Bravo "Con Bobbio tra gli ex allievi del D’Aze (ma lui si nascondeva)"
Francesca Bolino, la Repubblica Torino, 15 febbraio 2020
Quella della facoltà di Scienze politiche di Torino è una lunga storia. E noi la raccontiamo attraverso la vita di Gian Mario Bravo, allievo di Luigi Firpo, che incontriamo nella Fondazione a lui dedicata. Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche dal 1971 e tra i maggiori studiosi del pensiero di Marx e Engels, Bravo ne è stato uno dei primi studenti, poi docente e per quasi vent’anni preside. È parte dell’anima e della storia di questa facoltà che si è intrecciata così tanto con la vita intellettuale e politica di Torino.
Ma cominciamo dall’inizio.
«Sono nato a Torino il 12 agosto del 1934. Abitavamo in Barriera Francia, via Salbertrand. Ho una sorella più grande di me di sette anni che si chiama Adriana. Mio padre, Giuseppe, era un chimico e lavorava in un’industria conciaria.
Mia mamma, Angiola, si prendeva cura della famiglia. Ho fatto i primi due anni di elementari e poi siamo poi sfollati nel 1942 a Villafranca d’Asti dove siamo rimasti fino al 1945. Il paese era vicino a un grande ponte della ferrovia Torino-Genova che è stato bombardato moltissime volte. Ricordo quando i tedeschi, durante i rastrellamenti, venivano a occupare la nostra casa e noi ci rifugiavamo in una piccola stanza, lasciando a loro tutto il resto».
Dove ha continuato gli studi al rientro a Torino?
«Le medie alla Pascoli e poi al d’Azeglio: quest’ultimo periodo, quello del liceo, è stato davvero formativo. Abbiamo avuto una bravissima insegnante di italiano, Azelia Arici, forse una tra le più significative professoresse di Torino. Era stata compagna e amica di Gramsci. Era monarchica, molto aperta e simpaticissima. È stata anche l’insegnante di Luigi Firpo. Ci portava spesso in gita, fuori città, per farci vedere mostre d’arte. Lottava spesso con il nostro preside, un ex fascista, che non condivideva assolutamente queste sue iniziative. Ricordo la mostra di Picasso, a Milano nel 1953: l’unica occasione di vedere esposto l’originale del "Guernica", poi trasferito in Spagna. E poi, sempre a Milano, siamo anche andati a vedere "L’opera da tre soldi" di Brecht».
Amici al liceo?
«Ho avuto come compagno di banco Valerio Zanone e insieme, per due anni, abbiamo fatto il famoso giornaletto del d’Azeglio, lo "Zibaldone". Nella primavera del ’54 abbiamo organizzato uno spettacolo al teatro Gobetti, tratto dall’opera di Wilde "L’importanza di chiamarsi Ernesto", riscuotendo un grande successo».
Che persona era Zanone?
«Forse uno dei più bravi della classe, soprattutto nelle materie classiche, greco e latino. Ricordo che odiava la matematica e le scienze. Era molto apprezzato dai docenti».
E nel 1954 si è iscritto all’Università facendo una scelta originale, seguendo il corso di Scienze Politiche che allora non era ancora una facoltà autonoma. Perché?
«Mi piaceva la politica. I miei genitori erano piccolo borghesi.
Mio papà cattolico e conservatore mi ha però lasciato la libertà di scegliere quali studi fare».
Allora che mondo era l’università?
«Seguivamo i corsi insieme a quelli di giurisprudenza, cosa che non mi è mai piaciuta».
Perché?
(Sorride). «Erano dei gran rompiscatole. Ricordo Giuseppe Grosso che insegnava storia di diritto romano. E poi c’erano i nostri professori che non avevano allievi perché eravamo pochissimi. Seguivo il corso di Luigi Firpo, storia delle dottrine politiche, ed ero da solo. Si era fatto dare il mio numero di telefono e mi chiamava a casa per dirmi che il tal giorno non sarebbe potuto venire. Ho seguito da solo anche il corso di storia moderna di Alessandro Galante Garrone».
Beh, un enorme privilegio però…
«Certo. E poi ho seguito anche le lezioni, da solo, di un allievo di Bobbio, Sergio Cotta, un cattolico intransigente, bravissimo, ma per tutta la durata del corso ha provato a convertirmi!».
E quando ha perso la fede?
«Leggendo Marx ed Engels al liceo. In realtà, però, il mio distacco dalla religione è avvenuto anche attraverso la frequentazione al liceo di alcuni gruppuscoli di sinistra».
E allora torniamo al D’Aze, il liceo classico D’Azeglio. Come si faceva politica allora al liceo?
«Zanone e io eravamo su due barricate opposte: io fino al 1981 sono stato iscritto alla sinistra socialista, anti nenniano, per intenderci. Mentre Zanone era liberale. Nel nostro liceo, ma non nella stessa classe, c’era un ragazzo che si chiamava Ezio Ferrero, figlio di un partigiano comunista che era stato ucciso. Siamo diventati molto amici. Lui, comunista convinto, mi aveva coinvolto in diverse attività politiche. Finita la maturità, a un certo punto, però è scomparso dalla vita cittadina: gli avevano offerto di andare a studiare economia, clandestinamente, a Mosca».
