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Lo straniero |
Correspondance 1945- 1959 (2017)
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Lo straniero |
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Eléonore Duplay, la presunta fidanzata di Robespierre |
Sergio Luzzatto
I pentimenti autografi di Robespierre. Lo Stato francese ha pochi giorni di tempo per acquistare 116 fogli manoscritti dell’incorruttibile: i suoi discorsi con correzioni e ripensamenti
… bisogna partire da una singola casa della Parigi di fine Settecento, e dalla famiglia che la abitava. La casa era situata al n. 366 della rue Saint-Honoré, in pieno centro, a due passi da dove si riuniva la Convenzione. La famiglia era quella di Maurice Duplay, un imprenditore di falegnameria presso il quale Maximilien viveva come inquilino in alcuni locali del primo piano, mentre suo fratello minore Augustin – detto “Bonbon”, lui pure deputato della Montagna – e la sorella Charlotte affittavano un’altra ala dell’immobile. Giacobino fervente, Duplay aveva in casa due figlie. La maggiore, Éléonore, era qualcosa come la fidanzata dell’austero Maximilien. La minore, Elisabeth, era legata a Philippe Lebas, un giovane deputato della Convenzione che proveniva dallo stesso dipartimento dei fratelli Robespierre, il Pas-de-Calais, e che si era andato illustrando – insieme al collega Saint-Just – come un montagnardo fra i più efficienti nella mobilitazione delle armate repubblicane. A sua volta Lebas aveva una sorella minore, Henriette, sentimentalmente legata a Saint-Just… Perché la Rivoluzione, oltreché un terremoto politico, era un terremoto affettivo: nella promiscuità del mondo capovolto c’era spazio per l’amore oltreché per il Terrore. Quello fra Elisabeth Duplay e Philippe Lebas fu un grande amore. Se ne è conservata traccia nelle lettere che il montagnardo inviò alla ragazza – appena ventenne – prima e dopo il loro matrimonio, dalle frontiere dell’Est e del Nord dove combatteva con Saint-Just la guerra della Repubblica contro la coalizione dei monarchi europei. «Una lettera da te è senza dubbio una grande consolazione, ma non è te; niente può supplirti, e io avverto a ogni istante quanto mi manchi». «Quando siamo in carrozza e il mio collega, stanco, smette di parlare o si addormenta, io penso a te; se mi addormento anch’io, ancora penso a te». Elisabeth e Philippe si sposarono il 26 agosto 1793. Dieci mesi dopo nacque loro un figlio maschio, che ebbe il nome del padre e che sarebbe divenuto – nell’Ottocento – un insigne grecista e il bibliotecario capo della Sorbona. Ma Philippe junior non potè conoscere il suo papà: era un neonato di sei settimane il 9 termidoro, quando nell’aula della Convenzione Lebas chiese di essere arrestato insieme all’amico Saint-Just, e si sparò un colpo in testa poche ore prima che Saint-Just stesso, Maximilien Robespierre e Augustin salissero i gradini del patibolo fra i lazzi del popolo di Parigi. Restarono vive le donne, giovani donne segnate a dito come mogli o sorelle o compagne dei “tiranni”, e con fin troppa vita davanti a sé: Éléonore Duplay, Elisabeth Lebas, Charlotte Robespierre. Delle tre, la vedova di Lebas fu l’unica a interpretare con fermezza il ruolo della sopravvissuta. Incarcerata per alcuni mesi con il figlio al seno, quando uscì di prigione (nel frattempo, anche sua madre si era suicidata in carcere) Élisabeth non si accontentò di sbarcare il lunario come lavandaia sulla Senna, volle diventare una vestale della memoria di chi era caduto a Termidoro. Addirittura, secondo una tenace tradizione repubblicana, Élisabeth Lebas barattò il proprio vestito di nozze contro un ritratto a pastello di Saint-Just: il “bel ritratto” che Jules Michelet avrebbe ammirato con i suoi occhi, decenni più tardi, in occasione di una sua visita alla “venerabile signora”. Ed era stata proprio Élisabeth – molto probabilmente – a nascondere gli autografi di Maximilien Robespierre all’indomani del 9 termidoro, quando la polizia credeva di avere perquisito ogni angolo di casa Duplay. I poliziotti riuscirono bensì a sequestrare un buon numero di carte, e a bruciarle quasi tutte: ma non trovarono i manoscritti che contenevano i discorsi più importanti dell’Incorruttibile, rimasti poi per due secoli presso i discendenti dei Lebas […]. Oltre a Michelet, un altro grande storico ottocentesco della Rivoluzione francese – il poeta e politico Alphonse de Lamartine – ebbe modo di incontrare Élisabeth da vecchia: gli parve «una donna della Bibbia dopo la dispersione delle tribù di Babilonia». …
Il Sole 24ore, 29 maggio 2011
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Blanche Toutain, attrice francese nota per la sua interpretazione di Eléonore Duplay |
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L'ingresso del mausoleo |
Boris Souvarine
Stalin (1935)
Benché Lenin non partecipasse più alla direzione del Partito e dello Stato, il suo tenue legame con la vita manteneva tuttavia nel bolscevismo il rispetto di una certa tradizione marxista formale, arginava ancora la tendenza degli eredi a sacrificare i princìpi agli interessi immediati del potere, conteneva infine le ambizioni intorno all’eredità di Ottobre. La sua morte [21 gennaio 1924] libera da ogni scrupolo dottrinale gli epigoni, che mettono liberamente in atto la propria iniziativa, rivelando a poco a poco la vera natura del loro dominio. Le prime misure adottate al Politbjuro estendono il lutto imponendolo in vari modi a tutta la popolazione con l’intento di sfruttarlo a fini particolari. A Mosca la milizia ordina, sotto pena d’ammenda, di esporre le bandiere e di abbrunarle prima ancora che se ne conosca il motivo. Col pretesto di onorare il ricordo del defunto, l’apparato ricorre ai più grossolani artifici delle religioni feticiste, modernizzati dai metodi della pubblicità più triviale. La stampa comincia a suscitare una mistica fittizia, a elaborare un culto di circostanza per sottomettervi la folla ignorante che sarebbe suo compito illuminare. Imbalsamato come un faraone, il corpo del grande rivoluzionario materialista è usato per interminabili e spettacolari cerimonie, esposto in permanenza alla curiosità pubblica, suscitata, attizzata e alimentata con tutti i mezzi, catturata e convogliata in un corteo quasi perpetuo. Davanti al muro del Cremlino un santuario consacra l’inconsapevole oltraggio dei leninisti alla memoria di Lenin. Vi si attirano i curiosi, vi si mandano i lavoratori obbligatoriamente in orario di lavoro, vi si trascineranno i bambini, in attesa della processione senza fine di contadini superstiziosi mescolati a turisti increduli… La tomba di Karl Marx, nel cimitero di Highgate, consiste in una semplice pietra. Le spoglie di Engels furono incenerite, l’urna delle ceneri gettata nel mare del Nord. Ma nel XX secolo, nell’unico paese il cui regime si richiami al Manifesto comunista, una salma illustre sarà esposta con grande cerimoniale in un monumento sepolcrale, ispirato al mausoleo di Tamerlano. Il contrasto è significativo non solo negli aspetti esteriori, poiché all’imbalsamazione delle spoglie di Lenin corrisponde nell’Internazionale comunista la mummificazione dell’opera del suo fondatore, la cristallizzazione del suo pensiero incompreso da coloro che se ne proclamavano eredi naturali e detentori qualificati, ma che invece non erano neppure capaci di comprendere l’antico detto: « I grandi uomini hanno per tomba l’universo intero ». Non era sufficiente che Lenin fosse stato un eroe, un superuomo, un genio; i triumviri della trojka lo trasformano in una sorta di divinità di cui aspirano a essere considerati i profeti. Divinizzandolo, preparano la propria beatificazione futura. Secondo loro, Lenin sapeva tutto, aveva visto tutto, previsto tutto, detto tutto, predetto tutto. Il suo ritratto in piedi o a mezzo busto, di faccia e di profilo, modellato in statuette, coniato su medaglie, fuso in distintivi, tessuto su fazzoletti, stampato, inciso, sbalzato, ricamato, riprodotto a milioni di esemplari, soppianta le icone in una concorrenza di ortodossie rivali. La stessa effigie torna in modo ossessivo sui muri, nelle stazioni, nelle vetrine delle drogherie, e si moltiplica sui piatti, sui portaceneri, sui pacchetti di sigarette, sui più piccoli oggetti d’uso comune. Una iconografia pia e antiestetica illustra in bianco e nero e a colori una letteratura indigesta e ampollosa che trabocca in prosa e in versi. [...] Alcuni fotografano la poltrona di Lenin, altri collezionano le sue reliquie. Dappertutto vengono battezzate col suo nome città, strade, istituzioni, industrie, club, stadi, innumerevoli luoghi e cose. Pietrogrado diventa Leningrado, e ci sarà Lenino, Leninsk, Leninskaja Sloboda, Leninakan, Leninsk-Kuzneckij, Ul’janovsk, Ul’janovska. Uno zelo febbrile ispira i progetti commemorativi più bizzarri. Sotto il sottile strato di vernice, già sbiadita, delle teorie marxiste di importazione riappare