Simonetta Fiori Perché non possiamo non dirci fascisti la Repubblica, 1 settembre 2025
È un libro coraggioso e inquietante, Il fascismo e noi, che va maneggiato con molta cura. Perché al centro della nuova indagine di Roberto Esposito è un legame inconfessato e lungamente rimosso, una zona oscura in cui è riuscita a penetrare solo la letteratura. Al di là della sua finitezza storica, il fascismo ci appartiene? È dentro di noi, intride di sé le strutture psichiche profonde, individuali e collettive? E, pur nella sua catastrofica rottura, può vantare un’indiscussa familiarità con la storia e con il pensiero occidentale? Un corpo a corpo con noi stessi da cui il lettore in cerca di consolazione uscirà ammaccato. Dalla dotta e limpida dissertazione lunga trecento pagine (l’editore è Einaudi) potrà ricavare solo risposte poco rassicuranti.
Il fascismo ci riguarda, sostiene Esposito. E continuerà a riguardarci. Distogliere lo sguardo da questa pericolosa prossimità, spingere l’oggetto lontano da “noi” perché sono “altri” i responsabili della sua realizzazione, non solo non serve a niente ma potrebbe essere politicamente letale. Mortale per la democrazia. Un appello alla responsabilità che investe tutti, ma soprattutto i filosofi, accusati di essere intervenuti nell’ultimo cinquantennio «in maniera sporadica ed estemporanea». La storiografia ha fatto molto di più, ma gli storici – è l’opinione dell’autore – hanno le armi spuntate, costretti a fermarsi sul bordo dell’ombra. Solo la filosofia può fare il lavoro sporco, in una resa dei conti che finora è stata rimandata. Ovviamente per sostenere la sua tesi Esposito deve riperimetrare la nozione di fascismo - o, meglio, di “nazifascismo” - non più inteso come fenomeno storicamente determinato, che ha un inizio e una fine, ma come una concezione dell’uomo e del mondo che sopravvive alle macerie della storia.
Non si tratta quindi di ripristinare il “fascismo eterno” evocato da Umberto Eco, categoria liquidata come poco convincente, ma di riconoscere nel fascismo una vera e propria filosofia, come ha fatto lo storico israeliano Zeev Sternhell. «La filosofia non può aver paura di sé stessa», scrive Esposito, «non può negare le ferite incise nella sua carne, le continuità che l’hanno spinta a ridosso del male radicale». Da qui la scelta di riproporre filosofi, psicoanalisti e anche romanzieri che non hanno avuto paura di oltrepassare il confine proibito, mostrando la rovinosa relazione tra il fascismo e la nostra storia, le nostre idee, le nostre pulsioni irrazionali, anche quelle sessuali.
Una biblioteca assai eterogenea, che dagli anni Trenta del secolo scorso – ma anche dagli albori del Novecento - arriva all’evo contemporaneo, includendo le tempestive riflessioni di Bataille e Lévinas, l’analisi scandalosa di Simone Weil, il pensiero francofortese da Ernst Bloch a Marcuse, le cupe interpretazioni psicoanalitiche di Reich e Fromm scaturite da Freud e più tardi riprese da Deleuze e Guattari, fino alla pietra tombale posta da Michel Foucault: il fascismo è dentro di noi. Un approdo portato alle sue estreme conseguenze dalla letteratura contundente di Pier Paolo Pasolini, Jonathan Littell e Martin Amis, spericolati nell’inabissarsi nella profondità della compromissione con il male.
A unire questa non sempre lineare genealogia è la capacità degli autori di intravedere il carattere più autentico del fenomeno inteso non tanto come “regime” o “dottrina” ma come «macchina metafisica generativa» nel senso di macchina «capace di generare le sue stesse condizioni di esistenza». Non tutti gli intellettuali proposti nel libro nominano espressamente il dispositivo fascista, ma ne sanno cogliere il tratto essenziale che consiste nella capacità di dividere la realtà tra opposti, «immettendo l’uno all’interno dell’altro, dopo averli modificati entrambi». Tecnologia e mito vi convivono, così come rivoluzione e reazione, modernità e arretratezza, capitalismo e anticapitalismo, anarchia e ordine, elitismo e populismo.
Non sono «contraddizioni inconsapevoli», ma viene messa in atto «una strategia molto accorta per occupare tutte le posizioni in campo, lasciando l’avversario fuori dal gioco». In che modo questa “macchina” ci riguarda? In parte spiega come hanno fatto i leader totalitari a soggiogare le masse. E come potrebbero di nuovo riprovarci. Ma per penetrare l’altra faccia del problema - il desiderio delle masse di essere dominate – bisogna accendere una luce sulle pulsioni irrazionali che alimentano il funzionamento del dispositivo fascista. È il momento di stendersi sul lettino di Freud, capace di intercettare la questione prima dell’avvento dei regimi. È con il padre della psicoanalisi che lo sguardo si sposta sul desiderio, potente benzina della macchina totalitaria: il desiderio delle masse di essere sottomesse, sul quale si fonda il contagio della suggestione. Meccanismi incontrollati, tra sadismo e masochismo, che fanno parte degli esseri umani, per cui il germe fascista cova naturalmente nella massa
Spetta a Foucault compiere il passaggio definitivo, quello radicale («il fascismo abita il nostro spirito e la nostra condotta quotidiana»), seguito a ruota da Guattari, autore di un saggio esplicito soprattutto nel titolo della sua edizione inglese, Everybody wants to be a fascist. Guattari certo non poteva immaginare che cinquant’anni più tardi a dargli manforte sarebbe intervenuto il presidente degli Stati Uniti, che recentemente ha sostenuto che in molti desiderano la dittatura: riflessione che però non pare tradire la stessa angoscia manifestata dai filosofi dell’Anti-Edipo.
E qui ci avviciniamo a una delle poche domande che Esposito non formula direttamente, ma la cui risposta è forse nell’intero libro. Perché un professore emerito della Normale, a un secolo da quei fenomeni storici, si prende la briga di dedicare un saggio così denso al fascismo che è in noi? I riferimenti all’attualità sono fuggevoli, tra le righe ogni tanto un accenno ai populismi contemporanei, definiti «nuovi travestimenti» del fascismo. Ma è evidente che nell’incrocio vincente degli autoritarismi mondiali, e tra i rumori sinistri di un edificio democratico pericolante, Esposito ci abbia voluto mettere in guardia. I meccanismi pulsionali connaturati agli esseri umani «non si possono fermare, semmai orientare in un modo diverso». È qui che le forze democratiche possono intervenire per sconfiggere le seduzioni populiste. «Combattere il fascismo vuol dire, prima che negare la sua ideologia, smontare la sua macchina generativa che è dentro di noi». Meglio saperlo per tempo, prima di diventarne complici.
