Marjorie Philibert
David Le Breton, sociologo: "La conversazione è diventata un lusso anacronistico."
Le Monde, 29 novembre 2025
David Le Breton è professore di sociologia e antropologia all'Università di Strasburgo, specializzato in rappresentazioni e rappresentazioni del corpo umano. È autore di *La fine della conversazione? Il discorso in una società spettrale* (Métailié, 2024).
Come definiresti la conversazione?
La conversazione è, per sua stessa natura, un'interazione faccia a faccia. Quando parliamo faccia a faccia, prestiamo attenzione all'altra persona, la guardiamo negli occhi. Quando camminiamo fianco a fianco, ci scambiamo regolarmente occhiate per osservare le espressioni facciali. C'è posto per il corpo, ma anche per il silenzio. Nella conversazione, il silenzio non è un'anomalia, ma semplicemente un respiro, un modo per lasciare che lo scambio segua il suo ritmo. La comunicazione è l'esatto opposto: il volto, il corpo scompaiono. Siamo nel regno dell'utilitarismo, della raccolta di informazioni. Mentre la conversazione è il flusso e riflusso del significato: siamo nel regno dell'incertezza, della spontaneità. Quando attacchiamo una conversazione con il nostro vicino in treno, non sappiamo che direzione prenderà lo scambio. La conversazione è un gioco di equilibri, un piacere, un'arte di vivere.
In che modo si sta estinguendo oggi?
I nostri contemporanei si ascoltano sempre meno. La conversazione è diventata un lusso anacronistico, non una necessità vitale. L'avvento di Internet, e poi dello smartphone, è stato un fenomeno globale che ha creato un vero e proprio confinamento sociale all'interno delle nostre società. Lo smartphone ci divora, ci ipnotizza. Per strada, le persone passano come fantasmi, senza prestare attenzione agli altri. Quando ci si incontra, c'è sempre un interlocutore fantasma che è lì senza esserci: lo smartphone. Lo tiriamo fuori dalla tasca, lo consultiamo a piacimento, impedendoci di riconoscere completamente la persona che abbiamo di fronte. Prima, sui mezzi pubblici, quando iniziavamo una conversazione, ci scusavamo se prendevamo un libro. Oggi è il contrario: tutti sono al telefono e ci scusiamo se, per qualsiasi motivo, dobbiamo parlare con qualcuno.
Quando è scomparsa questa conversazione?
Naturalmente, non si tratta di un fenomeno recente, e la tecnologia digitale non è l'unica responsabile. Sono nato nel 1953 in un quartiere operaio di Le Mans, caratterizzato da un fortissimo senso di comunità. Eppure, già da bambino, mio padre mi diceva: "Oggigiorno, nessuno si saluta più". Questo fenomeno si è accelerato negli anni '80, con il crescente individualismo e la graduale scomparsa delle culture di classe e regionali. Il quartiere in cui sono cresciuto era caratterizzato da una cultura operaia estremamente forte, in cui il sindacalismo giocava un ruolo importante.
Oggi, tutto questo è completamente scomparso. Lo vediamo chiaramente con i "gilet gialli": le persone stavano fianco a fianco ma non condividevano realmente valori comuni, con convinzioni politiche estremamente diverse. Prima, c'era orgoglio nell'essere un contadino o un operaio. Oggi, le classi lavoratrici tendono a provare un senso di indegnità, legato al disprezzo sociale che subiscono. Questo sentimento erode la solidarietà: per raggiungere gli altri, bisogna avere fiducia nella propria identità e nel proprio futuro.
Internet non ha forse ampliato lo spazio di discussione?
È vero, ma in realtà Internet ha soprattutto accelerato la polarizzazione delle opinioni e aumentato la difficoltà del dibattito. Stiamo assistendo a una radicalizzazione delle posizioni che porta rapidamente a scontri e insulti. Sui social media non c'è alcuna sfumatura: si va dritti al punto e si viene immediatamente fatti a pezzi. Il "wokismo" è il culmine di questa impasse nel dialogo: ci sono cose che si possono dire e cose che non si possono dire. Uno "spazio sicuro" è uno spazio in cui ci si sente al sicuro perché gli altri sono d'accordo con noi. Questo riflette ancora una problematica difficoltà a mettersi nei panni degli altri. La cancel culture ha una dimensione ancora più radicale: equivale a "eliminare" dal discorso chiunque non sia d'accordo con noi.
Tuttavia, questo radicalismo esisteva anche negli anni '70…
Sì, certo, a quel tempo la società era piena di ideologie radicali e intransigenti: trotskismo, maoismo, lacanismo... Tutte queste correnti si scontravano, a volte in modo estremamente violento. Ma era anche un'epoca in cui le persone discutevano costantemente: nei licei, nelle università, nei campus, nei caffè... Avevamo degli avversari, ma li affrontavamo faccia a faccia, per così dire, e a volte riuscivamo a riconciliarci. Ci provocavamo a vicenda, gridavamo a un compagno: "Allora, sei ancora trotskista?", ma andavamo a discuterne bevendo una birra al pub. Oggi, il mondo virtuale ci permette di lanciare attacchi molto violenti, nascosti dietro i nostri schermi, che non portano a un dialogo costruttivo.
La crisi della conversazione è una crisi della società nel suo complesso?
Assolutamente. Basta guardare l'attuale crisi politica e la situazione al vertice del governo: si ha la sensazione che i politici siano incapaci di mettersi d'accordo e di trovare un consenso. Viviamo in una società frammentata, dove ognuno è un'isola in un vasto arcipelago. Di fronte a questo, l'istituzione di terzi luoghi o spazi riservati alla conversazione rappresenta letteralmente una forma di resistenza.

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