il viso ben noto della vecchia Russia barbarica. Più di chiunque altro Stalin conduce l’orchestrazione di queste chiassose manifestazioni di delirio collettivo, in cui il farisaismo si unisce all’impeto spontaneo. [...] Anche ai tempi della Rivoluzione francese, dopo l’assassinio di Marat, la cronaca registrò numerose stranezze. Davanti alla sbarra della Convenzione, non mancò chi presentò una petizione per proporre: « Che il corpo di Marat venga imbalsamato e portato in tutti i dipartimenti… Che il mondo intero veda le spoglie di questo grand’uomo! »; un oratore al Club dei Cordeliers intonò un cantico: « Cuore di Gesù, cuore di Marat! »; alcuni apologeti attribuirono a vari luoghi il nome dell’Ami du peuple, per esempio chiamarono Montmartre Mont-Marat. Ma si trattava dell’espressione ingenua di una spontanea esplosione di emozione popolare, non di un calcolo cinico dei dirigenti, e inoltre i sans-culottes non pretendevano di professare il materialismo storico né citavano Il Capitale. E ci fu pure un Robespierre per rimpiangere che ci si occupasse « di iperboli esagerate, di figure retoriche ridicole e vuote di significato, invece di pensare ai rimedi che la situazione del paese esigeva » e opporsi alla assunzione al panteon di Marat, il quale aveva prevenuto con le sue proteste « questo affronto sanguinoso » e si era premunito scrivendo: « Preferirei mille volte non morire mai piuttosto che dover temere un così crudele oltraggio ». Ci fu un David per dichiarare alla Convenzione: « I suoi funerali avranno la semplicità che si addice a un repubblicano incorruttibile, morto in dignitosa povertà »; ci fu anche un Hébert per dire ai giacobini: «C ’è chi vorrebbe far credere che noi vogliamo sostituire un culto con un altro. Costoro fanno processioni e cerimonie religiose per Marat come per i santi. Già in passato abbiamo impedito questa profanazione, manteniamo una rigorosa sorveglianza… ». Nella Russia sovietica, la sola Krupskaja fu tanto lucida e veramente fedele allo spirito di Lenin da incitare i seguaci della fede leninista a moderarsi: « … non permettete che il vostro cordoglio per Il’ič assuma la forma di reverenza esterna verso la sua persona. Non erigetegli monumenti, non intitolategli palazzi, non organizzate solenni manifestazioni per commemorarlo, eccetera: a tutte queste cose egli attribuiva così poca importanza durante la sua vita, tutte queste cose gli erano così fastidiose. Ricordate quanta gente vive ancora in povertà e abbandono nel nostro paese. Se volete onorare il nome di Vladimir Il’ič, costruite nidi, asili, case, scuole, biblioteche, centri medici, ospedali, case per invalidi, eccetera, e soprattutto mettete in pratica i suoi insegnamenti ». Ma questa voce discreta e dignitosa non trovava ascolto nel concitato fervore dell’adorazione ufficiale. Il Congresso dei soviet decise, come tutta risposta, di erigere sei monumenti…
Boris Souvarine, Stalin
Questo libro è il primo che abbia detto alcune essenziali verità su Stalin. E le ha dette così presto, e con tale nettezza, che la sua presenza ha accompagnato come un’ombra gli ultimi vent’anni di vita del capo sovietico, oltre che la sua fortuna postuma. Non solo: le ha dette per bocca di uno storico che era stato uno dei segretari della Terza Internazionale, uno dei fondatori del Partito Comunista Francese, collaboratore di Lenin, Trockij, Zinov’ev, Bucharin, Radek, Rakovskij, Klara Zetkin, Gramsci, Bordiga, infine amico e compagno di Simone Weil nelle lotte del sindacalismo rivoluzionario in Francia. Souvarine giunse dunque a capire la natura di Stalin e del bolscevismo dall’interno, e da un interno assai intimo, senza però che la sua visione fosse a sostegno di un certo bolscevismo contro un certo altro, come avvenne invece ai molti trockisti che denunciarono i misfatti di Stalin negli Anni Trenta. Souvarine presentò per la prima volta all’Occidente un’immane quantità di fonti e documenti, fino allora ignorati o letti rozzamente: e soprattutto illuminò questo materiale con una lucidità e una fermezza esemplari, che vi facevano risaltare non solo il profilo della persona Stalin ma quello che Souvarine chiamò il «disegno storico del bolscevismo».
Pubblicato a Parigi nel 1935, dopo complesse vicissitudini editoriali, lo Stalin di Souvarine ebbe un’edizione ampliata nel 1940 – e infine, nel 1977, dopo lunghi anni in cui il libro era introvabile e ricercatissimo, riapparve nell’edizione che qui si presenta, con l’aggiunta di un capitolo sugli ultimi anni di Stalin e di una preziosa prefazione in cui l’autore ha raccontato la tortuosa storia della sua opera. A Georges Bataille, amico di Souvarine, che gli chiedeva notizie sulle decisioni dell’editore Gallimard riguardo allo Stalin, André Malraux rispose: «Penso che lei abbia ragione e, con lei, Souvarine e i vostri amici, ma sarò dalla vostra parte quando sarete i più forti». Il tempo sembra aver rafforzato in modo inaudito, con le rivelazioni e i fatti che si sono sgranati negli anni, la posizione di Souvarine. Ma non per questo oggi il suo libro si pone dalla parte dei «più forti». Rimane il fatto che rare volte gli eventi hanno a tal punto accentuato l’attualità di un libro di storia contemporanea come in questo caso. Tre decenni prima che il mondo occidentale cominciasse a capire il significato della sigla GULag, Souvarine scriveva: «Se si pensa alle condizioni miserabili dei milioni di deportati, alle masse di forzati maltrattati e ai campi di concentramento nei quali una spaventosa mortalità apre larghi vuoti, ai campi di isolamento e alle carceri gremite, ai milioni di bambini abbandonati fra cui una esigua percentuale riesce a sopravvivere alle esecuzioni capitali e alle spedizioni punitive, in breve alle moltitudini “falciate a larghe bracciate” da Stalin, non c’è da stupirsi davanti agli immensi carnai di questa gigantesca prigione definita con doppia antifrasi “patria socialista”». (presentazione editoriale)
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Giorgio de Chirico, Il contemplatore, 1976 |
Mauro Magatti
Riflessione. Le buone ragioni per non rassegnarsi alla guerra e alle ingiustizie
Avvenire, 5 luglio 2025
Di fronte alla diffusione della guerra come metodo per risolvere le controversie politiche, al riscaldamento globale che minaccia le condizioni stesse della vita sul pianeta, alle ingiustizie clamorose che scavano abissi tra privilegiati ed esclusi, all’odio verso lo straniero e il diverso che fa crescere razzismo e xenofobia, la tentazione della rassegnazione è forte. Disorientati e stanchi, siamo spinti ad abbassare lo sguardo, pensando che tutto questo sia ormai inevitabile, quasi scritto in un destino ineluttabile della storia.
Si tratta di un inganno: perché accettare passivamente la violenza, l’ingiustizia e la distruzione significa rinunciare a ciò che ci rende umani, ossia la capacità di reagire, di immaginare alternative, di costruire un mondo diverso.
Eppure la domanda resta: come è possibile che società così avanzate – dotate di conoscenze scientifiche straordinarie, di capacità tecnologiche mai viste prima, di risorse economiche enormi, di un patrimonio culturale immenso – rivelino tratti tanto arcaici?
Com’è possibile che, mentre inviamo sonde su Marte e decifriamo il genoma umano, la guerra di trincea torni a insanguinare l’Europa, le carestie continuino a devastare interi continenti, le persone muoiano di fame e sete alle porte di città opulente, e si erigano muri contro chi scappa da guerre e disastri?
Questa contraddizione - tra il livello raggiunto dalle nostre società e la brutalità di tante nostre azioni - è uno degli scandali più grandi del nostro tempo. E ci dice qualcosa di importante: che la civiltà non è solo una questione di tecniche e ricchezze. La civiltà è una questione di visione, valori, relazioni. Si può possedere la tecnica più sofisticata e usarla per distruggere; si può accumulare ricchezza senza alcun rispetto per chi resta indietro; si può avere accesso a infinite informazioni senza diventare più saggi. Non basta, dunque, la crescita economica a salvare il mondo, né basta la tecnologia.
E se la storia recente ci ha insegnato qualcosa, è proprio questo: che le meraviglie della scienza e dell’economia possono convivere con l’abisso morale, possono addirittura alimentarlo, quando non sono guidate da un’idea più alta di umanità. Di fronte a questa amara consapevolezza, non ne deriva necessariamente rassegnazione. Al contrario, è possibile leggere in mezzo ai tanti disastri un messaggio di speranza.
Proprio questo tempo, segnato da ferite profonde, ci sollecita a un cambiamento più radicale: il superamento di visioni dualiste che separano la ragione strumentale dalla saggezza spirituale. Per troppo tempo abbiamo coltivato l’illusione che bastasse “sapere come fare” - come produrre, come dominare la natura, come vincere la concorrenza - dimenticando di chiederci “perché farlo” e “a che scopo”.