Lorenzo Lamperti Putin-Xi-Modi: l'alleanza anti-Occidente La Stampa, 31 agosto 2025
Un mese fa Ursula von der Leyen e Antonio Costa erano stati ricevuti all’'interno del gate dell’aeroporto, dove erano arrivati a bordo di un bus. Stavolta, sulla pista e sotto i piedi di Narendra Modi c’era un lungo tappeto rosso. La Cina accoglie il “resto del mondo”, quello non occidentale, che si è dato appuntamento in massa alla corte di Xi Jinping. Oggi inizia a Tianjin il summit Sco (Organizzazione per la cooperazione di Shanghai), piattaforma di sicurezza di cui fanno parte anche Russia, Bielorussia, India, Pakistan, Iran e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Ci sono tutti:Vladimir Putin, Aleksandar Lukashenko, Shehbaz Sharif e Masoud Pezeshkian. Ma anche i leader di una sempre più ampia schiera di aspiranti membri e partner di dialogo di Sud-Est asiatico, Medio Oriente, Africa e Sudamerica. Tra gli altri, il turco Recep Tayyip Erdogan, l’indonesiano Prabowo Subianto, il premier egiziano Mostafa Madbouly. «Il Sud globale non è più la maggioranza silenziosa, ma una nuova forza che fa sentire la sua voce», ha annunciato trionfalmente Pechino presentando il vertice.
Modi è il più atteso, alla prima visita dal 2018 dopo anni di enormi tensioni commerciali e militari con Pechino. Il disgelo è partito dopo che Donald Trump ha colpito Nuova Delhi con dazi punitivi per l’acquisto di petrolio russo. Ieri il premier indiano ha parlato con Volodymyr Zelensky, che gli ha chiesto di sostenere la tregua di fronte a Putin e Xi Jinping, coi quali avrà dei bilaterali e (forse) un trilaterale. Probabile che dietro le quinte si parli di una ipotetica missione di peacekeeping a guida sino-indiana, oltre a possibili strategie per attutire o aggirare sanzioni e dazi americani. La presenza di Modi dà maggiori profondità alla Sco, così come ai Brics: le tensioni tra Pechino e Nuova Delhi hanno sin qui impedito un completo allineamento dei due gruppi, che ora potrebbero implicitamente ambire al ruolo di “anti G7”. Non a caso, non si parlerà solo di sicurezza, ma anche di commercio, infrastrutture, energia e governance digitale.
Dopo il summit in Alaska con Trump, invece, Putin riafferma nel modo più spettacolare il legame con Xi. «La nostra partnership è una forza stabilizzatrice degli equilibri internazionali», ha detto il presidente russo all’agenzia di stampa cinese Xinhua, chiarendo il senso anti-occidentale che dà alla visita: «Il militarismo giapponese viene rianimato e l’Europa, Germania inclusa, sta compiendo passi verso la rimilitarizzazione, con scarsa attenzione ai parallelismi storici», continua, presentando Cina e Russia come paladine dell’antinazismo e antifascismo. Un modo per reiterare le mire presenti e future, comprese quelle di Pechino su Taiwan.
Dopo anni di pressing, Putin cerca il via libera al gasdotto Power of Siberia 2, su cui sin qui Xi ha temporeggiato. E sarà seduto al fianco del presidente cinese in piazza Tian’anmen, durante la mega parata militare di mercoledì con cui Pechino celebra l’ottantesimo anniversario della vittoria contro il Giappone. Dall’altro lato, ci sarà Kim Jong-un, la cui presenza è stata annunciata in extremis. È la prima volta che Xi vede Kim e Putin nello stesso momento. Un messaggio simbolico forte, che arriva dopo il trattato di mutua difesa Pyongyang-Mosca e l’invio di migliaia di truppe nordcoreane a combattere contro l’Ucraina. Per questo, dall’Europa arriveranno solo lo slovacco Robert Fico e il serbo Aleksandar Vucic, mentre quasi tutti gli altri Paesi non dovrebbero presenziare nemmeno con gli ambasciatori.
La Cina rischia un contraccolpo negativo d’immagine, ma Xi ha bisogno di riannodare il turbolento rapporto con Kim per non lasciarlo alla mercé di Putin. Peraltro, Trump ha appena ribadito di voler incontrare il leader supremo nordcoreano: ipotesi sostenuta dalla Corea del Sud, presente alla parata con il presidente del parlamento. Ospitando entrambi, Xi segnala alla Casa Bianca che è lui l’attore chiave per rilanciare il dialogo con Mosca e Pyongyang, che non possono (e non potranno) essere separate da Pechino. Nel frattempo, Xi ha già ricevuto una serie di leader, tra cui il generale golpista birmano Min Aung Hlaing e Antonio Guterres. «La Cina garantisce stabilità e certezza», ha detto al segretario generale dell’Onu. D’altronde, per il “nuovo timoniere” presiedere il doppio evento significa salire sul palcoscenico da cui la Cina si erge a leader del Sud globale, o meglio del mondo non allineato all’Occidente.
ifigenia attraversa tre vite e diventa una donna di oggi
Oltre il mito
Maria Luisa Colledani Il Sole 24ore, 31 agosto 2025
Il cuore e la ragione, l’etica e la politica. Dicotomie insanabili, oggi, come all’ombra del Partenone o tra le pieghe del mito che, in certi suoi volti, è contemporaneo. Come dimostra il nuovo libro di Francesca Ghedini, Ifigenia. Le tre vite di una donna diventata mito, «la storia delle emozioni di una fanciulla che si avvia verso la maturità, della ribellione di un’adulta che vede sfumare i propri sogni, della rassegnazione di una donna che alla fine della vita trova finalmente la pace». Insomma, è la fotografia di tante donne di oggi, a ogni latitudine. E il fascino di quest’opera è il suo hic et nunc, radicato nell’antico e nella modernità.
Ghedini, professoressa emerita di Archeologica classica all’Università di Padova, ha alle spalle importanti saggi sulle figure femminili antiche, lette attraverso l’iconografia delle ceramiche o gli affreschi di Pompei o le fonti letterarie in un caleidoscopio di rimandi e suggestioni. Era stato così per Maledette. Le donne del mito, lo studio su Circe, Pasifae, Arianna, Fedra e Medea. Ed è così per la storia di Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra, che mostra l’altezza della tradizione greca e insieme la ferocia di quel mondo. Non è tutto oro quel che luccica, a differenza di quanto spesso pensiamo, ingannati dalla bellezza e dall’equilibrio: «Se da un lato, la cultura greca, delle cui conquiste nella filosofia e nella storiografia, nella scienza e nell’arte siamo ancora debitori, può essere considerata una delle espressioni più alte della storia dell’Occidente, dall’altro mostra una struttura sociale chiusa e ottusa, dominata da un’élite maschile, che teneva donne, minoranze e stranieri in una posizione di emarginazione e subalternità per noi inaccettabili. Ne è prova il fatto che quella cultura maschilista e patriarcale riusciva a condizionare il pensiero femminile al punto che Ifigenia non solo accetta l’assurdo tributo di sangue, ma ne condivide le regole: “Del resto, non devo nemmeno amarla troppo questa mia vita. Tu mi hai generata non per te solo ma per la Grecia tutta”, dice al padre mentre si reca al martirio. E poi rincara: “La vita di un solo uomo vale quella di mille donne”».
Agamennone, signore di popoli, è il condottiero della spedizione greca a Troia ma il responso divino è senza appello: «Non salperanno le navi dalla costa se Artemide non avrà ottenuto tua figlia Ifigenia come vittima immolata». È il primo inaccettabile bivio della vita, come fa un padre a sacrificare la propria figlia? E anche le fonti antiche non sono univoche nell’antitesi akousa/ekousa, cioè di una Ifigenia riluttante/consenziente. La akousa, la ribelle, è tratteggiata nell’Agamennone di Eschilo; la nobile figura dell’eroina consenziente (ekousa) nasce con Euripide nell’Ifigenia in Aulide. Il colpo di spada si abbatte sulla giovane, ma a terra giace una cerva. È il prodigio che salva Ifigenia, destinata però ai confini del mondo, lontana da Micene.
