venerdì 5 gennaio 2018

Un'italiana in Algeri, 1977



Eugenia Parodi Giusino
Aeroporto Algeri, soli. Primo piccolo trauma
blog formertime and abroad

Atterriamo nell’aeroporto di Algeri, io ed un giovane maestro che avrebbe insegnato nella mia stessa scuola italiana, nelle classi elementari. Per un disguido, vennero a prenderci per accompagnarci ad Orano soltanto 4 o 5 ore dopo l’atterraggio e così sperimentai subito come un viaggio in previsione avventuroso potesse trasformarsi in qualcosa di molto ansiogeno. Infatti nessuno dei due conosceva il francese, io avevo appena fatto in tempo ad imparare le principali coniugazioni dei verbi e un po’ di vocaboli e la mia conoscenza della lingua inglese si rivelò del tutto inutile. Non ci fu possibile telefonare e inoltre, con il passare delle ore, venivamo guardati con atteggiamento diverso dalla semplice curiosità dalle altre persone presenti in aeroporto, che, inutile dirlo, erano quasi tutti uomini (molti ricoperti dal burnus).
Non avevo calcolato (e questo vale per qualsiasi considerazione farò d’ora in poi) quello che la guerra contro i Francesi, iniziata nel ’52 e terminata nel ’64 avesse lasciato negli animi di tutti. Dando troppo valore alla matematica ritenevo che la cultura della colonizzazione, durata 130 anni, fosse profondamente radicata e penetrata nella società,  e avesse creato delle generazioni di algerini-francesi. Trovai una realtà diversa. Infatti, verissima l’enorme influenza francese sull’Algeria, ma ancora più potente il rifiuto che finalmente dal ’64 in poi era cresciuto tra la popolazione. Proprio in questo Paese la Francia aveva attuato una fortissima  politica di discriminazione tra  i coloni, di origine europea, che possedevano cittadinanza francese e diritti, e gli indigeni. Non tutti i coloni (chiamati pieds-noirs, non sono riuscita, nonostante le ricerche, a trovare un’etimologia del termine convincente) erano francesi o francesi còrsi ma vi erano anche italiani, spagnoli, tedeschi. E quello che ho sempre percepito durante la mia permanenza è che, agli occhi degli algerini, un italiano e un francese fossero la stessa cosa. Con quello che consegue.
Se prima di partire avessi letto di F. Fanon oltre che I dannati della terra  anche L’an V de la révolution algérienne (in italiano Sociologia della rivoluzione algerina) o La question di Henri Alleg, avrei avuto chiaro che andare da sola in quel Paese per lavoro e rimanerci 9 mesi era una sfida troppo grande, una provocazione. Quegli otto anni di inferno – preceduti comunque da 130 anni di guerriglia e tensioni – che videro una partecipazione corale di tutta la popolazione, comprese le donne, avevano anche creato una fortissima coscienza nazionale, un orgoglio unico volti – come si legge nella Charte Nationale del 1976 – alla “instaurazione di una società affrancata dal dominio dell’uomo sull’uomo” ed al “consolidamento dell’indipendenza nazionale”.
Lo stesso non si poteva dire per gli altri due Paesi del Maghreb, Tunisia e Marocco, dove la dominazione francese era durata assai meno e dove comunque la storia si era congiunta alla politica in modi che avevano permesso un rilascio dei due paesi  meno traumatico. Nel ’77-’78 la frontiera con il Marocco era chiusa e credo anche con la Libia. D’altra parte a nessuno sarebbe venuto in mente di andare a fare il turista in Libia dato che da lì arrivavano voci terrificanti di shari’a praticata molto letteralmente. Anche in Algeria naturalmente non vi era ombra di turismo. Ho un ricordo splendido e mi considero fortunata per aver potuto vedere  le due città principali, un po’ di costa e quattro o cinque oasi, una delle quali nel Sahara sabbioso, la cui bellezza non si può descrivere.
La disavventura in aeroporto durò poche ore e terminò con il giovane maestro quasi in lacrime praticamente abbarbicato al collo della persona venuta a prenderci. Mi aspettavano altri 9 mesi.

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