La ragione strumentale, che è il cuore della modernità, ci ha permesso di conquistare il mondo esterno, ma ci rende ciechi al mondo interno, al senso delle cose, alla qualità delle relazioni, alla responsabilità verso il futuro. Proprio la separazione tra sapere tecnico e saggezza morale è alla radice delle nostre contraddizioni. È ciò che ci ha permesso di sviluppare tecnologie capaci di migliorare la vita di molti, ma anche di distruggere ecosistemi e società. Di alimentare un’economia che crea ricchezza per pochi abbandonando masse di persone nella miseria. Di trattare la terra come una macchina da sfruttare anziché come una casa comune da custodire. Superare questa frattura significa riscoprire la nostra umanità più profonda, quella che non si accontenta di calcoli utilitaristici ma sa riconoscere a far vivere valori e significati.
Significa rimettere insieme la ragione che efficientizza e la saggezza che orienta, la capacità di innovare e la capacità di prendersi cura. Significa, in definitiva, ricomporre ciò che abbiamo spezzato: l’unità tra il pensare e il sentire, tra l’individuo e la comunità, tra l’essere umano e la terra. Questa la via che siamo chiamati a percorrere, ancora di più al tempo dell’Intelligenza Artificiale.
In un mondo in cui le vecchie ricette non funzionano più, in cui la sola crescita economica non porta giustizia e la sola innovazione tecnologica non porta pace, ciò che più va coltivato è una cultura della responsabilità, della cura, della solidarietà. Ci sono dunque buone ragioni per non rassegnarci. È infatti nell’alleanza tra la lucidità della ragione e la profondità della saggezza spirituale che è possibile spezzare le catene della violenza, ridare equilibrio al pianeta, sanare le ingiustizie e accogliere l’altro come parte di noi. Non è un sogno ingenuo: è la sfida più concreta e necessaria che il nostro tempo ci affida. Sta a noi raccoglierla.
Sergio Luzzatto
Padre Pio. Miracoli e politica nell'Italia del Novecento
Einaudi, Torino 2009
... Lontano dalla Germania del nunzio Pacelli, lontano anche dalla Bergamo del reverendo Roncalli, nel convento semivuoto di un paesone del Gargano, anche un frate cappuccino visse il 20 settembre 1918 come una giornata eccezionale: tanto eccezionale che dovette sembrargli ozioso porre mente al calendario, chiedendosi se la coincidenza degli eventi con l’anniversario di Porta Pia non rivelasse essa stessa la mano di Dio. Verso le nove di mattina di quel giorno, mentre da solo si raccoglieva in preghiera davanti a un crocifisso nel coro della chiesa conventuale, padre Pio da Pietrelcina vide pararsi dinanzi a sé «un misterioso personaggio» che perdeva sangue dalle mani, dai piedi e dal costato. Sgomento, il frate trentunenne invocò l’aiuto del Signore. La figura si dileguò all’istante, ma il terrore di padre Pio non poté che aumentare quand’egli scopri che le stigmate della crocifissione di Gesù si erano iscritte sul suo proprio corpo: «mi avvidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue». «Tutto il mio interno piove sangue e più volte l’occhio è costretto a rassegnarsi a vederlo scorrere anche al di fuori»; «temo di morire dissanguato».
...
La Grande Guerra aveva segnato l’ora del ritorno di Cristo sulla terra. Tale almeno l’interpretazione che ne avevano dato, da entrambi i lati delle Alpi, i retori dell’union sacrée, gli alfieri chierici e laici della crociata anti-teutonica. L’elogio politico della sofferenza e la fascinazione spirituale per il dolore erano naturalmente sfociati nell’idea che il conflitto mondiale equivalesse a un interminabile Venerdì Santo, che le indicibili pene dei soldati corrispondessero alle tappe di un calvario collettivo provvidenzialmente destinato alla salvezza del genere umano. Altrettanto indicibili, le pene delle madri dei caduti avevano trovato una rappresentazione diffusa nell’icona letteraria e figurativa della Mater dolorosa: l’Addolorata che regge il Cristo morto nel gesto supremo di elaborazione del lutto, la Pietà. In Italia, era toccato a Gabriele D’Annunzio conferire un massimo di distinzione a questi luoghi comuni della propaganda. Nei suoi Canti della guerra latina, straripanti di citazioni bibliche, il soldato era Cristo, la guerra era la sua Passione. Ma la vertigine dell’imitatio Christi non aveva colto soltanto i poeti laureati. Sin dentro le trincee, nel materico universo dei combattenti, era stato tutto un affollarsi – variamente religioso o superstizioso –dei più diversi simboli cristici. Croci, chiodi, crocifissi: fra il rimbombare dei cannoni e l’esplodere delle granate, la figura di Gesù si era trovata al centro di un urgente quanto ambiguo sistema di segni.
Fine o rinascita, distruzione e resurrezione? L’immensità del trauma rappresentato dall’esperienza di trincea aveva reso confuse le nozioni stesse di vita e di morte. Ossessiva, nei soldati al fronte, la paura di rimanere sepolti vivi. Ricorrente il pensiero di se stessi come morti viventi. Diffusa la leggenda di un ritorno dei caduti. Nel lessico di un poeta italiano traumatizzato dallo shell shock, Clemente Rebora, la Grande Guerra aveva inaugurato per il genere umano una nuova dimensione esistenziale, quella della «vitamorte». Parevano darne conferma, ai quattro angoli dell’Europa, milioni di reduci sfigurati o mutilati: uomini sul viso e sul corpo dei quali una tecnologia militare mai cosi devastante aveva impresso il proprio segno indelebile, le crudeli stigmate della modernità. Alcuni di quei mutilati si prestavano a ostendere le proprie ferite come un ulteriore argomento di propaganda patriottica: in Italia, attraverso personaggi simbolo quali Giuseppe Caradonna o Carlo Delcroix, promessi a un bell’avvenire di gerarchi fascisti e cantori del duce.
Le ferite di padre Pio non avevano nulla di patriotticamente edificante. Il frate cappuccino era rimasto anzi estraneo al trauma della guerra guerreggiata: ancorché arruolato come prete–soldato, era riuscito a vivere il conflitto dal fondo estremo delle retrovie. Nondimeno, certe intense sue parole dell’autunno 1918 riecheggiavano formule dei combattenti. Scrivendo al direttore spirituale all’indomani di Vittorio Veneto, padre Pio non definiva forse la propria condizione come quella di un «vivo morto»? E il frate non aveva forse ragione di sentirsi lui stesso, a suo modo, un sopravvissuto alla più grande delle guerre? Nell’inferno delle trincee sulle Dolomiti e sul Carso, i soldati del Regio Esercito avevano vinto la loro battaglia contro il demonio germanico, ma ne erano rimasti segnati nel corpo e nello spirito. Nell’inferno di una cella conventuale del Gargano, il cappuccino di Pietrelcina aveva vinto la sua battaglia contro le tentazioni del diavolo, ma ne era rimasto segnato nel corpo e nello spirito.
Senonché, le ferite dei reduci e le ferite di padre Pio differivano in qualcosa di essenziale. Le une erano stigmate nel senso metaforico del termine: corrispondevano (secondo la forte immagine di un poeta sfigurato, Nicola Moscardelli) al tatuaggio che la Grande Guerra aveva voluto iscrivere sulle carni di un’intera generazione. Le altre erano stigmate nel senso letterale del termine: corrispondevano al marchio che il Signore aveva voluto iscrivere sulle carni di un singolo individuo. Da qui –per chi voleva crederci –la diversa portata di quelle ferite. Le stigmate metaforiche dei reduci potevano contribuire tutt’al più alle alterne vicende di una storia profana. Le stigmate letterali di padre Pio promettevano di contribuire alle meravigliose vicende di una storia sacra.
Tanto più lo promettevano, in quanto l’autunno del 1918 era una stagione straordinaria nella sensibilità collettiva: enormemente bisognosa di sacro. Non si trattava soltanto della guerra mondiale, che da tempo seminava ovunque la paura, la sofferenza, il lutto: una guerra ormai cosi insopportabile da diffondere per ogni provincia d’Italia le voci più incontrollate sui misteriosi poteri di fanciulli in grado di propiziare la fine del conflitto o sulla miracolosa apparizione di Madonne messaggere di pace. A partire dalla tarda estate di quell’anno, al carico di terrore e di dolore della Grande Guerra si aggiunse un nuovo peso, altrettanto gravoso o più ancora: l’epidemia di influenza «spagnola», che in Italia prese a mietere vittime nell’agosto, e che in sette mesi avrebbe provocato un numero maggiore di morti che tutti i nostri caduti nel conflitto mondiale . Se la guerra aveva decimato gli uomini, la spagnola si accani soprattutto contro le donne, almeno nelle regioni della penisola dove più precaria era l’igiene e più carente l’alimentazione. Tra queste, la Puglia; e tra le province pugliesi, quella di Foggia. Nel solo comune di San Giovanni Rotondo, che non superava i diecimila abitanti, fra settembre e ottobre del 1918 l’epidemia influenzale provocò circa duecento vittime.
