sabato 27 giugno 2020

Liberale

ROSSELLI SPIEGATO DA WALZER

La Repubblica, Robinson, sabato 27 giugno 2020






Il liberalismo è un “ismo” come tutti gli altri “ismi”? Credo che una volta lo fosse. Nell’Ottocento e per alcuni anni del Novecento, il liberalismo è stato un’ideologia che comprendeva: libero mercato, libero commercio, libertà di parola, frontiere aperte, uno Stato minimo, individualismo radicale, libertà civili, tolleranza religiosa, diritti delle minoranze. Ma questa ideologia è ora chiamata libertarianismo, e la maggior parte delle persone che si identificano come liberali non la accettano — almeno, non tutti. Il liberalismo in Europa è oggi rappresentato da partiti politici come il Partito Liberale Democratico tedesco che sono libertariani e di destra, ma anche da partiti come i Liberal Democratici nel Regno Unito, incerti tra conservatori e socialisti, che sostengono politiche di una parte o dell’altra senza un forte credo proprio. Il liberalismo negli Stati Uniti è la nostra versione molto modesta della socialdemocrazia, come nel “New Deal liberalism”. Neanche questo è un credo forte, perché abbiamo visto quando molti liberali di questo tipo sono diventati neoliberali.
I “liberali” sono ancora un gruppo identificabile. Ci descrivono meglio in termini morali piuttosto che in quelli politici: siamo di mentalità aperta, generosi, tolleranti, capaci di vivere con l’ambiguità, pronti per discussioni che non sentiamo di dover vincere. Qualunque sia la nostra ideologia, qualunque sia la nostra religione, non siamo dogmatici, non siamo fanatici. I socialisti democratici come me possono e devono essere liberali di questo tipo.
Ma il nostro vero legame, il nostro legame politico, con il liberalismo ha un’altra forma. Pensatela come una forma aggettivale: siamo, o dovremmo essere, liberal-democratici e liberal-socialisti. Sono anche un nazionalista liberale, un comunitarista liberale e un ebreo liberale. L’aggettivo funziona allo stesso modo in tutti questi casi. Come tutti gli aggettivi, “liberale” modifica e complica il sostantivo a cui si accompagna; ha un effetto a volte costrittivo, a volte vivificante, a volte trasformativo. Determina non chi siamo, ma come siamo quelli che siamo, come mettiamo in atto i nostri impegni ideologici.
Lo scrittore conservatore Bret Stephens ha recentemente definito il populismo come il trionfo della democrazia sul liberalismo. Penso che intendesse il trionfo della democrazia maggioritaria sui suoi vincoli liberali. La democrazia liberale pone dei limiti alla regola della maggioranza — di solito con una costituzione che garantisce i diritti individuali e le libertà civili, stabilisce un sistema giudiziario indipendente che può far rispettare la garanzia, e spiana la strada a una stampa libera che può difenderla. Le maggioranze possono agire, o agire legittimamente, solo entro i limiti costituzionali.
Non intendo negare l’importanza dell’azione popolare. La grande conquista della democrazia è quella di portare uomini e donne comuni, come voi e come me, nel processo decisionale. Infatti, l’aggettivo “liberale” garantisce che ognuno sia effettivamente coinvolto, come non lo era mai stato nella storia delle democrazie esistenti, da Atene agli Stati Uniti. I diritti civili e le libertà civili appartengono legittimamente a ogni membro della comunità politica — ebrei, neri, donne, debitori, criminali, ai più poveri dei poveri. Tutti noi ci uniamo alle discussioni democratiche, organizziamo movimenti sociali e partiti politici e partecipiamo alle campagne elettorali. Ma anche quando siamo vittoriosi, le nostre decisioni hanno dei limiti. Quindi i demagoghi populisti hanno torto a sostenere che una volta vinte le elezioni, rappresentano o incarnano “la volontà del popolo”, e possono fare tutto quello che vogliono. Ci sono, infatti, molte cose che non possono fare.
