Paolo Salza, Nessun dio ci fermerà, romanzo in via di pubblicazione
Mise in moto, determinata, fredda. Fece manovra
grattando crudelmente il cambio e imboccò con furia la stretta strada che porta
in salita alle sorgenti del Po.
“Tanto non va lontano …”, disse Elio ai carabinieri
che l’avevano raggiunto, e riferì delle sue minacce di andarsene a lavorare al
Rifugio.
I carabinieri pensarono di inseguirla ma, vista la
pioggia, la direzione intrapresa e conoscendo i luoghi, si dissero d’accordo:
accendendosi una sigaretta, tornarono al coperto.
* * *
Ma in Francesca stava prepotentemente prendendo luce
la risposta a quel dannato “che fare?”: ora voleva solo farla finita ormai.
Elio ne sarebbe stato contento, stava per fargli un
regalo inatteso, lo sapeva. Ma non se la sentiva più di vivere ancora, al
diavolo lui e tutto quello che era successo dal matrimonio in poi: tutto per
colpa del marito e anche sua, ammise vergognosa, della sua viltà.
Tirava le marce fino a strozzarle, ansimava forte nel
vestito fradicio, premeva forte l’acceleratore e teneva le gambe irrigidite per
tentare di fermarne il tremolio. Sentiva gli occhi dilatati, attenta solo alle
curve che intravvedeva appena tra il buio e le lacrime: una volta le temeva,
quelle curve, ora le affrontava con disperata spregiudicatezza.
S’impose di non pensare più, mai più. Basta.
Conosceva benissimo il punto prescelto, il punto che
l’attendeva e che la stava chiamando imperiosamente a sé: quello dove la strada
si affaccia senza parapetto su una ripidissima discesa rocciosa e poi su una
voragine di dirupi.
Quando vi arrivò trattenne il respiro, di colpo girò
tutto a sinistra il volante e poi lo mollò, premette sull’acceleratore, e si
coprì gli occhi. Avrebbe lasciato fare alle cose, era deciso, nulla le
interessava più: una martire cristiana davanti ai leoni del Colosseo.
“Ma le martiri erano sante, senza peccato!”, il
pensiero l’attraversò fulmineo, seguito immediatamente dell’altro: “Anche
questo che fai è peccato!”. Si disse che l’avrebbero perdonata, e comunque
succedesse quel che doveva succedere, lei non ne poteva più.
Si dispose ad attendere la morte senza muovere un dito.
Ma non fu così facile, non è mai così facile. Non appena l’auto iniziò la folle
corsa verso il basso, i suoi buoni propositi di passività si scontrarono con la
dura e dolorosa concretezza della tragedia cercata: al primo violento scossone
urlò e cercò di tenersi al volante, che però girava impazzito per conto suo.
Il meccanismo del pensiero, prima represso, esplose.
Avrebbe potuto bloccare lo sterzo, si disse. Ma che importanza aveva ormai, si
chiese sforzandosi di ridere di sé.
Un’esplosione rocciosa sulla fiancata sinistra, un
colpo terribile alla spalla, un dolore fisico mai provato prima, finestrino e
cristallo anteriore deflagrarono ferendola al volto. Il sangue le oscurò la
vista ma la pioggia tentò pietosamente di lavarglielo, quando un altro pietrone
incrinò l’avantreno: si spensero il motore e tutte le luci. Finalmente si
bloccò il volante, ma lei lo intravedeva a malapena e riusciva a stringerlo
ormai solo col braccio destro, il sinistro faceva troppo male.
Sembrava una pesantissima appendice urlante a ogni
nuovo sobbalzo, e cercava di tenerlo fermo. Che idiozia non muovere un braccio
per evitare il dolore adesso, si disse. E provava ad alzarlo gemendo, come per
dimostrare a sé stessa di essere più forte di quel ferroso cavallo selvaggio,
ma senza riuscirci.
Fu scaraventata sulla destra dell’abitacolo, batté la
testa contro qualcosa: subito le vennero in mente le emicranie di Isxaaq: “Ma
stava male così?”.
Si ritrovò nel palmo il freno a mano. Forse senza
volerlo lo tirò violentemente, ottenendo solo un breve prolungamento della
tortura che si era inflitta: l’inerzia del mezzo sull’erba fradicia lo spingeva
comunque in basso, anche se più lentamente, verso il costone che dava
sull’abisso.
Si chiese se quel gesto automatico corrispondesse a un
suo estremo tentativo di fermare la catastrofe, di salvare sé stessa insieme al
bimbo che certo stava già risentendo del suo terrore: ma ne concluse che non lo
sapeva proprio, per capirlo ci sarebbe voluto del tempo e lei non ne aveva più.
Ma ecco improvviso il silenzio: superato il costone,
l’auto girava lentamente su sé stessa nel vuoto, verso il fondo. La sensazione
di essere senza peso le dette la nausea, una fugace immagine mentale di
astronauti in una navicella persa nel buio spazio infinito e infinitamente
lontano da Elio.
“Ci fosse qua Isxaaq mi abbraccerebbe… potremmo
abbracciarci tutti e tre assieme”, ma subito le riprese l’angoscia: la sua
creatura come avrebbe potuto sentirsi, dentro di lei?
E lui, Isxaaq, dov’era adesso il suo corpo giovane e
bello, il suo sorriso aperto e disarmante, dov’erano le sue carezze da bimbo?
Il bimbo …
Già nei giorni precedenti, quando temeva o sperava
d’essere incinta, pregustava carezze simili dalla minuscola vita che le stava
in grembo, e per qualche momento, in quella giornata, s’era permessa di
immaginare un futuro con un bimbo da amare. Ma: “Non te lo sei meritato!”,
sbraitò una nazista dentro di lei, e si ritrasse sgomenta.
“Ma a Isxaaq cosa stanno facendo, quei balordi?”.
Riuscì ancora in un millesimo di secondo a
visualizzare il tragitto dell’ultima parte della sua vita: da sposa vergine e mamma
dei somali a puttana, e poi in quel burrone.
“Ma quanto durerà ancora?”.
Non dovette attendere molto.
http://machiave.blogspot.it/2016/12/in-principio-fu-il-trauma.html
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