Padre Pio ricevette le stigmate quando la morte andava bussando a tutte le case di San Giovanni, del Gargano, della Puglia, dell’Italia, dell’Europa. Dunque, quando eccezionalmente accorate salivano verso i pastori di anime, da parte di ogni agnello del gregge, una preghiera di protezione, una richiesta di intercessione, una domanda di grazia. Beninteso, i ministri di Dio potevano cavarsela come il sacerdote veneto che ai parrocchiani falcidiati dalla spagnola si contentava di spiegare: «abbiamo avuto un carnevale troppo lungo, ora forse segue una più lunga quaresima». Allora come sempre, gli uomini di chiesa disponevano dell’argomento di una contrapposizione necessaria fra bisogni dell’anima e bisogni del corpo, che nei momenti di crisi giustificava a fortiori la raccomandazione di un programma penitenziale. Sta di fatto che agli sgoccioli della Grande Guerra e all’indomani della sua fine, gli uomini e le donne di fede potevano ben reclamare dai pastori di anime qualcosa di più dell’assistenza spirituale garantita nei tempi ordinari. Da buoni cristiani, potevano sperare che un qualche individuo d’eccezione – un santo – riuscisse a liberarli da tutto il male che li circondava: dalla malattia, dalla miseria, dal lutto. Addirittura, come in altri apocalittici momenti nella storia del cristianesimo, potevano convincersi che il Signore fosse disponibile a incarnarsi una seconda volta, per regalare all’umanità peccatrice una nuova redenzione.
La scena madre del 20 settembre 1918 – l’oscuro frate del Gargano che un bel mattino, pregando, viene segnato dalle cinque piaghe di Cristo – va situata entro lo specifico del suo contesto: nell’atmosfera spirituale che si respirava in Italia e in Europa all’uscita dall’ecatombe bellica. Molti secoli innanzi, il trauma della Peste Nera aveva promosso nella sensibilità collettiva una devozione più inquieta che prima, più impaziente, più supplichevole. Qualcosa di simile si verificò all’indomani della Grande Guerra, nel momento genetico della fama di santità di padre Pio. Dal punto di vista del frate e dei suoi direttori di coscienza, le stigmate non erano che l’ultima tappa di un percorso mistico iniziato da anni; nella prospettiva dei fedeli, quelle stigmate rappresentavano un evento altrettanto tempestivo che strabiliante. Cosi, non si dovette attendere a lungo prima che schiere di uomini e di donne prendessero a sollecitare la figura del cappuccino stigmatizzato.
I santi servono essenzialmente a compiere miracoli. Nell’orizzonte d’attesa dei devoti anche padre Pio fu soggetto a questo intrinseco mandato. Ricostruire la storia del frate con le stigmate significa quindi, tra l’altro, ricostruire la storia dei suoi miracoli: guarigioni, apparizioni, conversioni. Una storia da scrivere (non sarà inutile precisarlo) facendo proprio l’atteggiamento degli antropologi, che rinunciano a priori a distinguere la realtà dalla leggenda; o una storia da scrivere alla maniera dei medievisti, agnostici per professione. Diciamolo sin dall’inizio, forte e chiaro: qui, non si tratta di stabilire una volta per tutte se le piaghe sul corpo di padre Pio siano state vere stigmate, né se le opere da lui compiute siano stati veri miracoli. Chi cercasse in questo libro la risposta –affermativa o negativa –a domande di tal genere, farà bene a chiuderlo subito. Qui, le stigmate e i miracoli di padre Pio interessano meno per quanto rivelano di lui che per quanto rivelano del mondo intorno a lui: il variopinto mondo di frati e di preti, di chierici e di laici, di credenti o di atei, di buoni o di cattivi, di astuti o di ingenui, di colti e di ignoranti che nel carattere soprannaturale di quelle stigmate e di quei miracoli hanno creduto, o hanno rifiutato di credere. Quale pratica sociale, la santità comporta rituali d’interazione; i santi contano per come appaiono, non per come sono!
Il possibile margine di equivoco intorno alla maniera appropriata di fare storia di padre Pio contribuisce a spiegare la mancanza di un singolo studio scientifico sopra colui che un intellettuale non bigotto ha definito – flirtando col paradosso – «l’italiano più importante del ventesimo secolo». Di padre Pio esistono innumerevoli agiografie, totalmente prive di qualsivoglia requisito critico»; di lui esistono due o tre biografie (un paio francesi, una americana) le quali, pur muovendo da un pregiudizio devoto, hanno qualche merito documentario sul “fenomeno padre Pio”, cioè sull’esplosione del culto durante gli ultimi lustri di vita del frate e nei decenni seguiti alla sua morte, esistono alcuni buoni lavori di antropologia culturale e di sociologia religiosa». Ma sul mondo di padre Pio non esiste alcun libro di storia: quasi si dovesse avere vergogna di elevare il cappuccino stigmatizzato e i suoi fedeli alla dignità di personaggi storici. Evidentemente, quanto risulta pacifico agli studiosi del Medioevo – il fatto che indagare le credenze non equivale a confessarsi creduloni –rimane ostico da comprendere agli studiosi del Novecento.
Troppo in fretta, verso la fine del diciannovesimo secolo, l’intellighenzia laica aveva diagnosticato il disincanto del mondo. Oggi, oltre un secolo dopo, tutto intorno a noi attesta il bisogno diffuso di riconoscere nell’immanente prosaicità del quotidiano la poesia di una qualche trascendenza. Non fosse che per questo, sarebbe insensato liquidare certe esperienze novecentesche di religiosità popolare come i patetici cascami di sensibilità condannate a morte dalla storia. La secolarizzazione non ha ucciso la religione: né avrebbe potuto farlo, dal momento che il progresso politico, culturale, scientifico non ha cancellato dalle nostre vite la dimensione del male, e con essa – per molti –l’esigenza di collocare la sventura entro la cornice di un disegno provvidenziale. Storie come quella di padre Pio non si capiscono senza tenere a mente un giudizioso bilancio di Ignazio Silone: i sindacati non bastano per fare a meno dei santi. Perché «la povera gente è sempre in paura». La malattia, l’alluvione, la guerra stanno sempre in agguato, e non c’è tutela sindacale che tenga, «non si sta mica più sicuri di prima, la paura è rimasta». Soprattutto fra gli umili, il progresso materiale non ha ucciso la pietà, intesa come bisogno spirituale di rassicurazione e di protezione.
In un’Italia del Novecento che si era potuto credere disincantata, milioni e milioni di uomini e donne hanno vissuto la propria vita da battezzati. Pensandosi non solo nella storia dell’umanità, ma nella storia della salvezza. Facendone una questione non solo di progresso, ma di redenzione. Da parte sua, cosi nel Novecento come nei secoli precedenti la Chiesa cattolica ha risposto con un’offerta alla domanda di liturgie rassicuranti e di culti protettivi, di antidolorifici sociali. In fondo, che cosa aveva garantito il trionfo cinquecentesco dell’Inquisizione romana sopra le istanze di evangelismo pur diffuse in Italia, se non la disponibilità della Chiesa a mantenere saldo il legame tra il clero e la pietà popolare? Su quale scoglio erano naufragati i progetti di riforma ecclesiastica, se non sul groviglio che intrecciava i bisogni di conforto e di speranza della comunità dei credenti agli interessi di prestigio e di denaro dei frati e dei preti? E su cosa si era fondata, a partire dal Seicento, la disciplina vaticana delle canonizzazioni, se non sull’esigenza avvertita dalla Chiesa stessa di regolare l’enorme consumo di devozioni, di gestire l’inesauribile economia della santità? In tal senso, la storia di padre Pio di Pietrelcina rappresenta niente più che l’ultimo anello di una catena assai lunga.
il giallo delle stimmate http://www.corriere.it/cronache/07_ottobre_24/luzzatto.shtml
Achille Occhetto
Il destino del nostro paese tra l'Europa e Trump
la Repubblica, 4 luglio 2025
Solo in parte, e con mille precauzioni rassicuranti, ci stiamo accorgendo che siamo precipitati in un immane e catastrofico disordine mondiale, dominato dalle ragioni della forza e dell’imperio. Gran parte degli stessi leader europei si mostrano insensibili dinnanzi al fatto che la grande conquista morale, politica e ideale acquisita alla fine della seconda guerra mondiale, cioè il divieto assoluto dell’uso della forza nella risoluzione delle controversie internazionali si è capovolta nel suo contrario: in un un terrificante ritorno al millenario jus ad bellum, fondato sulla diplomazia al servizio della forza e del reciproco ricatto della deterrenza nucleare. L’unica cosa di cui sanno parlare è di riarmo, in un mondo già armato fino ai denti. La stessa proposta del sedicente pacifista Trump di alzare le spese militari al 5 per cento del pil è un’infamia volta a distruggere le economie più deboli, e ha fatto bene lo spagnolo Sánchez a ribellarsi.
