi spetta. Perché
tanto qui non me lo darà nessuno. Sai quante volte mi hanno fermato
le forze dell’ordine solo perché ho la faccia da maghrebino? Tanto vale
fare il vero spacciatore».
Parole troppo grandi per ragazzi troppo giovani nati in Italia da
genitori immigrati e dove «l’Africa» è in realtà la città o il
villaggio dove sono nati i loro genitori. Eppure, quelle parole
riescono a dirle leggeri. Quella che sembra accomunare una parte dei
figli di immigrati. Basta parlarci, entrare un po’ nella loro testa e
scardinare i miti che si sono costruiti per capire che sono, da una
parte, al centro di un vero scontro generazionale con la cultura e le
tradizioni dei genitori; dall’altra, in un conflitto identitario con il
Paese dove sono nati e cresciuti. Uno scontro che, in ultima istanza,
sfocia in rabbia e violenza, come quella avvenuta il 2 giugno sulle
spiagge di Castelnuovo e Peschiera del Garda dove si sono riversati
centinaia di ragazzi arrivati dalla Lombardia per un raduno trap
chiamato «L’Africa a Peschiera».
Come si è riusciti a portare una parte delle seconde generazioni di
nuovi italiani a percepirsi “Africa” nel Paese in cui sono nati e
cresciuti? E attenzione, a percepirsi “Africa” nell’accezione
negativa, rispondendo al peggior pregiudizio razzista. Perché quello è
stato: la devastazione fisica del luogo pubblico per finire con le
molestie orrende che hanno colpito anche qui, come a Capodanno a
Milano, ragazze inermi, magari coetanee, compagne di scuola, sorelle,
amiche, che di colpo vengono disumanizzate, per diventare solo
«bianche» da molestare.
Un nichilismo estremo. Una semplificazione rozza e al limite che
divide tra bianco e nero, quando anche il bianco e il nero in quel
dato contesto in realtà non esistono, ma sono solo una percezione che si
è fatta realtà nella più becera violenza, che ci indica come nei
prossimi anni sarà complicato trovare la ricetta giusta per scardinare
un incubo che si è avverato, per la gioia di chi ha tifato sempre
affinché una integrazione non fosse possibile e non ha fatto nulla
perché si realizzasse.
Maurizio Crippa, La rabbia e le scuse, Il Foglio, 8 giugno 2022
... E' giusto l’articolo, ovviamente, e giusti gli sfoghi, ovviamente, di chi
si vede confinato in un “ghetto”. Ed è giusto anche il pensoso monito
che “basta parlarci, entrare nella loro testa”. Ma i reati sono reati,
il resto è una excusatio troppo petita.
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