Nel paese dei Tauri, la donna capisce quel che l’aspetta. Strappata alla sua terra, al matrimonio, ai sogni diventa custode del tempio di Artemide, la dea spietata responsabile e garante di sacrifici umani. Il dolore lascia posto all’accettazione del destino: quante donne come Ifigenia? La sacerdotessa è sola, con i suoi pensieri, i ricordi, immersi in pagine cariche di profumi e fruscii, sguardi e drammi, che danno al mito i tratti del romanzo. Ghedini costruisce un incastro ad orologeria perfetto fra arte e sentimenti perché la carica narrativa di affreschi e sculture diventa anche la cifra del racconto.
La madre Clitennestra si è vendicata del marito Agamennone e l’ha ucciso, il figlio Oreste ha ucciso la madre. Il sangue scorre a fiumi, è vendetta dopo vendetta. Intanto, Ifigenia pensa proprio all’amato fratello Oreste che ritrova sotto le vesti di un prigioniero e noi lo ritroviamo in tanta arte, come nell’affresco dalla Casa di Cecilio Giocondo di Pompei.
Svelamento dopo svelamento, preghiera dopo preghiera, Ifigenia sa che tanto sangue va purificato per ottenere il perdono degli dèi e, dopo templi disseminati in ogni dove, dalla Cappadocia alla Lidia, dal Ponto Eussino alla Grecia, come ricorda Pausania, è finalmente tempo di tornare a casa, abbracciare la sorella e dedicarsi alla crescita delle fanciulle al santuario di Brauron, in Attica. Cantano i rapsodi e sfilano le canefore, portatrici di canestri, con la loro corona di fichi, trasparente allusione all’organo femminile, e lei, Ifigenia – senza nozze, senza figli, senza patria, senza amore – resta sola con la vita che non si è scelta. Lei nel mito, come milioni di donne, da New York alle steppe più lontane.
Francesca Ghedini Ifigenia. Le tre vite di una donna diventata mito
Concetto Vecchio De Rita: Italia avanti alla cieca, in spiaggia manca il ceto medio, stanco di farsi sfruttare la Repubblica, 31 agosto 2025
Giuseppe De Rita, 93 anni, presidente del Censis, lei studia la società italiana da sempre: la rivolta contro i balneari è una protesta contro il carovita?
«Ma più che di rivolta io parlerei di malumore. Che però non porta al conflitto, ma al disincanto: “Io da te non ci vengo più, perché tu mi vuoi sfruttare”».
Perché questo malumore si è indirizzato lì?
«Perché il balneare è visto come un approfittatore. Ma non è un nemico di classe. Infatti più che ingaggiare un conflitto, lo si vuole evitare».
Il ceto medio non si è impoverito?
«L’impoverimento del ceto medio è un tema che c’è da trent’anni. In realtà, se si guarda al lungo periodo, oggi è ben patrimonializzato: fa le vacanze nelle case di proprietà, o di multiproprietà, gode di eredità. Molto di più rispetto a un tempo».
Trova?
«Succede quel che era avvenuto a partire dagli anni Settanta, quando aveva cominciato a crescere grazie all’economia sommersa, il localismo, la piccola impresa e a un po’ di statalismo».
Lei che Italia vede?
«Non ci sono crisi enormi. Ma il Paese va avanti alla cieca, senza visione, infatti la premier tende a cavalcare quest’aurea mediocritas».
Senza visione?
«Sì, non ha idea di dove stia andando».
Chi dovrebbe indicare la rotta?
«Gli intellettuali, i profeti. Ma non ci sono più. Non li ha neanche la chiesa, che un tempo annoverava padre Balducci, don Milani, don Primo Mazzolari».
Non è colpa della politica?
«Potremmo assolverci così. Ma la colpa è mia, sua, di tutti noi».
Però anche la politica sembra priva di profeti.
«Sì, il che spiega per esempio l’esaurimento di una politica di sinistra, nata dall’antifascismo, dalla Resistenza. L’antifascismo, la Resistenza, erano profetici. Ma oggi l’antifascismo è diventato il corteo del 25 aprile».
Cos’altro era profetico per la sua generazione?
«L’Europa».
Non più?
«Chi dovrebbe essere profetica, Ursula von der Leyen? Non ne parliamo! Non ha nemmeno l’energia e l’ardore che un tempo avevano i più mediocri degli europeisti. E non c’è più nemmeno un’élite capace di pensare in nome di tutti».
Perché?
«Un tempo l’élite pensava le cose che erano necessarie. Il filosofo Angelo Camillo De Meis, citato da Giulio Bollati ne L’italiano, sosteneva che c’erano due popoli: un popolo che sfanga la vita del lavoro quotidiano e un secondo che pensa il sentimento del primo e quindi ne è il legittimo sovrano, proponendosi come egemonia».
La destra punta all’egemonia.
«È una pretesa ridicola. Dicono di volerla rivendicare rispetto alla cultura di sinistra, ma pensano di esercitarla nominando i sovrintendenti a loro graditi».
Non funziona?
«L’egemonia non si afferma con il potere, ma attraverso un lungo lavoro di cultura, e di dialogo vero con la gente».
Lei era amico di Pippo Baudo.
«Confermo».
La sua morte ha suscitato un’ondata di nostalgia. La nostalgia è un altro sentimento ricorrente di questo tempo.
«L’antropologo René Girard definiva la nostalgia “il lutto di qualcosa che non è avvenuto”».
Un rimpianto?
«Non esattamente. Nella nostalgia si naviga meglio del rimpianto. La cultura moderna ormai è tutta schiacciata sul presente, senza visione, e allora in questo presentismo un po’ di nostalgia ci sta bene».
Un atto consolatorio?
«Un modo per apprezzare ciò che è stato, riportandolo così nel presente».
Ma non dovremmo guardare avanti invece che indietro?
«Infatti non risolve niente, però ti aiuta a vivere meglio».
E l’improvvisa nostalgia della Dc, sorta con la morte di Baudo, come la spiega?
«È apprezzamento per uno stile e un modo di fare politica che oggi mancano. Non dimentichi che l’italiano medio è stato molto democristiano, e il ceto medio tutto deve alla Dc, il cui collateralismo ne ha favorito l’ascesa».
Giorgia Meloni ha promesso aiuti al ceto medio.
«Perché sta tentando una svolta moderata, nel tentativo di allargare così il proprio consenso».
Dopo tre anni di governo che giudizi dà di Meloni?
«Ha espresso una grande furbizia: cavalca l’onda».
Non è un po’ poco?
«Non si può chiederle di avere una visione. Non ce l’ha nemmeno la sua classe dirigente. È una campionessa nel cavalcare l’onda dell’opinione corrente. Credo che legga tutti i sondaggi. Infatti quando un argomento è spinoso, non ne parla».
Come definirlo?
«È opportunismo. Capisce dove va la realtà. Tuttavia ogni politico deve parlare al ceto medio se vuole consolidare il proprio consenso a lungo termine. È un problema che si porrà anche a Trump, prima o poi».
Non trova che l’Italia tratti male i suoi giovani?