Quello che vogliono più di tutto è approvare leggi che garantiscano la loro vittoria alle prossime elezioni, che diventerebbero così le ultime elezioni significative. Attaccano i tribunali e la stampa; erodono le garanzie costituzionali; si impadroniscono del controllo dei media; rimodellano l’elettorato, escludendo i gruppi minoritari; molestano o reprimono attivamente i leader dell’opposizione — il tutto in nome della regola della maggioranza. Sono, come ha detto il primo ministro ungherese Viktor Orbán, “democratici illiberali”. Le vittorie populiste sono un disastro per tutti coloro che sono dalla parte dei perdenti, forse soprattutto per i giornalisti liberali, voce quotidiana dell’opposizione, spesso falsamente accusati di corruzione o sedizione e messi in prigione. E se i populisti, nonostante tutti i loro sforzi per assicurarsi la vittoria, dovessero mai perdere un’elezione, sarebbe un disastro per loro, poiché noi (liberal-democratici) crediamo che i loro attacchi alla costituzione e le loro violazioni dei diritti civili siano atti criminali. La posta in gioco è alta in questo tipo di politica. Se perdi le elezioni, perdi il potere e vai in prigione.
I limiti liberali alla democrazia servono in qualche modo a prevenire dei disastri per chiunque sia coinvolto. Abbassano la posta in gioco del conflitto politico. Perdere un’elezione ti lascia ancora in possesso di tutti i tuoi diritti civili, compreso il diritto all’opposizione, che porta con sé la speranza di una vittoria la prossima volta.
I limiti imposti dall’aggettivo “liberale” sono intesi proprio in questo modo dal socialista italiano Carlo Rosselli, uno dei capi della resistenza antifascista negli anni Venti e Trenta e autore di Socialismo liberale, che è uno dei testi su cui si basa questo articolo. «Il “metodo liberale”», scrive,«è un complesso di regole del gioco che tutte le parti in lotta si impegnano a rispettare, regole dirette ad assicurare la pacifica convivenza dei cittadini...; a contenere le lotte... entro limiti tollerabili; [e] a consentire la successione al potere dei vari partiti ». Così il socialismo liberale di Rosselli incorpora la democrazia liberale. Per lui l’aggettivo “liberale” non è solo una forza costrittiva, ma anche stimolo di pluralismo: garantisce l’esistenza di “vari partiti” (il che significa più di uno) e dà a ciascuno la possibilità di avere successo. Il socialismo liberale, scrive Nadia Urbinati nella sua introduzione all’edizione americana del libro di Rosselli, richiede «la fedeltà a un quadro che presuppone una società antagonista e pluralista...».
L’aggettivo “liberale” significa che il socialismo può essere raggiunto solo con il consenso del popolo; per farlo, dobbiamo lottare democraticamente. La lotta è già stata lunga e, lungo la strada, ci sono stati e ci saranno compromessi con gli avversari, di cui dobbiamo rispettare i diritti. “Liberale” significa anche che ci sarà spazio per i socialisti per dissentire tra loro sulla strategia e la tattica della lotta e sui suoi obiettivi a breve e lungo termine. Quindi ci saranno molti socialismi, e dovremmo aspettarci di trovare partiti, sindacati e raggruppamenti ideologici di vario tipo in competizione per i candidati e per avere influenza all’interno di un quadro liberal-democratico. Come sosteneva Rosselli, la competizione sarà continua perché, alla fine, “liberale” significa che «il socialismo non è un ideale statico e astratto che potrà un giorno compiutamente realizzarsi».
I nazionalisti sono persone che mettono al primo posto gli interessi della propria nazione. I nazionalisti liberali sono persone che lo fanno e che, allo stesso tempo, riconoscono il diritto degli altri di farlo. E poi insistono sul fatto che tutti i “primi” devono farsi posto reciprocamente. Essi riconoscono la legittimità e gli interessi legittimi delle diverse nazioni. Come democratici liberali pongono limiti al potere delle maggioranze trionfalistiche, e i socialisti liberali pongono limiti all’autorità delle avanguardie ossessionate dalla teoria, come i nazionalisti liberali pongono limiti al narcisismo collettivo delle nazioni.
