Alessandra Giardini
Il mondo intorno a Tadej Pogačar, l'uomo che corre contro se stesso
Domani, 25 luglio 2025
Che cosa c’è dietro Tadej Pogačar? È la domanda, non priva di accenti maliziosi se non decisamente sospettosi, che si fanno molti, se non tutti, quelli che assistono a uno sport dominato come da anni non si vedeva.
L’accostamento più vicino a noi è quello con Eddy Merckx, il cannibale belga che ha appena compiuto 80 anni e che comunque ha smesso di correre nel 1978, vent’anni prima che Pogačar venisse al mondo. Merckx, che come lui vinceva classiche e grandi Giri, si è fermato a 5 Tour de France, Pogacar sta per vincere il quarto a 26 anni.
Alla sua età Lance Armstrong non aveva ancora vinto il primo dei suoi 7 consecutivi. Ma l’americano non può essere un paragone, perché dopo la confessione gli sono stati tolti tutti: si dopava, non vale. Il ciclismo sconta un passato difficile da condonare, e purtroppo per lui Pogačar, come tutti coloro che hanno vestito la maglia gialla in tempi recenti, deve passare dalle forche caudine del sospetto.
Dominare in uno sport con un passato così inquinato inevitabilmente suscita diffidenza. Anche perché Pogačar non padroneggia un’epoca in cui la concorrenza è scarsa quantitativamente e qualitativamente: al contrario, l’ultimo decennio ha visto salire al trono del ciclismo una delle generazioni più felici di sempre.
Generazione di fenomeni
Sono fortissimi, sanno fare tutto, e lo fanno sorridendo in camera. Quando arrivano al traguardo non dicono «Ciao mamma» come ai tempi eroici ma sanno raccontare le loro fragilità passando con disinvoltura da una lingua all’altra.
Sono gli epigoni di Peter Sagan, lo slovacco che ha cambiato una volta per tutte il suo mondo: da sport della fatica, del sacrificio estremo, delle camere d’aria tenute con i denti a un ragazzo che vinceva impennando sul traguardo, firmando autografi in salita invece di rendere l’anima a un qualche dio, cantando le strofe di Toto Cutugno in gruppo per non morire di noia.
Proprio mentre lui stava precocemente invecchiando, consumato da tanta rapidità di esecuzione, veniva allo scoperto una generazione di pietre preziose: una diversa dall’altra, una più brillante e sfaccettata dell’altra. Non potevamo credere ai nostri occhi: hanno spazzato via anni di luoghi comuni.
Non è vero, come ci avevano insegnato i padri, che il ciclismo ha bisogno di attesa, di calcoli, di stagioni. Loro sanno vincere all’esordio, appena scesi da un periodo in altura, loro vanno in fuga a 100 km dal traguardo, loro accendono la corsa nei primi metri e fanno fuoco e fiamme fino alla fine, loro usano l’intuito e la fantasia in un mondo affidato ormai alle intelligenze artificiali, loro padroneggiano tutte le discipline del ciclismo, senza confini né limiti. Sono lo specchio dei loro coetanei là fuori: veloci, iperconnessi, pronti.
Il team
Pogačar tutto questo lo fa meglio degli altri: superbe qualità innate, feroce determinazione, preparazione rigorosa, clamorosa volontà di imparare dai propri errori per non ripeterli una seconda volta. E una quotidianità totalmente votata a diventare esattamente quello che oggi ci sorprendiamo di avere di fronte.
In una squadra – la UAE Team Emirates – che in dieci anni ha fatto una strada altrettanto rapida. Andrea Agostini, 55 anni, è il direttore operativo di tutto il gruppo nonché ceo della struttura italiana. Ha un passato nel calcio in Serie A (nel Cesena) e uno ancora più lontano da ragazzino di Cesenatico che correva in bicicletta dai tempi delle elementari con il suo miglior amico, Marco Pantani.
«Raccogliamo i risultati di una visione, volevamo diventare un punto di riferimento nel ciclismo. La proprietà emiratina ci ha messo nelle condizioni migliori, con un management stabile da nove anni. Ora siamo 150 tra staff e corridori, di 21 nazionalità diverse. La crescita è stata molto rapida, la squadra è soltanto l’ultimo pezzo. Quando funziona tutto, i corridori possono stare tranquilli».
Sono 29 nella squadra World Tour e 12 nella Gen Z, quella dei prossimi campioni. «Ci sono differenze abissali col passato, questa è una generazione molto preparata, quasi tutti hanno studiato, parlano almeno due lingue, hanno una mentalità molto aperta, e sono preparati tecnologicamente. Sono pronti a gestire tutto il corollario: soldi, impegni, fama. La pressione che ha addosso uno come Tadej è enorme, ma attorno ha anche una struttura che vent’anni fa era impensabile».