«Questo è sicuro. Il loro lavoro è malpagato. Ho un nipote, laurea alla Luiss, con un master, che vuole lavorare nel mondo del cinema. È stato assunto da una società di produzione cinematografica, come stagista. Prende 600 euro».
Come si fa?
«Lo aiuta la famiglia, come per tanti, grazie alla ricchezza già accumulata. Il ceto medio in Italia ha scoperto un metodo di rendita che è tipico delle classi signorili».
Il lavoro c’è, ma è malpagato?
«Difatti la parte bassa del ceto medio è costretto a fare più lavori».
Che cosa ci rivelano i siti sessisti?
«Sono la conseguenza di un presente molto vuoto, dell’incapacità di provare emozioni autentiche. La società attuale ha eliminato le emozioni, quelle grandi le viviamo attutite. E la mancanza di profondità emotiva porta alle perversioni. Forse perché il sesso vero non emoziona più».
Non è drammatico?
«Infatti non basta indignarsi, occorre che questa indignazione sia accompagnata anche da un’azione concreta»
Vanessa Roghi Cosa significa scuola difficile la Repubblica, 31 agosto 2025
Si parla tanto della necessità di una scuola più difficile, come sinonimo di una scuola di qualità. La scuola facile, si dice, penalizza soprattutto le persone più svantaggiate che avranno, se lo avranno, un diploma di serie B. Lo dicono intellettuali di destra ma anche di sinistra, lo dicono personalità politiche, docenti universitari. Lo dicono, spesso, nascondendosi dietro il fatto che già l’aveva detto Antonio Gramsci che è entrato (suo malgrado) nel Pantheon di tutti, evidentemente.
E quando si cerca di capire cosa si intenda per scuola difficile la risposta è quella più ovvia: maggiore durezza nelle valutazioni, più compiti a casa, più selezione, più bocciature. Del resto, è la vita stessa che lo chiede: non è un pranzo di gala, occorre impararlo presto, fin dai banchi di scuola.
Se qualche dubbio poteva essere insorto sull’origine ideologica e pedagogica dei rimedi proposti per rendere la scuola più “difficile”, questo tipo di chiosa sgombra il campo da ogni equivoco. È chiaro che la parola “difficile” è usata non nel suo primo significato: “non facile, che richiede quindi sforzo, fatica, attenzione, abilità”, bensì nel secondo, riportato dal vocabolario: “penoso, critico”.
Sarebbe meglio essere esatti, allora, essere onesti, e dire le cose come stanno: chi vuole una scuola “difficile” ovvero con più compiti e bocciature, vuole in realtà una scuola penosa, dolorosa, lacrimevole, miseranda, triste.
Ma a questo pensava in carcere Antonio Gramsci? L’intellettuale comunista nemmeno per un secondo nella sua vita ha pensato che per i più poveri la scuola dovesse essere penosa. Scritte fra le mura del carcere quanto emozionano ancora oggi le lettere ai figli nelle quali rievoca la sua educazione nei campi, e quelle alla sorella a parlare del sardo e della necessità di usare quella lingua come palestra di immaginazione.
E quando, sui Quaderni, anch’essi compilati nella prigione fascista, individua nell’attivismo un nodo problematico da sciogliere, e nello sforzo un essenziale strumento educativo, sappiamo bene di cosa sta parlando: la figura dell’insegnante non può scomparire, il laissez faire non funziona. «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Istruitevi, agitatevi, organizzatevi.
Si fa fatica a farlo, ma non c’è pena, non c’è noia. Già lo notava nel 1962 uno dei nostri migliori maestri, Bruno Ciari, quando discutendo con alcuni suoi compagni di partito che citavano Gramsci come lo si cita oggi, per giustificare la scuola penosa, scriveva: «Io sono per respingere questo concetto che la noia e la fatica abbiano un valore pedagogico: lo sforzo sì, mettere in moto le energie, ma non la noia e la fatica no, non sono educative». Dunque, sì alla scuola difficile, che impegna, che fa sforzare. No, un no deciso alla scuola triste.
Ho riletto una raccolta di articoli di Antonio Vigilante, insegnante e studioso, dal titolo La scuola difficile che mi piace citare: «Fare una scuola difficile significa studiare in modo diverso. Anzi: significa studiare, e basta. Faremo una scuola più difficile — più seria — quando la smetteremo di accontentarci di una simulazione di apprendimento. Quando fermeremo lo studente che ripete a memoria quello che c’è nel libro e cercheremo di verificare se ha capito davvero quello che ha letto. Ma come potrà aver capito, se non ci saremo fermati con lui a considerare ogni punto, a ragionare, ad approfondire? Una scuola difficile è una scuola lenta, profonda. È una scuola in cui il numero di pagine diminuisce, ma ogni pagina è una finestra per entrare in un mondo. Ed è una scuola in cui non esistono il docente, lo studente e il manuale, ma c’è una intera comunità che cerca il sapere confrontandosi. Una scuola difficile non è una scuola in cui il docente alza l’asticella per far sì che un maggior numero di studenti non riesca a saltarla. Quella è una scuola stronza, e non serve a nessuno. Una scuola difficile è tale in primo luogo per il docente, che dovrà lasciar perdere la cattedra, il manuale, la rassicurante routine, e impegnarsi in un lavoro quotidiano di scavo che richiederà tutta la sua cultura, ma anche tutta la sua passione». Istruiamoci, agitiamoci, organizziamoci. È difficile, ma ne vale la pena.
Un giorno, nell'estate del 2017, scrissi sul mio diario: "Gesù Cristo, per favore salvami". Ero intrappolata all'inferno e non vedevo via d'uscita. Il nostro splendido e soleggiato attico con due camere da letto nell'East Village – che avevo affittato a Rayya per renderla felice negli ultimi mesi della sua vita – era diventato una prigione di miseria, pericolo, degrado e droga. Rayya teneva le tapparelle abbassate a tutte le ore del giorno, non solo perché la luce le feriva gli occhi, ma anche perché era diventata profondamente paranoica, pensando di essere sorvegliata dalla polizia e che stessero venendo a prenderla.
E, a dire il vero, la polizia avrebbe potuto benissimo venire a prenderla (per entrambi, in realtà), perché il nostro appartamento ora conteneva migliaia e migliaia di dollari di cocaina – parte della quale Rayya stava cucinando e iniettando in qualsiasi vena riuscisse a trovare sul suo corpo distrutto e malato, parte della quale stava assorbendo cocaina pura [freebasing], parte della quale stava sniffando dal suo naso ormai costantemente sanguinante. Ma la maggior parte della cocaina, fino a quel momento, l'aveva sminuzzata e disposta in spesse strisce sul tavolino da caffè, accanto a un posacenere traboccante, una bottiglia di whisky, diverse bottiglie di morfina, trazodone e Xanax, una pila di cerotti di fentanyl e un mucchio di bottiglie di birra vuote. E queste linee di cocaina le contava, le pesava e le studiava tutto il giorno.
"Che cazzo stai guardando?" chiese, alzando per un attimo lo sguardo dai suoi amati mucchi di cocaina e scrutandomi attraverso una foschia bluastra di fumo di sigaretta, fissandomi con occhi ostili che, per quanto riuscissi a ricordare, non battevano ciglio da giorni.
Bella domanda.
Cosa stavo guardando?