Noi (difensori dell’aggettivo “liberale”) non neghiamo che le maggioranze abbiano dei diritti, che le teorie sulla società e l’economia siano politicamente utili e che l’appartenenza nazionale sia un vero valore. Ma difendiamo le minoranze contro la tirannia della maggioranza e gli attivisti ordinari contro l’arroganza dell’avanguardia. E difendiamo le nazioni che hanno bisogno di Stati contro qualsiasi Stato nazionale avversario: curdi, palestinesi e tibetani, per esempio, contro la Turchia, Israele e la Cina, ma lo facciamo senza negare i diritti nazionali di turchi, israeliani e cinesi.
L’aggettivo “liberale” trasforma il nazionalismo in una dottrina universalista. Yael Tamir, accademica israeliana che si è impegnata in politica — autrice di Liberal Nationalism, il mio secondo testo per questo saggio — fa capire molto chiaramente che «il riconoscimento dell’importanza dell’appartenenza culturale, e... l’affermazione di un diritto generale all’autodeterminazione culturale e nazionale, deve quindi essere al centro di ogni teoria [liberale] del nazionalismo ». Un significato di questo “diritto generale” è che tutte le nazioni devono riconoscere le rivendicazioni delle altre e fare spazio alla nazione che viene dopo.
Il filosofo inglese Thomas Hobbes, pensando alla situazione dei rifugiati in fuga dalla carestia o dalla persecuzione, ha scritto che le persone che vivono negli Stati vicini potrebbero dover «abitare più strettamente insieme» per fare spazio ai rifugiati. Si potrebbe definire questo il requisito morale di un nazionalismo (molto) liberale, ma è una richiesta difficile da fare. C’è un’altra richiesta di nazionalismo liberale che è più facile da fare: gli Stati nazionali imperialisti che si sono espansi a spese di altre nazioni devono ritirarsene e rimpicciolirsi.
I radicali sostenitori della “Little England” alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento erano anti-imperialisti e, allo stesso tempo, dei buoni nazionalisti liberali. Il “Grande Israele”, oggi, è un esempio di nazionalismo illiberale, mentre i difensori del “piccolo Israele” sono sionisti liberali — come Tamir, che rievoca i Girondini nella Rivoluzione francese: volevano creare degli Stati- nazione liberi, scrive, «nei territori che la Francia aveva conquistato...». Tamir vorrebbe la stessa cosa nel territorio conquistato da Israele.
L’aggettivo “liberale” accoglie gli interessi delle nazioni esistenti e di quelle che aspirano ad esserlo; riconosce, inoltre, i diritti delle minoranze all’interno degli Stati che le nazioni creano. Quasi tutti gli Stati-nazione includono minoranze etniche e religiose, e il loro liberalismo è messo alla prova da come trattano questi gruppi.
La qualifica liberale del nazionalismo porta ad accettare la pluralità delle nazioni; è parallela alla qualifica liberale di ogni particolare nazionalismo. Le nazioni liberali non sono create e definite da “sangue e terra”, o da un decreto divino, o da una storia che inizia agli albori del tempo e non si è mai interrotta. Il sangue è sempre misto; la geografia cambia nel corso degli anni; Dio non c’entra; e la storia si intreccia con altre storie.
Le nazioni liberali, inoltre, non sono ideologicamente coesive. Un Paese multinazionale, multirazziale e multireligioso come gli Stati Uniti è definito in misura molto più grande dalla sua politica. È tenuto insieme dall’impegno dei suoi cittadini nei confronti di un certo regime politico e dal riconoscimento dell’autorità di documenti fondativi come la Dichiarazione d’indipendenza e la Costituzione. Le persone che rifiutano questa politica o mettono in discussione questa autorità sono dette “anti-americane”, come lo erano i membri del Partito comunista negli anni Cinquanta. «Ma in una società in cui la coesione sociale si basa su criteri nazionali, culturali e storici», scrive Tamir, «avere opinioni anticonformiste non porta necessariamente alla scomunica ». I politici francesi di destra non accusano i comunisti francesi di “attività anti-francesi”.
