lunedì 4 maggio 2020

Per la morte di Giulietto Chiesa


 
 
Enrico Pozzi
Per la morte di Giulietto Chiesa
 
De mortuis nihil nisi bonum. Spesso questo mi costringe al silenzio. Non per Giulietto Chiesa.
L'ho conosciuto a casa sua, in Via Urbana. Erano i primi anni 90. C'ero andato con Samaritana Rattazzi. Chiesa stava creando un'agenzia di informazione alternativa. Gli servivano reti di rapporti con persone che avessero soldi e influenza. C'erano anche altri, non ricordo chi salvo Vauro.
Aveva la passione serena di chi è impermeabile al dubbio. Tutto aveva una spiegazione, sempre. Il marxismo-leninismo-stalinismo-URSS era la sua definitiva visione del mondo. Non aveva spazio per l'errore, ma solo per il complotto. Alle smagliature e catastrofi così evidenti in tutto ciò cui credeva, rispondeva con la coerenza marmorea del pensiero paranoico. L'epistemologia dei poveri, come l'ha definita bene un intelligente marxiano, Frederic Jameson.
Era simpatico, con la simpatia levigata e la vitalità dei veri credenti. Però mi inquietava la sua identificazione fisiognomica con Stalin, quei baffetti e fronte e taglio dei capelli.
Non era roba per noi. Ce ne andammo ben consapevoli di questo, come si va via da una liturgia di ex-combattenti e reduci.Anni dopo uscì il suo libro sul complotto delle Torri gemelle e dell'11 settembre. Fu la conferma - l'ennesima - che le ideologie totali sono sistemi deliranti. Così era già prima, da sempre, per Giulietto Chiesa, e così fu sempre anche dopo.