Stavo guardando qualcuno che ormai avrebbe dovuto essere morto – a cui erano stati dati sei mesi di vita più di 15 mesi prima – ma che semplicemente si rifiutava di morire. Stavo guardando qualcuno che era stato recentemente cacciato dall'hospice (chi viene cacciato dall'hospice, a proposito?) per essere stato aggressivo e poco collaborativo con le infermiere e il personale di supporto gentili e generosi che avevano cercato di aiutare la mia amata compagna a preparare il suo corpo e la sua mente a una "morte dignitosa" – una morte che, a questo punto, Rayya aveva categoricamente rifiutato in favore del piano B, che consisteva nell'assumere abbastanza farmaci da sentirsi immortale, da non sentire più nulla.
Stavo guardando qualcuno che un tempo era stata l'unica persona sulla Terra in grado di farmi sentire completamente al sicuro e amata, ma che ora mi insultava verbalmente tutto il giorno, dicendomi che ero "un fottuto fallimento" quando si trattava di prendermi cura di lei; che tutto quello che stavo facendo per cercare di aiutarla era sbagliato; che ero una "piccolo piagnona bisognosa" che doveva "crescere, cazzo".
IOHo incontrato Rayya Elias per la prima volta nella primavera del 2000. All'epoca avevo 31 anni ed ero sposata. All'epoca ero su una certa strada: marito, bella casa, buon lavoro, stavo per mettere su famiglia. Solo che avevo un problema con i capelli, che erano crespi e arruffati. Un giorno un'amica mi disse che assomigliavo a un giovane Art Garfunkel e che dovevo fare qualcosa al riguardo. Mi suggerì di andare da una certa Rayya, che tagliava i capelli in un appartamento senza ascensore in Avenue C.
Quel giorno ero vestita come una commessa di Banana Republic, che è come mi vestivo sempre a quei tempi. Tutto cachi e cardigan. Ricordo chiaramente il mio abbigliamento, perché mi sentivo e apparivo così diversa da Rayya, che indossava pantaloni di pelle nera, una canotta bianca e stivali da motociclista. Mi sono innamorata di molte persone a prima vista, ma non di Rayya Elias quel giorno. In realtà, non mi innamorai di lei per altri otto o nove anni. Ma mi piaceva. Era divertente, interessante ed esotica.
Ricordo di aver chiesto a Rayya delle strane monete che erano ammucchiate sul suo davanzale. Mi disse che erano i suoi gettoni per la sobrietà. Non ne avevo mai visto uno prima, e mi lasciò maneggiarli. Aveva una moneta per ogni traguardo della sua guarigione: un giorno di disintossicazione, 90 giorni di disintossicazione, sei mesi, un anno, due anni, tre anni.
Mi ha raccontato di essere stata dipendente da cocaina ed eroina per gran parte della sua vita adulta, ma di essere pulita da tre anni. Mi ha mostrato le cicatrici sulle braccia, lasciate dalle iniezioni di speedball. Ricordo quanto sembrasse a suo agio quando parlava del suo precedente consumo di droga, e come usasse la parola "tossica" con un orgoglio rilassato che non avevo mai incontrato prima. Come appariva a suo agio nel suo corpo di sopravvissuta malconcia!
"È un fottuto miracolo che io sia viva", disse Rayya. Era infiammata da quella gratitudine esuberante che ora riconosco essere comune nei primi anni di recupero. Questa è la fase che alcuni chiamano "la nuvola rosa": quando il tossicodipendente appena sobrio è euforizzante per la gioia di essere finalmente libero dalla sporcizia e dalla schiavitù della sua dipendenza. Non ha bisogno di niente di più di ciò che ha nel momento presente, perché non riesce a credere di poter vivere un momento presente. La vita sembra semplice, luminosa, illimitatamente possibile.
Nemmeno Rayya si innamorò di me quel giorno. Non ero per niente come le sue amiche. Non ero punk, cool, dura, audace. Non c'era niente di speciale in me. Eppure, era colpita dal fatto che mi guadagnassi da vivere come scrittrice e che avessi un rapporto relativamente sereno con la creatività. Perché non ero più tormentata?, voleva sapere. La mia vita sembrava una curiosità a Rayya, tanto curiosa quanto lo era la sua vita per me.
Se questo fosse un incontro di 12 passi nel gruppo di recupero a cui partecipo regolarmente, e se stessi parlando della mia dipendenza, inizierei così: "Ciao, mi chiamo Lizzy e sono dipendente dal sesso e dall'amore". Se volessi essere più specifica sull'argomento, potrei aggiungere: "Sono anche un'ossessionata dal romanticismo, una dipendente da fantasie e adrenalina, una persona che facilita tutto e una codipendente dai blackout".
La mia dipendenza si manifesta come una convinzione sincera ma profondamente errata che qualcuno al di fuori di me sarà miracolosamente in grado di guarirmi interiormente, facendomi sentire finalmente al sicuro, amato e completo. Ho passato tutta la vita a cercare quella persona magica che mi vedrà e mi salverà.
Come per molte dipendenze, all'inizio può essere divertente, ma poi diventa rapidamente un inferno. Perché è così che finisce sempre la storia, ogni volta che sprofondo in desideri e ossessioni a questo livello: man mano che il mio cervello dipendente diventa sempre più tollerante a questi livelli ormonali anormalmente elevati, alla fine avrò bisogno di dosi sempre più grandi di "ricompensa" per provare la stessa euforia che ho provato all'inizio dell'incontro romantico. Farò qualsiasi cosa per ritrovare quella liberazione e quel sollievo.
Gilbert ed Elias a Melbourne, Australia, nel 2013. Fotografia: per gentile concessione di Elizabeth Gilbert
Presto trascuro la mia vita, concentrandomi sempre di più sulla persona che è diventata la mia fonte. Il mio comportamento diventa più pericoloso, più disperato, più appiccicoso, più esigente, mentre insisto affinché l'oggetto della mia infatuazione continui a stimolare il rilascio degli ormoni di cui il mio cervello mi dice che ho bisogno per sopravvivere. Se la persona non può o non vuole più soddisfare i miei desideri, non riesco a soddisfare il mio desiderio. E quando non riesco a soddisfare il mio desiderio, le mie ghiandole surrenali crollano. Dopo il crollo, arriva l'astinenza. E quando entro in astinenza, voglio morire.
Per tutto il tempo in cui mi sono avvicinata a Rayya – diventando sua amica, innamorandomi di lei, spinta sull'orlo della follia dalla sua terribile ricaduta nella tossicodipendenza – non sapevo di soffrire anch'io di una pericolosa dipendenza, che stava conducendo entrambi i nostri cuori in un territorio insidioso. Voglio dire, sapevo di essere parecchio incasinata, in termini di relazioni sentimentali, ma non sapevo di essere una tossicodipendente . E di certo non sapevo che, col tempo, sarei diventata dipendente da Rayya tanto quanto lei lo era dalla droga.
IOSono scappata dal mio primo marito e sono andata con un altro. Ci siamo fatti da matti l'uno con l'altra per un po', poi siamo crollati – duramente. Dopo la mia rottura, ho lasciato il lavoro, ho venduto tutto e ho viaggiato per il mondo, alla ricerca di qualcosa – qualsiasi cosa – che potesse guarire il mio cuore e ridare un senso alla mia vita. Ho incontrato un uomo brasiliano carismatico che mi ha riversato amore, attenzione, conferme e approvazione con abbondanza. Siamo tornati in America e ci siamo sposati.