Ma dinnanzi allo sconcerto di grandissima parte dei cittadini europei i soliti furbetti del gioco delle tre carte cercano di rassicurare l’opinione pubblica dicendo che non si tratta del 5 per cento, ma solo del 3,5 per il riarmo effettivo e l’1,5 per le infrastrutture. Rispondo: bene, si spenda nelle necessarie infrastrutture che sono utili soprattutto per contrastare le guerre ibride, e che possono servire anche per usi pacifici. E sul terreno squisitamente militare si metta mano alla riorganizzazione e razionalizzazione della difesa europea. A chi utilizza supinamente il diktat di Trump paventando una imminente aggressione armata dell’Europa occorrerebbe far presente che Putin sta già violando i nostri confini non con i carri armati. Putin, quelle frontiere, le ha già ampiamente attraversate con una ben orchestrata “guerra ibrida” che ha, poco per volta, avvelenato gran parte delle coscienze dei popoli europei. Sta sfuggendo la portata della guerra ibrida della Russia contro l’Europa, condotta attraverso la guerra psicologica, la disinformazione, il cyber welfare e l’uso di agenti non statali volti a influire nei processi politici ed economici. Le azioni cibernetiche, come attacchi informatici, sabotaggio e disinformazione andrebbero combattute con una visione più sofisticata della difesa, attraverso un potenziamento e aggiornamento di tutti gli strumenti tecnologici e di informazione coscientemente finalizzati a combattere la guerra irregolare. La “guerra ibrida”, sul terreno politico, invece, la si combatte principalmente non con le armi bensì con l’egemonia morale e culturale di classi dirigenti che sappiano far rivivere la democrazia nel cuore delle popolazioni europee presentandosi con il volto di una Europa aperta alle esigenze fondamentali dei suoi cittadini e non colpendo il welfare. Invece non ci stiamo accorgendo che è Trump che sta distruggendo la Nato, mentre i leader europei stanno balbettando e parlano in modo risibile di una piccola Nato a trazione europea per non percorrere la strada maestra di un esercito europeo.
È una menzogna affermare che la proposta della von der Leyen di riarmo dei singoli Stati sia un primo passo in questa direzione. La stessa politica di difesa comune europea dovrebbe accompagnarsi ai primi passi da compiere nella direzione di una effettiva Europa politica. Lo so: nella storia non si è mai visto che prima ci si armi e poi si dia vita al Paese da difendere. Ma, allora, invece di contrabbandare il piano di riarmo dei singoli Stati come un primo passo verso la difesa europea si dovrebbe incominciare a mettere le prime fondamenta dell’unione politica. Incominciando, come è avvenuto agli inizi dell’impresa europeista, con chi ci sta. Lo scandalo ungherese — di uno Stato liberticida — dovrebbe farci comprendere che sovranismo nazionalista e europeismo sono la rappresentazione di un raccapricciante ossimoro. Lo vediamo ogni giorno e sui più disparati dossier: la cittadella europea non è assediata solo dai nazionalismi esterni ma è minata dal nazionalismo interno. È proprio quello, in governi che si dicono europeisti, che ci fa assistere al continuo altalenarsi tra proposte virtuose e compromessi al ribasso. È il nazionalismo interno che ostacola una strategia unitaria verso l’immigrazione e l’accoglienza, che impedisce all’Europa di parlare con una voce sola in politica estera, in quella della sicurezza, delle politiche sociali e del lavoro, delle politiche green e nella stessa politica fiscale. Il principio di unanimità è l’esatto opposto della ricerca dell’unità. Esaspera le tendenze centrifughe dei nazionalismi e ossifica gli egoismi. Oggi sarebbe più che mai compito dell’Europa rilanciare il tema centrale di una sicurezza comune che tenga conto delle reciproche preoccupazioni. L’Europa stessa dovrebbe, attraverso la proposta di una Conferenza di pace, farsi promotrice di una concezione nuova dei rapporti internazionali, al di fuori dell’attuale terrapiattismo, proprio di una geopolitica che stende la carta geografica sul tavolo per tracciare la frontiera tra est e ovest, invece di guardare il pianeta dall’alto del mappamondo. La nostra difesa più efficace risiederebbe anche in un’Europa politica che si faccia promotrice di una governance mondiale dell’intelligenza artificiale per affrontare in modo solidale l’etica e la sicurezza dei “sistemi”, l’impatto sul lavoro, la proprietà intellettuale, la diversità culturale, le conseguenze ambientali, la concentrazione del mercato, la necessità di stimolare l’innovazione per un vero progresso della civiltà umana. Per tutti questi motivi anche l’Italia è a un bivio: con Trump e gli oligarchi del digitale che sostengono le organizzazioni di estrema destra antieuropeiste e filo putiniane o con l’Europa? Non è una scelta da niente. Ne va del destino del nostro Paese.
La psicoanalisi fu definita da Anna Freud, figlia ed erede intellettuale di Sigmund, come una «scienza ebraica». I freudiani della prima generazione provenivano in gran parte da famiglie ebraiche dell’Europa centrale che nell’Ottocento, ottenuta l’emancipazione civile nei loro Paesi, si erano distaccate dalla tradizione biblica, talmudica e mistica delle generazioni precedenti. Negli anni Trenta del Novecento, quando le patrie e le culture a cui si erano assimilati si volsero a perseguitarli, molti – e non dei meno importanti – trovarono asilo in altri Paesi: Freud, ormai ottantaduenne e gravemente malato, riparò a Londra nel 1938; il suo allievo Theodor Reik ed Erich Fromm avevano abbandonato la Germania già nel 1934. Verso il tramonto delle proprie esistenze, sia Freud che poi Reik e Fromm sentirono la necessità di applicare il metodo psicoanalitico per capire il rapporto che avevano – o non avevano – avuto con l’ebraismo e con il fatto religioso in generale.
Questo tuffo autoterapeutico nelle proprie radici produsse una letteratura di interpretazioni freudiane della Bibbia ebraica, a partire da L’uomo Mosè e la religione monoteistica dello stesso Freud, l’unico libro che egli dedicò espressamente all’ebraismo. Scritto fra i tormenti dell’esilio e della malattia terminale, il libro risente della propria genesi lunga e sofferta. Le sue tesi di fondo sono note: al fallimento della riforma religiosa monoteistica e universalistica del faraone Ekhnaton, Mosè, che di Ekhnaton era un cortigiano, avrebbe condotto verso la Terra Promessa un gruppo di seguaci, i quali infine lo avrebbero ucciso (secondo l’interpretazione che l’ebraista viennese Ernst Sellin aveva dato di un passo del libro di Osea); la memoria collettiva di questo crimine sarebbe poi stata rimossa, e con essa anche il contenuto della riforma. In questo ipotetico delitto Freud vedeva riattuarsi l’uccisione del padre-capo dell’orda primitiva, alla cui rimozione ed elaborazione psicologica da parte dei figli-parricidi egli faceva risalire l’origine della religione e del contratto sociale (Totem e tabu, 1912).
Da aggiornato autodidatta, e anticipando alcune tendenze della ricerca odierna, Freud scavava la Bibbia ebraica come documento ideologico: il monoteismo etico predicato da Mosè e poi rimosso sarebbe infine ritornato – come ritorna ogni rimosso – attraverso il messaggio dei Profeti biblici, finendo col prevalere sul monoteismo ritualistico della classe sacerdotale, e venendo a costituire l’essenza dell’ebraismo postbiblico. Freud stesso, con titubanza pari alla sua onestà intellettuale, ammetteva di avere costruito ipotesi su altre ipotesi, e che il suo libro era «una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». La sua indagine biblica resta oggi interessante come sintomo freudiano essa stessa, con un contenuto manifesto e uno latente; e vi si vede bene come Freud in parte temesse e in parte desiderasse di riuscire sgradito agli ebrei ortodossi, che chiamava «talmudisti», e che (come i filosofi della Scolastica cui li paragonava) «si appagano dell’esercizio della loro sottigliezza, indifferenti al dubbio che le loro affermazioni siano estranee alla realtà».
Anche il nonno di Theodor Reik – allievo di Freud e fondatore della psicoanalisi “laica” – era stato un talmudista ortodosso, come Reik rievocava in una serie di letture ortodossamente freudiane di episodi-chiave della Bibbia ebraica che pubblicò nella sua nuova patria, gli Stati Uniti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso (alcune tradotte in italiano col titolo Psicanalisi della Bibbia). Per Reik, la storia della creazione di Eva era la trasposizione simbolica di un primitivo rito ebraico di passaggio, in cui il sonno di Adamo durante la rimozione della costola significava la morte iniziatica, tramite cui l’uomo-adam diventa adulto e pronto per l’unione matrimoniale. E anche l’esistenza di Adamo ed Eva nell’Eden si poteva leggere «come la luna di miele», e la loro espulsione «come la fine della dolce illusione d’amore». La psicoanalisi diventava così una forma moderna e secolare di esegesi allegorica della Scrittura: «disseppellire la vita segreta del passato preistorico», scriveva Reik, era l’unica via verso una conoscenza di sé in cui l’ontogenesi di ciascun individuo si integrasse con la filogenesi di ciascuna tradizione religiosa, e la psicoanalisi divenisse un’«archeologia dell’anima».
Anche Erich Fromm proveniva da una famiglia rabbinica ortodossa, dalla quale si distaccò in direzione di un suo umanesimo universalistico (esposto in libri popolarissimi come Avere o essere e L’arte di amare) e della considerazione della religione come «espressione storicamente condizionata di un’esperienza interiore», ben diversamente dall’idea che Freud aveva della religione come nevrosi coattiva di gruppo. A 66 anni anche Fromm sentì la necessità di confrontarsi con la radice biblica. La Bibbia ebraica, secondo l’interpretazione «radicale» che ne diede Fromm (Voi sarete come dèi, 1966), è il racconto dell’evoluzione di Dio, da creatore e padrone assoluto, geloso dell’uomo come rivale potenziale («È diventato come uno di noi», Genesi 3,22), fino a sovrano costituzionale, che si obbliga a osservare il principio di equità e si lega all’umanità con alleanze progressivamente sempre più specifiche con Noè, poi con Abramo, e infine con Mosè. Dal roveto ardente Dio si presenta agli israeliti con un nome fittizio, Io-Sono, per aiutarli a comprenderlo: ma rimane in realtà un Dio senza nome, «che si tiene nascosto» (Isaia 45,15) e che si può lodare solo stando in silenzio (Salmo 65,2). Così, Fromm leggeva nella tradizione ebraica l’approdo graduale a una teologia negativa, secondo cui Dio si può raccontare ma non descrivere: e questo tipo di conoscenza del divino si identificava per Fromm con il rifiuto – predicato nella Bibbia, e da ribadire nel mondo odierno – di adorare qualsiasi idolo, sacro o profano che sia.