Il comunitarismo descrive lo stretto legame di un gruppo di persone che condividono l’impegno per una religione, una cultura o una politica. Come i nazionalisti, esse mirano a promuovere gli interessi della loro comunità, ma l’enfasi del loro impegno è interna; sono focalizzati sulla qualità o sull’intensità della loro vita comunitaria. Il repubblicanesimo civile è probabilmente la versione più conosciuta del comunitarismo. Jean-Jacques Rousseau è uno dei suoi profeti, e non è certo un liberale. Rousseau descrive il cittadino ideale: un uomo (le donne non erano ancora incluse) che corre da una riunione all’altra e trova più felicità nella sua vita politica che nella sua vita privata. La cittadinanza comporta un impegno che esclude tutti gli altri; le associazioni secondarie sono una minaccia per l’integrità della repubblica.
La repubblica civica di Rousseau è anche uno Stato-nazionale illiberale, come afferma chiaramente ne Il governo della Polonia, dove descrive l’educazione dei futuri cittadini: devono studiare la storia polacca, la geografia polacca, la cultura polacca, la letteratura polacca — e nient’altro. «È l’educazione che deve dare alle anime una formazione nazionale, e orientare le loro opinioni e i loro gusti in modo tale che siano patrioti per inclinazione, per passione, per necessità». Qui comunitarismo e nazionalismo si congiungono in un’unione radicalmente illiberale.
Nell’insegnare la politica di Rousseau, ho sempre pensato che la sua repubblica è una comunità surriscaldata. Un comunitarismo liberale abbasserebbe la temperatura. Permetterebbe ai cittadini di evitare (alcuni) incontri per dedicarsi ai piaceri privati: guardare una partita di baseball, andare al cinema, giocare con i bambini, lavorare in giardino, fare l’amore, o semplicemente sedersi a chiacchierare con gli amici. Combinerebbe lo zelo della democrazia partecipativa con la freddezza della democrazia rappresentativa, in modo che uomini e donne che non amano la politica abbiano comunque voce in capitolo nelle decisioni politiche. Le sue scuole mirerebbero a creare patrioti per inclinazione, ma non per necessità.
In alternativa, i comunitariani liberali potrebbero evitare del tutto la repubblica civica, sostenendo che lo Stato deve essere una democrazia liberale o una socialdemocrazia liberale che fornisca un quadro per una pluralità di comunità, alcune “calde” e altre no. Questa è la mia versione preferita del comunitarismo. Che ci siano molte comunità!
Molti di noi sceglieranno di essere membri di comunità diverse, e l’intensità del nostro impegno varierà nella pluralità delle nostre appartenenze. Posso essere, allo stesso tempo, un ebreo, un socialista, un docente di filosofia politica, un newyorkese, un marito, un padre (e un nonno), oltre che un cittadino attivo, ma part-time, della repubblica americana.
Presumo che l’aggettivo “liberale” funzioni più o meno allo stesso modo per quanto riguarda i cattolici, i protestanti, i musulmani, gli indù e i buddisti. Ma gli ebrei liberali sono diversi, perché gli ebrei sono sia una nazione che una comunità religiosa. Quindi noi siamo, o dovremmo essere, liberali sia a livello nazionale che religioso — il che significa che nessuna posizione teologica o ideologica, religiosa o laica può mai essere descritta come anti-ebraica. Gli ebrei atei non sono ebrei “decaduti”; sono ebrei come gli ebrei ortodossi, poiché siamo tutti membri del popolo ebraico.
Gli ebrei liberali identificati in base alla religione non sono diversi dai liberali cattolici, protestanti, musulmani e così via. Presumibilmente tutte queste persone credono nell’esistenza legittima di altre religioni; “liberale” è ancora un aggettivo pluralista. Dovrebbe funzionare nei confronti della religione più o meno nello stesso modo in cui funziona nei confronti dell’ideologia. I credenti liberali riconoscono il diritto alla differenza — i diritti degli eretici e degli infedeli. Da qui anche la moltiplicazione delle denominazioni e delle sette che abitano gli spazi aperti della società civile e fanno spazio ai gruppi che vengono dopo. I membri di tutti questi gruppi manterranno le proprie convinzioni con fervore, forse, ma non con fanatismo. Come i socialisti liberali rifiutano l’idea di una dittatura dell’avanguardia, così i credenti liberali rifiutano qualsiasi uso della coercizione in materia religiosa. La fede è libera. I credenti liberali non riconosceranno un’uguale autenticità alle altre credenze, ma l’uguale sincerità degli uomini e delle donne che le condividono. L’accettazione per i non credenti radicali è probabilmente più difficile, anche se l’aggettivo “liberale” lo richiede anche qui.