Ho scritto un libro sui miei viaggi. Quel libro è diventato Mangia Prega Ama. Improvvisamente mi sono ritrovata con un sacco di soldi. Quando quei grossi assegni di royalty di Mangia Prega Ama hanno iniziato ad arrivare, il mio pensiero distorto mi ha fatto capire che non meritavo tutta questa abbondanza: perché ero così fortunata mentre altri facevano ancora fatica? Una soluzione è nata nella mia immaginazione: dovevo dare via tutti i miei soldi!
Per i codipendenti, alimentare la dipendenza negli altri ci fa sentire al sicuro, preziosi e in controllo. E ben presto mi sono ritrovato a scagliare soldi contro le persone esattamente come ero solito scagliare loro contro il mio corpo. Ho pagato le bollette delle carte di credito e i prestiti scolastici di familiari e amici; ho comprato loro vestiti, gioielli e case; ho investito nelle loro attività; ho sostenuto i loro progetti artistici; ho pagato i loro matrimoni; ho mandato loro in vacanze da sogno, ho sovvenzionato la loro terapia, ho finanziato la ristrutturazione della loro casa e ho coperto le tasse universitarie per i loro figli. Ho pagato le spese mediche di sconosciuti e ho comprato auto per i vicini che stavano attraversando momenti difficili. Ho inventato infiniti progetti di lavoro intorno a casa mia per dare lavoro a vari artigiani locali. Ho pagato la decima a chiese che non frequentavo nemmeno.
Voglio dire che ero un po' fuori di testa allora.
Durante quel periodo, continuavo ad andare in città in macchina per farmi tagliare i capelli ogni mese da Rayya, imparando a conoscerla meglio col passare del tempo. Quando alcune sue amiche mi fecero sapere che il suo matrimonio con la compagna Gigi era finito e che lei stava avendo difficoltà finanziarie, le proposi di trasferirsi in una chiesa ristrutturata che avevo comprato nel New Jersey, se solo avesse pagato le utenze, e di restare finché voleva.
Dopo che si è trasferita, siamo diventati più intime giorno dopo giorno. Mi chiamava ogni volta che era nei guai, proprio come io chiamavo lei quando ero nei guai. Ma non era solo la capacità di risolvere i problemi a unirci; era anche il piacere di stare insieme. Ben presto, Rayya è diventata la mia "accompagnatrice" per eventi sociali e impegni professionali. È volata a Londra per truccarmi e acconciarmi i capelli per la première britannica del film "Mangia, prega, ama" – e ha anche sfilato con me sul red carpet. Siamo andate insieme in Messico, a Detroit, a Los Angeles, ad Austin, in Australia, in Nuova Zelanda, a Miami. Siamo andate al cinema, ai matrimoni, da Target, da McDonald's, al Ringraziamento, ai concerti di Beyoncé, al karaoke, al Jersey Shore. Abbiamo incontrato Oprah insieme.
Provavamo reggiseni insieme, compravamo scarpe insieme, mangiavamo barbecue coreano insieme, preparavamo tacos insieme, guardavamo partite di calcio insieme, facevamo il Botox insieme. Ormai eravamo quasi sempre in pubblico come "Rayya e Liz". Potreste chiedervi che impatto abbia avuto questo sul mio matrimonio, ma mi convinsi che non ci fosse assolutamente alcun problema. Per come la vedevo io, ora avevo un partner platonico a cui piaceva partecipare con me al tipo di eventi sociali che a mio marito non piacevano, e che mi aiutava anche a stabilizzare la mia salute mentale.
Nel 2013, anno in cui entrambi hanno pubblicato i loro libri...
… e a una festa nel 2015 per celebrare il prossimo libro di Gilbert, Big Magic. Fotografie: per gentile concessione di Elizabeth Gilbert
Nel marzo 2013 Rayya pubblicò Harley Loco. Nell'ottobre dello stesso anno pubblicai The Signature of all Things. Per entrambi, questi libri furono un banco di prova e un trionfo personale. Le memorie di Rayya furono la prova, per se stessa, per la sua famiglia e per la sua comunità, che aveva la disciplina necessaria per portare a termine un progetto creativo e che lei – una ragazza immigrata che aveva a malapena finito il liceo – sapeva davvero scrivere.
Il mio romanzo è stata la prova per una schiera di critici professionisti e amatoriali che, nonostante il grande successo commerciale di Mangia, prega, ama – un libro che mi aveva catapultato direttamente nella prigione del racconto ironico dell'immaginazione di molte persone – potevo ancora scrivere un romanzo che mi annunciasse come un'importante figura letteraria.
Ho viaggiato in tutto il mondo per promuoverlo, e Rayya veniva spesso con me. Venivamo intervistate insieme abbastanza spesso, perché la gente cominciava a interessarsi alla nostra amicizia apparentemente improbabile: come avevano fatto la signora di Mangia, prega, ama e questa ex detenuta siriana scaltra scaltra a diventare così intime? La mia appassionata devozione per Rayya – che pensavo di tenere così ben nascosta – era lampante in ogni articolo. Inoltre, la gente continuava a scattarmi foto mentre guardavo adorante la mia "amica" e rabbrividivo ogni volta che vedevo i risultati.
Ma ora mi rendo conto che io e Rayya eravamo entrambe al massimo della forma quell'anno. Io, una scrittrice di fama internazionale, felicemente sposata. Lei, un esempio radioso dei miracoli della sobrietà. Entrambe là fuori a vendere le nostre storie.
OIl 25 aprile 2016, ho ricevuto una telefonata da Rayya. "Sei seduta?" mi ha chiesto, proprio come si fa nei film. Mi sono seduta. "Hanno trovato tumori", ha detto. "Molti. Non solo nel fegato. Anche nel pancreas." Il respiro mi ha abbandonato e per un lungo istante non è tornato.
Sapevo che Rayya si sarebbe sottoposta a un'ecografia epatica quel giorno, ma davo per scontato – come lei – che i risultati sarebbero stati non solo buoni, ma anche motivo di festeggiamento. Rayya aveva scoperto di recente che esisteva una nuova straordinaria cura per l'epatite C, una malattia che l'aveva tormentata per anni. L'epatite C era sempre stata classificata come incurabile, ma di recente un nuovo farmaco aveva dimostrato di poter eradicare completamente il virus dal fegato se assunto in dosi elevate per un periodo compreso tra sei mesi e un anno. Prima, però, aveva dovuto sottoporsi a un'ecografia epatica per scoprire se era una buona candidata per la cura.
Rayya spiegò che quando il tecnico aveva guardato le immagini sullo schermo, era improvvisamente diventato silenzioso. Aveva lasciato la stanza e chiamato un medico, che era entrato e aveva guardato anche lui le immagini. Anche il medico era rimasto in silenzio. "Giuro, la temperatura è scesa di circa 10 gradi", mi disse più tardi. "Nessuno parlava. E in quel momento ho capito che sarei morta".
Dopo aver riattaccato il telefono, mi sono sdraiata sul letto e ho pianto, pianto e pianto. Sapevo che dovevo andare da Rayya e starle accanto fino alla morte. Tutto sarebbe cambiato. Alla fine ho detto la verità a mio marito, sui miei sentimenti. E abbiamo concordato di porre fine al nostro matrimonio.