* Università Ca Foscari Venezia
Simone de Beauvoir
La force de l'âge, 1960
traduzione di Bruno Fonzi
Da diversi mesi sentivamo parlare di un poeta sconosciuto che Cocteau aveva scoperto in prigione e che considerava come il più grande scrittore dell'epoca; per lo meno, così l'aveva qualificato in una lettera indirizzata, nel luglio 1943, al presidente della XIX sezione penale davanti alla quale doveva presentarsi a giudizio Jean Genet, già condannato nove volte per furto. Barbezat intendeva pubblicare nell'"Arbalète" un frammento delle sue opere in prosa e qualche sua poesia; sua moglie, Olga la bruna, andava ogni tanto a trovarlo in prigione; da lei avevo appreso la sua esistenza e qualche particolare della sua vita. Era stato raccolto appena nato dalla pubblica assistenza e affidato a una famiglia di contadini; la maggior parte della sua infanzia era trascorsa nelle case di correzione; aveva compiuto una quantità di furti e scassi di qua e di là, ed era pederasta. In prigione, aveva letto; aveva composto versi e poi scritto un libro. Olga Barbezat diceva di lui cose meravigliose. Io mi lasciavo abbagliare meno che in gioventù; il delinquente di genio mi sembrava un personaggio un po' convenzionale; conoscendo la passione di Cocteau per lo straordinario e per la scoperta, sospettavo che esagerasse le cose. Pure, quando apparve nell'"Arbalète" l'inizio l'inizio di Notre-Dame-des-Fleurs, ne fummo presi; Genet aveva subito visibilmente l'influenza di Proust, di Cocteau, di Jouhandeau, ma aveva una voce sua, inimitabile. Era ben raro, adesso, che una lettura potesse rinfrescare la nostra fede nella letteratura: quelle pagine ci fecero riscoprire il potere delle parole. Cocteau aveva visto giusto: era sorto un grande scrittore.
Avevamo saputo che era uscito di prigione. Un pomeriggio di maggio, mi trovavo al Flore con Sartre e Camus, si avvicinò al nostro tavolo: "Siete voi Sartre?", domandò bruscamente. I capelli rasati, lo sguardo di sfida, trovammo che aveva l'aria di un duro. Si sedette, ma si trattenne solo un momento. Tornò, e cominciammo a vederci assai spesso. Un duro, lo era sul serio; trattava senza riguardi questa società dalla quale era stato escluso fin dai suoi primi vagiti. Ma i suoi occhi sapevano sorridere, e sulla bocca gli si attardava lo stupore dell'infanzia; era facile parlare con lui: ascoltava, rispondeva. Mai lo si sarebbe preso per un autodidatta; nei suoi gusti, nei suoi giudizi, v'era l'audacia, la parzialità, la disinvoltura di coloro per i quali la cultura è sottintesa, e un notevole discernimento. ... Alla base della sua intesa con Sartre vi fu questa libertà che nulla poteva intimidire, e la loro comune avversione per ciò che poteva impacciarla: la nobiltà d'animo, le morali eterne, la giustizia universale, i paroloni, i grandi principi, le istituzioni e gli idealismi. ...
Quando facemmo la sua conoscenza stavamo progettando una nuova fiesta; io l'avrei volentieri invitato, ma Sartre mi obiettò che non ci si sarebbe divertito; effettivamente, perdersi per qualche ora nell'alcool e nel frastuono era cosa che si addiceva a dei piccoli borghesi solidamente sistemati in questo mondo; Genet non aveva alcuna inclinazione per queste dissipazioni: lui si era perduto prima, e ci teneva a sentirsi sotto i piedi la terraferma.
La SISSCo critica l’intervento del ministro Valditara a proposito dei manuali scolastici
La Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCo) apprende da notizia di stampa che il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha inviato una lettera all’Associazione italiana degli Editori invitandola, in nome del codice di autoregolamentazione degli editori, a valutare la correttezza delle informazioni riportate nel manuale di storia “Trame del tempo”, opera di Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi e pubblicato dall’editore Laterza. Il ministro ritiene che talune valutazioni di carattere politico espresse nel volume siano da considerarsi non veritiere e dunque lesive degli impegni assunti dagli editori con il codice di autoregolamentazione.
La SISSCo ravvede nell’intervento del ministro, e dunque del governo, una volontà censoria e un intento fortemente intimidatorio nei confronti del manuale in oggetto, dei suoi autori e dell’editore coinvolto, ma indirettamente anche degli insegnanti che intendano adottarlo, di altri autori di manuali scolastici e della stessa associazione degli editori, indebitamente chiamata a svolgere un ruolo di controllo che non gli è proprio né è consentito da alcuna norma, essendo i manuali scolastici doverosamente liberi da ogni vincolo autorizzativo. Il codice di autoregolamentazione, difatti, impegna in proprio i singoli editori, e non la loro associazione, al rispetto del pluralismo, alla non discriminazione e alla correttezza “delle fonti e dei dati utilizzati”, non certo alla verifica della correttezza delle valutazioni o interpretazioni proposte nei manuali scolastici.
La SISSCo deplora fortemente l’intervento del ministro, perché riconosce in esso un atto potenzialmente lesivo delle libertà di espressione e della libertà di insegnamento, patrimonio indisponibile a base del nostro vivere civile tutelato dalla Carta costituzionale (artt. 21 e 33). Tali libertà trovano il loro limite solo nella Costituzione repubblicana e nelle leggi che le regolamentano, nonché nell’esercizio della giurisdizione da parte della magistratura, chiamata eventualmente a tutelare tanto quei diritti quanto chi dal loro esercizio si sentisse eventualmente leso.
Il Presidente Marco De Nicolò sentito il Consiglio Direttivo SISSCo
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Fariba Adelkhah, antropologa: “La visione occidentale della società iraniana, binaria, ignora la sua realtà sempre più complessa”
TRIBUNA
Da antropologa quale sono – e intervengo solo in questa veste – sono sbalordito dal divario tra la complessità della società iraniana, che studio da quarant'anni, e la semplificazione, per non dire l'ignoranza, dimostrata dai governi israeliano, americano ed europeo nel condurre o legittimare la guerra di aggressione contro la Repubblica Islamica. Colpisce anche la confusione degli obiettivi che gli aggressori si sono prefissati: distruzione del programma nucleare o cambio di regime?
Dal punto di vista del diritto internazionale, questa è effettivamente una guerra di aggressione, cosiddetta "preventiva", in nome di un pericolo presunto e persino senza dubbio immaginato. Netanyahu parla della minaccia nucleare iraniana come "esistenziale ", così come Putin parla di "nazismo" in Ucraina. Secondo un detto iraniano, "quando vuoi commettere un crimine, indossi un abito religioso" ... E qual è questo "bene" che vogliamo portare alla popolazione iraniana, o questo "male" da cui vogliamo liberarla, assumendo cinicamente il rischio di un incidente nucleare nel corso di un bombardamento, di cui i civili saranno vittime per decenni? Il Medio Oriente ha forse bisogno di una Chernobyl, oltre a tutti i suoi mali? La democrazia è imposta da armi straniere?
Contrapponiamo quindi l'Iran "buono", quello della "società civile", del movimento Donne, Vita, Libertà, dell'opposizione in esilio sempre più succube del movimento di Donald Trump, diffuso da alcuni intellettuali di spicco e dalla maggior parte dei media conservatori, all'Iran "cattivo", quello dell'Islam, dei mullah, della "dittatura" della Guida della Rivoluzione, deus ex machina della repressione e del nucleare.
I figli di Khomeini
Questa visione binaria della società iraniana ignora la sua realtà, sempre più complessa a causa della sua diversità, della sua urbanizzazione, della sua istruzione e della moltiplicazione del suo spazio su scala globale attraverso la diaspora. Ne oscura anche la storia. Che lo vogliano o no, che l'abbiano combattuto o no, tutti gli iraniani sono figli di Khomeini, in gran parte estranei al regime dello Scià, che la maggior parte di loro non conosceva, e dipendenti da una Repubblica che li ha plasmati. Non solo attraverso la coercizione, ma anche attraverso molteplici interazioni, attraverso un continuo processo di cooptazione all'interno di istituzioni politiche o economiche, attraverso legami familiari che uniscono al di là delle differenze politiche (o, al contrario, drammatizzano questi conflitti conferendo loro un tono fratricida).
