Thomas Mann, Tonio Kröger (1903), traduzione di Emilio Castellani, Mondadori, Milano 2012
Non parlate di "mestiere", Lisaveta Ivànovna! La letteratura non è affatto una vocazione; è una maledizione, perché lo sappiate. E quando principia a farsi sentire questa maledizione? Presto, terribilmente presto. A un’epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere d’amore e d’accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto d’essere in incomprensibile contrasto con gli altri, coi normali, con la gente ordinaria; sempre più fondo si scava l’abisso d’ironia, d’incredulità, d’opposizione, di lucidità, di sensibilità, che lo separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c’è più possibilità d’intesa. Che destino! Ammesso che nel cuore gli sia rimasto quel tanto di vita, quel tanto d’amore che basti a giudicarlo orribile!… La vostra consapevolezza si infiamma, perché in mezzo ad una massa di migliaia voi sentite che un marchio vi sta impresso in fronte, e capite che a nessuno passa inosservato. Ho conosciuto un attore geniale, che nei suoi rapporti umani doveva lottare contro un morboso senso di timidezza, di precarietà. Tali erano, in quell'artista completo e uomo immiserito, le conseguenze di un esasperato sentimento di sé, insieme alla mancanza di una parte da sostenere; di un compito inerpretativo... Un artista, un vero artista – non uno che abbia l’arte per professione borghese, ma per cui l’arte sia predestinazione e condanna – è distinguibile tra una folla umana allo sguardo meno esperto. Il sentimento di essere a parte, di non fare tutt’uno con gli altri, d’essere riconosciuto e osservato, qualcosa di regale e d’impacciato insieme gli sta dipinto in viso. Alcunché di simile potrebbe cogliersi nei tratti di un principe che passi in abiti borghesi attraverso la moltitudine. Non c’è abito borghese che tenga, Lisaveta! Uno può mascherarsi, camuffarsi finché vuole, vestirsi come un addetto d’Ambasciata o un sottotenente della Guardia in permesso: basterà che alzi gli occhi, che debba pronunciare una parola, perché ciascuno sappia che quello non è un uomo, bensì qualcosa di straniero, di scostante, di diverso…»
Charles Baudelaire, L'albatro (1857), traduzione di Giovanni Raboni
Spesso, per divertirsi, i marinai
catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,
indolenti compagni di viaggio delle navi
in lieve corsa sugli abissi amari.
L’hanno appena posato sulla toldae già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso,pietosamente accanto a sé strascinacome fossero remi le grandi ali bianche.catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,
indolenti compagni di viaggio delle navi
in lieve corsa sugli abissi amari.
Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!
E comico e brutto, lui prima così bello!
Chi gli mette una pipa sotto il becco,
chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!
E comico e brutto, lui prima così bello!
Chi gli mette una pipa sotto il becco,
chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!
Il Poeta è come lui, principe delle nubi
che sta con l’uragano e ride degli arcieri;
esule in terra fra gli scherni, impediscono
che cammini le sue ali di gigante.
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