"Dopo averle confessato il mio amore, le ho chiesto: "Ti piaccio in quel modo?" Ti piaccio in quel modo ?" Fotografia: Deborah Lopez
Ora dovevo dirlo a Rayya. È stata una conversazione semplice. Dopo averle confessato il mio amore, le ho chiesto: "Ti piaccio così?". Ti piaccio così ? Avrei potuto benissimo passarle un biglietto dopo la lezione di ginnastica con scritto "Spunta la casella, sì o no".
Dopo un lungo silenzio, aprì gli occhi e sorrise. Poi mi prese tra le braccia e disse: "Tesoro, tesoro mio. Mio bellissimo tesoro, perché ci hai messo così tanto a venire da me?"
Non so se sia normale provare un senso di euforia dopo aver ricevuto una condanna a morte, ma Rayya l'ha sicuramente provato. "Tutti passano la vita a chiedersi come moriranno", ha detto, "e ora lo vengo a sapere? È incredibile! È fatta, è fatta. Perché mi sembra una notizia così bella? Rende tutto così facile".
Forse era perché Rayya era già “morta” così tante volte da tossicodipendente – con una overdose dopo l’altra – che la notizia della sua imminente mortalità non la spaventò molto all’inizio.
"Diamoci dentro e basta", disse, con gli occhi che brillavano di un'euforia che non le avevo mai visto prima. "Viviamo fino allo sfinimento finché non muoio!" Con entusiasmo, fervore, solennità, acconsentii a tutto.
Certo, dovrei anche dire che eravamo fatte come matte all'epoca. Se mai voleste vedere due persone ubriacarsi, farle innamorare perdutamente l'una dell'altra, farle reprimere quell'amore per circa otto anni e poi improvvisamente permettere loro di esprimere i loro veri sentimenti l'una per l'altra – e farlo sullo sfondo avvincente di una morte imminente, dove non ci sono letteralmente più conseguenze. Se almeno una di quelle persone (ma probabilmente entrambe, a dire il vero) è dipendente dal sesso e dall'amore, allora il viaggio diventerà ancora più scandaloso. Era quello il viaggio che stavamo facendo, ti dico, e stavamo volando.
"Non lasciarmi mai", mi supplicava. "Non lasciarmi mai svegliare senza trovarti qui". L'ho promesso. Fotografia: per gentile concessione di Elizabeth Gilbert
Ho iniziato a dedicarmi completamente a Rayya, inondandola non solo di amore e cure, ma anche di denaro e risorse. Ho preso completamente il controllo della sua vita dal punto di vista finanziario, non solo pagando le sue spese mediche, l'affitto e le esperienze che avrebbe voluto, ma anche comprandole delle cose. Tante cose! Tutto ciò che Rayya aveva sempre desiderato, insistevo che ora dovesse averlo. Me le aveva chieste specificamente? Ora non ricordo. Ma la desideravo . Così le ho dato tutto, e al diavolo le spese: non mi importava se mi avrebbe mandato in bancarotta.
Vuoi una Range Rover? Ecco la tua Range Rover.
Vuoi un pianoforte nuovo di zecca? Ecco il tuo pianoforte nuovo di zecca.
Vuoi un Rolex e degli stivali Prada? Ecco il tuo Rolex e i tuoi stivali Prada.
Ecco qua, amore mio: è tuo, è tuo, è tutto tuo!
Rayya e io abbiamo mantenuto quella dose di dipendenza amorosa per qualche mese dopo che finalmente ci siamo unite come partner romantici, il che è stato un bel periodo. E ragazzi, ci siamo divertite un sacco . Siamo riuscite a dimenticare completamente il passato, il futuro, la mortalità, la vita stessa. Sono stati i mesi più iridescenti e intensi della mia vita e – credo – della sua. Ma poi, ovviamente, è finita. Prima o poi qualcuno deve alzarsi dal letto, aprire le persiane e accorgersi che ci sono 90 messaggi vocali sul telefono e pile di posta che si accumulano fuori dalla porta. C'era ancora un mondo là fuori, accidenti – e quel mondo stava cercando con tutte le sue forze di attirare l'attenzione di Rayya.
Rayya avrebbe potuto desiderare di spegnersi in un tripudio di gloria, ma molti volevano che rimanesse. Alla fine, cedette al desiderio della sua famiglia di combattere il cancro e accettò di provare la chemioterapia. "Lo farò solo per rendere tutti felici", disse, "ma so che lo odierò e che non funzionerà. Quindi, dopo tre mesi, smetterò e farò di nuovo quello che mi pare".
La chemioterapia si rivelò una strega oscura e potente: efficace ma vendicativa. Fu brutale. Ma anche una grande fiducia e tenerezza crebbero tra noi. Con l'avanzare dell'autunno, le nostre giornate si fecero più difficili, ma lo scopo della mia vita si semplificò radicalmente: non esistevo per nessun motivo, ne ero fermamente convinta, se non per servire i bisogni di Rayya.
"Non lasciarmi mai", mi implorava di notte, quando soffriva. "Non andare mai da nessuna parte senza di me. Non farmi mai svegliare in questo letto senza trovarti qui al mio fianco". Le ho promesso più e più volte che non l'avrei mai lasciata.
"Assolutamente no", era la mia risposta costante. "Non me ne vado. Non ti lascerò mai, nemmeno per un istante". Avevo sentito di persone che si sentivano sopraffatte dal compito di prendersi cura di una persona cara malata, ma quelle persone ovviamente non sapevano amare gli altri con la stessa intensità o potenza con cui lo sapevo io. Altri potevano cedere o avere bisogni propri, ma io no. Mai io! Non avevo bisogno di pause e riposi, né di assistenza esterna. Avevo gestito tutta la situazione. Avevo amore ; non avevo bisogno di alcun aiuto!
La verità, però, era che stavo iniziando a crollare.
OAbbiamo trascorso il Giorno del Ringraziamento e il Natale con la sua famiglia, ed entrambe le occasioni sono state preziose, chiassose e dolci. Abbiamo trascorso il Capodanno insieme a New York. Quella sera ci siamo ubriacate, sapendo senza ombra di dubbio che il 2017 sarebbe stato l'ultimo anno di Rayya sulla Terra.
La mattina di Capodanno sono andata a fare una passeggiata sull'East River, per esprimere i miei desideri per il nuovo anno in riva all'acqua, come faccio sempre. Quando sono arrivata in acqua, ho pianto. Rayya si stava ammalando di nuovo, lo sapevo. Avevo notato che il suo gonfiore addominale e gli episodi di dolore e vomito stavano aumentando. Il cancro stava di nuovo crescendo.
Con il passare delle prime settimane del nuovo anno, Rayya soffriva spesso di un dolore così profondo da non riuscire a dormire per più di un'ora o due al giorno. Ci furono delle belle giornate in quel periodo. Gli amici organizzarono per Rayya una festa di compleanno squisita, e io e lei celebrammo una cerimonia di fidanzamento davanti ai nostri cari, con tanto di fiori, fedi e splendidi abiti da sposa. Ma il più delle volte, eravamo tormentate. Rayya non sopportava di essere sola nella sua angoscia, e poiché lei non dormiva, io non dormivo. Se mi addormentavo mentre mi parlava, si infuriava e mi svegliavo sentendola singhiozzare, accusandomi di averla abbandonata. Oppure mi svegliava per dirmi: "Voglio solo tornare a letto, coprirmi la testa e dormi".