Come ho sperimentato durante la mia detenzione nel carcere di Evin a Teheran, la sanguinosa storia della rivoluzione e del suo periodo di terrore (1979-1988) o della guerra contro l'Iraq (1980-1988) è tutt'altro che finita. E il doloroso ricordo di questi eventi offusca costantemente la netta distinzione tra chi detiene il potere e i suoi oppositori. Questo vale per l'opposizione (con o senza virgolette) in esilio, che può includere ex funzionari dell'Interno, senza che sia chiaro come si posizionino oggi, nella pratica. Sono stato quindi sorpreso di vedere parte del contenuto del mio cellulare, confiscato durante il mio arresto a Teheran nel 2019, diffuso da un organo di stampa "di opposizione" in Francia. I leader e i giornalisti occidentali sono a volte sorprendentemente ingenui. Mentre i monarchici e i Mujaheddin del Popolo [marxisti] rimangono stranamente silenziosi, i più seri oppositori del potere oggi in carica provengono paradossalmente dalle fila della Repubblica Islamica.
Questa visione manichea del regime riproduce, tra l'altro, un grande tema del romanzo nazionale iraniano, sempre pronto a esaltare in modo lugubre la resistenza della nazione ( mellat ) e del popolo ( mardom ) di fronte all'iniquità dello Stato ( dolat ), in un'infinita riflessione sulla battaglia di Kerbala, del 680. Il suo fulcro è l'Islam, che sarebbe la linea di demarcazione tra il bene e il male. Nessuna salvezza democratica al di fuori del laicismo!
In armonia con il regime e la società
In realtà, anche qui le cose sono più complicate. Infatti, le critiche virulente alla Repubblica Islamica, ai suoi leader e al clero possono andare di pari passo con un senso di appartenenza all'Islam e persino, per la maggioranza degli iraniani, allo Sciismo, e con una profonda coscienza nazionale (o nazionalista) che approva il programma nucleare. Il neoliberismo economico del settore privato e persino di alcuni esponenti politici al potere si sposa facilmente con la pietà musulmana. I suoi sostenitori criticano la Repubblica Islamica non per il suo orientamento religioso, ma per gli ostacoli che ancora pone alla libertà di accumulazione. Censurata e repressa, la sua élite intellettuale rimane tuttavia in osmosi con il regime e la società.
Il rifiuto dell'obbligo di indossare il velo non è necessariamente quello dell'Islam. Paradossalmente, è proprio questo codice di abbigliamento che ha permesso alle donne di accedere alla sfera pubblica, di diventare la maggioranza nelle università e, oggi, di rifiutare questa forma di coercizione. Da questa prospettiva, il magnifico gesto della teologa Sedigheh Vasmaghi, che indossa il velo ma lo ha pubblicamente rimosso per esprimere la sua solidarietà al movimento Donna, Vita, Libertà, è rivelatore, ma è stato superbamente ignorato dai media occidentali, privi di laicità e ciechi a qualsiasi forma di femminismo che non sia quello nordatlantico. Così facendo, si illudono sulla reale rappresentatività del movimento, per quanto coraggiose possano essere le sue attiviste, e rimangono intrappolati in una lente d'ingrandimento, pur avendo passato sotto silenzio il ben più importante movimento "Un milione di firme per l'abrogazione delle leggi discriminatorie" del 2006.
Fino alla settimana scorsa, gli iraniani cercavano una vita migliore o la ricchezza, molto più che ideali democratici, e le loro speranze erano rivolte non tanto a un futuro radioso ormai irraggiungibile o addirittura irraggiungibile, quanto a una vita borghese o piccolo-borghese. È stato questo tipo di sogno, frustrato dalla crisi economica ma tranquillo, che i missili e gli aerei israeliani hanno polverizzato il 13 giugno.
Incapacità di discutere
A forza di vedere l'Iran solo attraverso la lente dell'Islam, i suoi avversari hanno dimenticato il suo vero cemento: un nazionalismo profondo, spesso frenetico e narcisistico, e non sempre comprensivo, come dimostra la crescente xenofobia nei confronti degli immigrati afghani, per non parlare del suo comprovato razzismo contro gli arabi (molto più che contro gli ebrei come popolo). L'idea che la popolazione esulti per l'aggressione straniera e si rivolti contro i suoi attuali leader per tornare all'ovile Pahlavi (la dinastia dello Scià), che l'amministrazione Trump sta promuovendo, è folle. Nel 1980, Saddam Hussein commise lo stesso errore di calcolo e, schierandosi dalla sua parte, i Mujaheddin del Popolo si screditarono.
È chiaro che una frazione dell'opposizione giocherà la carta del "cambio di regime" americano-israeliano. Ma se ci riuscisse sulla scia dei missili stranieri, non andrebbe a vantaggio della democrazia. Il suo comportamento in esilio e la sua incapacità di dibattito lo dimostrano già: è divisa quanto il regime stesso e non ha altro programma se non quello di prendere il potere e confiscarlo. Sarà quindi il caos, come in Iraq, Libia, Afghanistan e Libano. Gli iraniani ne pagheranno il prezzo, e così anche i paesi vicini. L'Europa sarà la seconda tappa per i rifugiati e dovrà gestire un Medio Oriente permanentemente dislocato.
Negli ultimi giorni, due immagini hanno riassunto questo scontro tra il pensiero semplicistico o la confusione degli aggressori e la determinazione nazionalista degli iraniani. Un senatore trumpista ha ammesso di non conoscere il numero di abitanti dell'Iran: 90 milioni in tutto, in un Paese che è uno dei principali esportatori di petrolio e che probabilmente ostruirà lo Stretto di Hormuz ricorrendo a una guerra asimmetrica... Allo stesso tempo, la conduttrice radiotelevisiva di punta iraniana, Sahar Emami, debitamente velata, ha continuato a presentare imperturbabile le sue notizie durante un attacco israeliano, in uno studio che si stava riempiendo della polvere della distruzione, ed è tornata in onda dopo una breve interruzione delle trasmissioni.
Fariba Adelkhah è un'antropologa, direttrice di ricerca presso il CERI (Centro di Ricerca e Informazione Politiche) e specialista in pratiche religiose e Iran contemporaneo. Arrestata nel 2019 a Teheran e condannata nel 2020 a cinque anni di carcere in Iran per "messa in pericolo della sicurezza nazionale", è stata rilasciata nel 2023 dopo essere stata graziata ma non assolta. Tra le sue pubblicazioni figurano " I paradossi dell'Iran. Idee preconcette sulla Repubblica Islamica" (Le Cavalier bleu, 2016) e "Prigioniera a Teheran" (Seuil, 2024).
https://www.lemonde.fr/idees/article/2025/06/24/fariba-adelkhah-anthropologue-la-vision-occidentale-de-la-societe-iranienne-binaire-meconnait-sa-realite-de-plus-en-plus-complexe_6615656_3232.html
https://www.lastampa.it/cultura/2025/03/30/news/fariba_adelkhah_iran_prigione_regime_democrazia-15080168/
Gilles Paris
Bernard Haykel, esperto della penisola arabica: c'è ambivalenza nel pensiero strategico di Israele
Le Monde, 2 luglio 2025
INTERVISTA : In un'intervista rilasciata a "Le Monde", il professore del Dipartimento di studi mediorientali dell'Università di Princeton negli Stati Uniti analizza i nuovi equilibri di potere in Medio Oriente, con l'egemonia militare di Israele e l'indebolimento dell'Iran.
Bernard Haykel insegna presso il Dipartimento di Studi Mediorientali dell'Università di Princeton, negli Stati Uniti. Questo esperto della Penisola Arabica sta attualmente scrivendo un libro sulla storia moderna dell'Arabia Saudita e sull'ascesa del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.
I bombardamenti israeliani sull'Iran dal 13 al 24 giugno segnano l'inizio di una nuova era nel Vicino e Medio Oriente, dominata dall'egemonia militare israeliana?
Israele si è liberato del sistema di alleanze iraniano che lo aveva messo di fronte. I funzionari israeliani vogliono davvero riconfigurare l'intera regione. Per raggiungere questo obiettivo, devono indebolire, o forse persino distruggere, o addirittura sostituire, il regime iraniano.
Dopo i successi contro le Guardie Rivoluzionarie in Siria [il bombardamento del consolato iraniano a Damasco nel 2024] , e dopo quelli contro Hezbollah in Libano, Israele si è reso conto che gli attacchi iraniani contro il suo territorio nell'aprile e nell'ottobre 2024 non erano molto incisivi e che aveva la capacità di limitarne gli effetti. Ciò ha spinto i funzionari israeliani a sfruttare il proprio vantaggio.
Nelle prime ventiquattro ore dell'attacco del 13 giugno , sebbene gli obiettivi principali fossero i sistemi d'arma nucleari e balistici, gli israeliani ottennero risultati tali da spingerli verso altre ambizioni – quella che viene chiamata "mission creep" . Questo è ciò che li ha portati a parlare di cambio di regime.
Come si spiega questa debolezza iraniana?
Non sono un esperto di Iran, ma ne sono rimasto molto sorpreso. Inizialmente pensavo che la potenza d'attacco di Hezbollah fosse reale e che quando dicevano di poter distruggere gran parte delle città israeliane, fosse vero. Quello che nessuno aveva visto era che Israele si stava preparando contro l'Iran fin dalla guerra del 2006 [contro Hezbollah] . Da vent'anni sta lavorando sul regime iraniano per infiltrarsi.