La religione illiberale è facile da descrivere; è comune quanto il fanatismo ideologico. Ogni religione che subordina le donne è ovviamente illiberale. Ciò detto, a proposito della religione liberale e illiberale, ne consegue che il potere statale non può essere usato per indottrinare i futuri cittadini nella versione ortodossa del giudaismo o del cattolicesimo (o di qualsiasi altra religione) o per perseguitare gli eretici o gli infedeli. Uno Stato-nazione liberale può enfatizzare la religione maggioritaria nel suo sistema educativo, dal momento che questa religione ha probabilmente giocato un ruolo importante nella storia della nazione. Ma non trasformerà quella religione in un catechismo scolastico — così come i socialisti liberali al potere non trasformeranno l’ideologia socialista in un catechismo scolastico. E insegnerà anche la storia delle religioni minoritarie locali e di altri Paesi e delle loro religioni. Non sosterrà, né promuoverà una versione particolare di una religione (o ideologia). Ci sono molti modi di essere religiosi — tutti riconosciuti, tutti protetti, nessuno di essi prioritario, con l’aggettivo “liberale”.
Sarebbe interessante chiedersi se ci siano gruppi, partiti, ideologie, identità che non possono essere modificati dall’aggettivo “liberale”. Si può essere, per esempio, un ebreo ultraortodosso liberale o un cristiano fondamentalista liberale? Gli aggettivi sembrano stonare. Forse individui talentuosi e flessibili potrebbero accogliere entrambi (dovrebbero essere pronti a immaginare le donne come loro pari), ma sospetto che i loro compagni di fede direbbero che hanno lasciato l’ovile. I dogmatisti religiosi, qualunque sia il dogma, non possono essere liberali. Ci possono essere dei repubblicani liberali anche se attualmente non se ne vedono; anche dei conservatori liberali. Ho già sollevato dubbi su un comunista liberale; la versione stalinista del comunismo non può certo tollerare l’aggettivo, anche se sono sicuro che ci sono comunisti liberali — certamente nell’Ottocento, e forse oggi — che credono in una pluralità di comuni di diverso tipo. Fascisti e nazisti ovviamente non possono essere liberali. Il totalitarismo è il tipo ideale di una politica illiberale.
Una monarchia liberale è possibile, ed è per questo che usiamo l’aggettivo “assoluto” per descrivere la versione illiberale. Un monarca liberale governa da solo e non conosce l’alternanza nella gestione del potere, ma riconosce una politica pluralista con vincoli costituzionali e una pluralità di religioni. Penso che il dispotismo possa essere illuminato, come alcuni despoti del Settecento sostenevano di essere, ma non liberale. Né la tirannia può convivere con un qualificativo liberale. Sono dubbioso sulla possibilità di un’oligarchia liberale, ma un’aristocrazia liberale è concepibile, purché l’appartenenza non sia ereditaria.
La maggior parte di questi possibili usi dell’aggettivo “liberale”, oggi, non è rilevante. Ma quelli con cui ho iniziato mi sembrano non solo rilevanti, ma anche di importanza cruciale per la politica contemporanea. Abbiamo bisogno di democratici liberali per combattere contro il nuovo populismo; di socialisti liberali per combattere contro il frequente autoritarismo dei regimi di sinistra; di nazionalisti liberali per combattere contro i nazionalismi contemporanei xenofobi, anti-musulmani e antisemiti; di comunitaristi liberali per combattere contro le passioni esclusiviste e la feroce partigianeria di alcuni gruppi “identitari”; e di ebrei, cristiani, musulmani, indù e buddisti liberali per combattere contro l’inaspettato ritorno del fanatismo religioso. Queste sono alcune delle battaglie politiche più importanti del nostro tempo, e l’aggettivo “liberale” è la nostra arma più importante.
© Dissent (Primavera 2020) Tradotto con il permesso della University of Pennsylvania Press (Traduzione di Luis E. Moriones)


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