Fëdor Dostoevskij, I demoni [1871]
[Stepàn Trofímovič Verchovenskij]
«E alla fine, tutto deriva dall’ozio. Da noi tutto deriva dall’ozio, il male e il bene. Tutto deriva dal nostro grazioso ozio dei signori, colto e capriccioso! Sono trentamila anni che lo ripeto. Noi non sappiamo vivere del nostro lavoro. E perché laggiù ora hanno fatto tanto chiasso per una certa opinione pubblica “nata” da noi, credono forse che sia piovuta dal cielo di punto in bianco? Come mai non capiscono che per avere una opinione occorre prima di tutto il lavoro, il lavoro personale, la propria iniziativa, la propria esperienza! Senza lavoro non si ottiene mai nulla. Se lavoreremo, avremo anche la nostra opinione. Ma siccome non lavoreremo mai, un’opinione ce l’avranno per noi quelli che finora hanno lavorato al nostro posto, cioè quella stessa Europa, quegli stessi tedeschi che sono nostri maestri da due secoli. Inoltre la Russia è un equivoco troppo grande per poterlo risolvere senza tedeschi e senza lavoro. Sono ormai vent’anni che suono l’allarme e invito al lavoro! Ho dato la mia vita a questo invito e, folle, ci ho creduto! Ormai non ci credo più, ma suono e suonerò la campana fino alla fine, fino alla tomba; continuerò a dare strappi di corda, finché non suonerà la campana per la mia messa funebre!»
Leone Ginzburg
Nei Demonî la poesia si innesta sul tronco
originario del libello politico, che ne viene profondamente modificato,
ma non certo trasformato per intero: a Dostojevskij premeva soprattutto
di potersi sfogare contro gli inconcludenti liberali della sua
generazione e contro i rivoluzionari senza scrupoli che, di venti o
trent’anni piú giovani, intorno al 1870 stavano sostituendo i suoi
coetanei sulla scena politica russa; e in quell’epoca gli sembrava di
non trovare mai parole abbastanza forti per svalutare e rimpicciolire,
con la foga di autodenigrazione propria di certi suoi personaggi, le
opinioni che aveva professate un tempo e gli uomini che gliele avevano
ispirate.
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