Le dimensioni del Mossad [servizio di intelligence israeliano] furono raddoppiate, o addirittura triplicate, e l'Iran divenne la sua unica priorità, al punto che non si lavorò su Hamas : le sue vere intenzioni non furono comprese, i funzionari israeliani credevano che fosse stato ammorbidito dal denaro del Qatar.
Il modo in cui gli israeliani sono riusciti a infiltrarsi in Hezbollah non ha nulla a che vedere con il coinvolgimento di quest'ultimo nella guerra civile siriana, né con le aperture che questo potrebbe avergli aperto i russi e i siriani. Questa penetrazione è avvenuta attraverso l'Iran, forse perché ci sono fazioni all'interno del regime iraniano su cui possono contare, o forse per ragioni economiche.
Anche l'esaurimento della rivoluzione islamica e il distacco dalla società civile hanno avuto un ruolo?
Certamente. Si dice che l'80% del popolo iraniano sia contrario al regime. Anche le sanzioni hanno giocato un ruolo fondamentale. Gli indicatori economici lo dimostrano: il Paese è in ginocchio. Il tasso di crescita è molto basso, il tasso di disoccupazione molto alto. C'è stata una terribile svalutazione del rial [moneta iraniana] , un'inflazione molto alta e un prodotto interno lordo pro capite molto basso.
Altamente istruita e molto connessa ai social network, la popolazione iraniana vede ciò che accade altrove, in particolare in Arabia Saudita. Quando si è verificata questa enorme repressione contro le donne [in risposta al movimento Donne, Vita, Libertà, alla fine del 2022] , gli iraniani hanno potuto dirsi: perché noi, che siamo più avanzati dei nostri vicini arabi, subiamo questa repressione, mentre vediamo donne senza velo in Arabia Saudita? Di fatto, il regime ha ceduto sulla questione del velo, il che è stato un ulteriore segno di debolezza.
La potenza israeliana dimostrata negli ultimi mesi presenta dei punti deboli?
Israele è diventato una sorta di Sparta; è una società altamente militarizzata, con spese militari considerevoli. La dipendenza dagli Stati Uniti rimane molto elevata. Credo anche che la società sia ancora traumatizzata al 7 ottobre 2023 e che sia frammentata, polarizzata tra gruppi religiosi e non religiosi.
Con la guerra, queste debolezze rimangono invisibili. Ma presto emergeranno, a causa dei costi finanziari e psicologici del conflitto; si parla persino di un'emigrazione degli israeliani. D'altra parte, le industrie militari e tecnologiche hanno accumulato guadagni significativi durante questa guerra, quindi i risultati sono contrastanti.
Credi che ci sia del vero nelle critiche secondo cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non sarebbe in grado di tradurre le sue vittorie militari in risultati politici?
È vero che non è ancora riuscito a trasformare le sue vittorie contro Hamas, Hezbollah e persino l'Iran in vittorie strategiche per Israele. Gli israeliani vorrebbero ottenere risultati più duraturi con Libano e Siria, ma vogliono anche, per quanto riguarda l'estrema destra israeliana e Netanyahu, seppellire completamente l'idea di uno Stato palestinese e annientare qualsiasi sforzo in questa direzione.
Come si tradurrebbe questo in Siria?
Gli israeliani sono determinati a mantenere le alture del Golan siriane, che hanno già annesso . Cercheranno di mantenere il maggior numero possibile di posizioni sul terreno. Vogliono anche esercitare pressione sulla popolazione siriana creando una sorta di protettorato sulla comunità drusa e chiedono che a nessun esercito siriano sia permesso di oltrepassare una certa linea nel sud del Paese.
Erano molto arrabbiati per il fatto che Donald Trump, sotto la pressione del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman in Arabia Saudita e del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, avesse revocato le sanzioni statunitensi contro la Siria, perché volevano usarle per fare pressione sulla leadership siriana affinché raggiungesse un trattato di pace. Lo stesso vale per il Libano. Si oppongono anche all'idea che l'Occidente fornisca aiuti economici al Libano per costringere il governo libanese a fare lo stesso.
In che modo questa strategia volta a ostacolare la restaurazione di uno Stato libanese e di uno Stato siriano e a liquidare la questione palestinese potrebbe rappresentare la promessa di una pace duratura nella regione?
C'è un'ambivalenza nel pensiero strategico israeliano riguardo a Libano e Siria. Da un lato, Israele preferisce stati deboli, ai quali può imporre le sue condizioni. Ma, dall'altro, sa che uno stato incapace di controllare il proprio territorio significherebbe il ritorno di milizie come Hezbollah. Israele vuole uno stato forte se ne garantisce la sicurezza. I funzionari israeliani non sono chiari su questo punto, perché non credono che uno stato forte possa imporsi in questi due paesi o che farà ciò che vogliono, ovvero controllare il territorio e impedire il ritorno delle milizie.
Come può l'Arabia Saudita accogliere questa egemonia israeliana?
Se ciò significa imporre un modello economico di ispirazione neoliberista basato sul commercio, sulle comunicazioni e sullo scambio di persone e merci, l'Arabia Saudita può trovare la sua strada. Se ciò significa non dare mai uno Stato ai palestinesi e mantenere la fragilità in Siria e Libano, i sauditi non saranno d'accordo. Pur essendo ricchi, rimangono deboli, soprattutto militarmente. L'Arabia Saudita vuole assolutamente sviluppare e diversificare la propria economia, ma non ha le stesse risorse dei suoi vicini, che hanno un prodotto nazionale lordo pro capite molto più elevato, come gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar o persino il Kuwait.
Con i prezzi del petrolio sufficientemente bassi, tutto il denaro saudita verrà utilizzato all'interno del Paese. Sarà persino necessario indebitarsi . Il Paese quindi non vuole essere visto come il finanziatore della ricostruzione della Siria, della ricostruzione del Libano. Ci siamo allontanati dal modello in cui l'Arabia Saudita poteva venire in aiuto di Paesi come il Libano (soprattutto con l'enorme corruzione che vi regna), senza avere alcuna reale influenza. Ma ha poche opzioni rispetto a ciò che sta facendo Israele. L'indebolimento degli iraniani, la fine del regime di Al-Assad in Siria, la distruzione di Hezbollah e Hamas, tutto questo le conviene.
Ma non vuole che ci si aspetti che distribuisca denaro che non ha. E se, allo stesso tempo, gli israeliani non permettono nulla ai palestinesi – anche se si trattasse di uno Stato senza esercito, senza piena sovranità, cosa che gli israeliani sono incapaci di accettare – allora la normalizzazione non sarà possibile.
Riyadh vede cambiamenti e sconvolgimenti che sono nel suo interesse e che corrispondono a ciò che desidera: pace e ordine. I paesi che più interessano all'Arabia Saudita non sono né la Palestina né la Siria. È il Sudan, perché è un paese molto vicino, con una guerra civile che genera flussi migratori. E anche lo Yemen e la Giordania, dove i sauditi temono molto una rivolta scatenata da Israele [l'afflusso di palestinesi] che potrebbe spazzare via la monarchia.
Anche la loro visione dell'Iran è diversa da quella degli israeliani. Questi ultimi vogliono un cambio di regime a Teheran e non si preoccupano se ciò potrebbe portare a una guerra civile. Questa non è affatto l'opinione di Riyadh, dove si teme che un simile caos possa estendersi all'intera regione.
L'emergere di questa egemonia israeliana non porterà a riavvicinamenti regionali tra paesi che non sono necessariamente in buoni rapporti, dando origine a una forma di contrappeso?
È molto difficile con l'Iran perché è un regime ideologico e revisionista che vuole la fine dell'influenza e dell'egemonia americana nella regione, mentre l'Arabia Saudita dipende fortemente dalla protezione degli Stati Uniti. Questo fa un'enorme differenza.
Con la Turchia, sì, si può avere un riavvicinamento: è ciò che stiamo vedendo in Siria. I sauditi vogliono che la Siria si riprenda, che ci sia un governo centrale forte, che il territorio siriano rimanga unito. Allo stesso tempo, non vogliono che i turchi dominino completamente la Siria , quindi c'è coordinamento. Ma questo ha anche dei limiti, perché se i turchi spingessero davvero per regimi islamisti, soprattutto islamisti che possono rivendicare legittimità sulla base delle elezioni, ciò creerebbe notevoli disagi ai sauditi, che non vogliono quel modello, così come non lo vorrebbero gli Emirati.
Cosa rappresenta la questione palestinese a Riad?
È una questione simbolica che rimane di grande importanza. La gioventù saudita era molto apolitica, ma lo è diventata attraverso la guerra di Gaza e le sue immagini. Questo è un sentimento piuttosto diffuso nella società, e "MBS" non può ignorarlo. Egli vorrebbe che un gran numero di paesi riconoscesse la Palestina come Stato, che gli israeliani si impegnassero in un processo irreversibile verso la creazione di uno Stato palestinese, ma senza entrare nei dettagli di cosa ciò significherebbe. Abbiamo sempre l'impressione che i funzionari sauditi vogliano liberarsi di questo problema per concentrarsi sul loro sviluppo economico. Ciò che è essenziale è questo nazionalismo, "prima l'Arabia Saudita", che spinge a difendere gli interessi dell'Arabia Saudita sopra ogni altra cosa.