Un giallo. E non l’ha più rivisto?
«È ricomparso, all’improvviso, e pubblicamente, come interprete dal russo dell’allora capo della Fiat Vittorio Valletta, durante la trattativa in occasione della costruzione dello stabilimento a Togliattigrad, nel ‘63. Io l’ho incontrato in seguito: era diventato trotskista e anticomunista. È poi morto tragicamente negli anni Ottanta. E si sospetta che sia stato ucciso dal Kgb. Ma non saprei dirle di più».
Per la sua generazione, nell’Italia del dopo guerra, l’università è stata anche un campo di formazione politica.
«Certamente. Sono stato il segretario dell’Interfacoltà, come si diceva allora il Parlamentino universitario. Era organizzato in raggruppamenti di sinistra che sono rimasti clandestini, fino alla nascita dell’Ugi, unione goliardica italiana, esperienza che Vittorio Emiliani ha raccontato nel libro "I Cinquattottini"».
Ne ha parlato su queste pagine anche Guido Bodrato che ha definito i "cinquattottini" la generazione migliore. È d’accordo?
«Sì, è stato uno spaccato di un’Italia straordinariamente vitale. Ma Bodrato era con la Fuci, mentre noi per conquistare il potere e avere più voti ci eravamo alleati con i monarchici di "Viva V.e.r.d.i…"».
Torniamo alla carriera universitaria. Lei è stato assistente di un grande maestro come Bobbio. Com’era?
«Le racconto questo aneddoto.
Appena terminato il liceo, ero entrato nell’associazione degli ex allievi D’Azeglio che esiste tuttora.
Ero stato eletto come rappresentante dei giovani e Bobbio come presidente. Si organizzavano spesso cacce al tesoro automobilistiche oppure balli allo Sporting club. Ma lui, essendo molto timido e riservato e non sapendo come confrontarsi con quegli "avvenimenti", aveva chiesto a me di fargli da segretario.
E poi lo seguivo nelle molte conferenze che teneva per i giovani all’Unione Culturale assieme ad Alessandro Galante Garrone e suo fratello Carlo e ad Alessandro Passerin d’Entrèves».
E questa singolare apertura con i giovani che denota sensibilità pedagogica, è tornata anche attraverso le parole di Bruno Manghi. In una delle nostre interviste ha raccontato che da semplice studente era andato a chiedere consiglio a un professore che aveva ascoltato al Gioberti. E questo professore gli aveva dedicato tempo e attenzione. Questo professore era Bobbio e lei era il suo assistente.
«È vero, Bobbio ascoltava i giovani e desiderava stare in mezzo a loro.
E proprio assieme ad Alessandro Passerin d’Entrèves e Luigi Firpo, durante gli anni dell’università, nel 1952 aveva fondato l’Istituto di Scienze Politiche in via Po 18, un luogo pensato, appunto, per i giovani».
E Firpo che persona era?
«Un grandissimo oratore. Le sue lezioni erano le più frequentate dell’università soprattutto dagli studenti-lavoratori. Era amato, seguito da tutti. Un vero affabulatore. Ricordo le famose lezioni su Machiavelli e sul filosofo Giovanni Botero… ma, contrariamente a Bobbio, incuteva vera soggezione nei suoi studenti».
Professore, ma in mezzo ai libri, alle carte, alle idee, all’ardore per la politica, a un certo punto ci sarà stato anche l’amore!
(Sorride). «Ho conosciuto una fanciulla nel 1962 a Torino grazie ad alcuni amici. E poi ci siamo sposati in comune nel 1966. E nel 1969 è arrivato Giangiacomo. E la mia vita è cambiata perché mi sono innamorato di lui. Poi però il matrimonio è naufragato ed io sono rimasto con Giangiacomo».
Lei ha dedicato la sua vita allo studio del pensiero di Marx e Engels. Si è a lungo occupato di idee rivoluzionarie e ha vissuto in una città come Torino, in cui il conflitto sociale è sempre stato molto acceso. C’è qualche teoria su cui lei ha indagato che ha poi visto ricadere nella lotta sindacale?
«Le rispondo parlandole di ciò che ho fatto. Nel 1972, Giorgio Ardito, allora segretario della V Lega di Mirafiori, aveva organizzato corsi di formazione per gli operai a cura di giovani intellettuali. Si tenevano ai cambi di turno: uno dalle 10 a mezzanotte per quelli che uscivano alle dieci e l’altro da mezzanotte alle due del mattino per quelli che sarebbero entrati alle due. Io ho fatto alcune lezioni sulla rivoluzione industriale, sulla nascita del sindacalismo in Inghilterra e sul marxismo e le altre dottrine sociali. Per me è stato un’esperienza meravigliosa. Quegli operai erano molto attenti e curiosi…».
Da tutta questa esperienza ne ha ricavato un motto?
«No, non ce l’ho. Sono statalista, sono un uomo delle istituzioni».