Durante la cura contro il cancro di Elias nel 2016: "Lo farò per rendere tutti felici", ha detto, "ma so che lo odierò e non funzionerà". Fotografia: per gentile concessione di Elizabeth Gilbert
"Ok, tesoro", dicevo. "Vediamo se riusciamo a rimetterti a letto, allora."
"Vuoi solo che muoia. Vuoi solo liberarti di me."
Presto fummo entrambe distrutte: lei per il dolore fisico e la paura della morte, entrambe per la tristezza, la stanchezza e la mancanza di sonno. Era chiaro che bisognava fare qualcosa. Fu allora che le fu consigliata la morfina. E perché mai no? Tutti sapevano che Rayya era stata una tossicodipendente da oppioidi, ma nessuno si preoccupava più della dipendenza, perché era una paziente oncologica terminale in osservazione.
"Lascia che il drago rotoli ancora una volta", disse quando finalmente si mise in bocca la prima pillola di morfina. E in effetti il drago si svegliò rotolando. Aprì gli occhi gialli, sollevò le ali coriacee e potenti e volò a raffiche silenziose nel flusso sanguigno di Rayya. E all'istante, magicamente, la sofferenza della mia amata fu cancellata, proprio come la sua sofferenza era sempre stata cancellata dagli oppioidi.
Quanto velocemente finì quel momento di pace, dopo che la prima pillola di morfina scomparve nell'organismo di Rayya. Quanto velocemente il drago della dipendenza iniziò a ruggire nel sangue di Rayya, chiedendo ciò che chiede sempre: di più, di più, di più.
Dipendenza: una malattia contro cui Rayya ed io eravamo entrambe impotenti, a modo nostro. Dipendenza dall'amore, tossicodipendenza, dipendenza, codipendenza: è la stessa cosa: una malattia così instancabile, sporca e divorante la dignità che non avrà mai pace finché non sarai rovinato.
Dipendenza. Una malattia così insidiosa e vile che – lo giuro su Dio – fa sembrare un cancro terminale una giornata in spiaggia.
Mi è venuta una buona idea per salvarmi dall'incubo in cui ero intrappolato con Rayya. L'avrei uccisa.
Fu nel luglio del 2017 che mi venne in mente un'idea davvero buona su cosa mi avrebbe salvato dall'incubo in cui ero intrappolato con Rayya.
Ho deciso che l'avrei uccisa.
Non sto parlando di eutanasia, né di eutanasia, né di aiutare qualcuno che sta soffrendo molto a morire con dignità. Rayya, a quel punto, non voleva certo morire, e non le importava più niente della sua dignità. Tutto ciò che voleva fare era consumare quanta più cocaina, alcol, farmaci e sigarette possibile; monologare su quanto fosse straordinaria e potente per aver sfidato tutte le prognosi dei medici sulla sua "data di scadenza"; appisolarsi fumando sigarette a letto, finché lenzuola e federe non si spegnessero dalle sue braci; staccare vermi e insetti allucinati dalla sua pelle calda e pruriginosa; e dirmi che fottuto fallimento ero stata come essere umano per non essermi preso cura di lei meglio.
E poiché lei non dormiva, io non riuscivo a dormire. Ogni volta che chiudevo gli occhi, mi svegliava e mi chiedeva di prestarle attenzione, o di portarle qualcosa di cui aveva bisogno, o di ascoltare discorsi su quanto fosse brava lei e quanto fossi terribile io.
Non provava nemmeno più vera sofferenza fisica, perché era così profondamente alterata che non riusciva più a sentire nulla. Quindi, no, Rayya non voleva morire. Ma io volevo che morisse.
Ho elaborato il piano una notte tardi, quando lei era sveglia da molte ore, fissando uno specchio con l'occhio a solo un pollice dalla superficie riflettente, urlando al demone che giurava di poter vedere nel riflesso del suo occhio – un demone che, continuava a ripetere, "vive laggiù, in fondo al mio cervello".
Decisi di farlo il giorno dopo. Quella notte tornai a dormire in pace, sapendo che la liberazione era finalmente in vista. Voglio chiarire una cosa: quando dico che una volta avevo pianificato di uccidere Rayya, non intendo dire che mi sia semplicemente passato per la mente l'idea che la mia vita sarebbe stata più facile se lei non ci fosse più. Intendo dire che avevo la ferma intenzione di ucciderla. E racconto questa storia in tutta la sua cruda onestà, perché voglio che la gente capisca quanto folle possa diventare la codipendenza. Voglio dire, sono la brava signora che ha scritto Mangia, prega, ama. E sono stata molto vicina a uccidere premeditatamente e a sangue freddo la mia compagna perché mi aveva portato via il suo affetto, e perché ero estremamente stanca.
"Per molto, molto tempo, ci siamo guardati negli occhi in silenzio. In quel momento, è stato come se ci fosse stata una pausa nell'universo." Fotografia: Deborah Lopez
La mattina dopo, mentre Rayya si appisolava davanti alla TV, le rubai alcuni sonniferi e delle pillole di morfina e le portai con me al parco. Mentre i miei concittadini newyorkesi si occupavano delle loro cose nella splendida luce estiva, io mi sedetti su una panchina, studiando e confrontando i due farmaci nel palmo della mia mano, cercando di capire come far sembrare i sonniferi simili alle pillole di morfina, così da potergliene indurre a prenderne un po'.
Sapevo che avrei dovuto stare attenta a questo omicidio, non perché avessi paura della polizia (non ci pensavo nemmeno, ero così fuori di testa), ma perché avevo davvero, davvero paura di Rayya. Se si fosse svegliata e avesse capito che stavo cercando di ucciderla, sarei morta. Se non l'avessi uccisa io, mi avrebbe ucciso lei. Quindi avevo una sola possibilità per fare il lavoro come si deve.
Quando sono tornata all'appartamento, ero stranamente di buon umore. Sono entrata allegramente, dicendo: "Ciao, tesoro! Sono tornata!". Rayya mi ha guardata dal suo posto vicino al tavolino, che era, come sempre, coperto di cocaina, pillole e alcol.
Senza nemmeno battere ciglio, e con voce calma e seria, disse: "Non iniziare a complottare contro di me adesso, Liz". Per un lungo, lungo momento, ci guardammo negli occhi in silenzio. In quel momento, fu come se ci fosse stata una breccia nell'universo.
"Pensa attentamente a quello che stai per fare", disse Rayya, con una voce che non avrebbe potuto essere più lucida. Poi i suoi occhi si fecero di nuovo vitrei e tornò a concentrarsi sul tavolino da caffè coperto di droghe, alcolici e sigarette.
Chi pensavo di prendere in giro, dicendo che avrei potuto ucciderla? Nessuno poteva ucciderla. Nemmeno il cancro avrebbe potuto ucciderla, cazzo.
Senza dire altro, mi ricomposi e uscii dall'appartamento. Vagai per l'East Village per le successive ore, stordita, senza sapere dove andare o cosa fare. Poi, all'improvviso, ebbi un'ispirazione davvero geniale! Forse avrei dovuto prendere sonniferi e morfina! Non avrebbe risolto tutto, con facilità ed efficacia?
Voglio dire, la mia vita era già distrutta, quindi perché non finire il lavoro? Le pillole erano proprio lì, in tasca; l'atto poteva essere fatto facilmente. L'unica domanda era dove farlo. Non volevo morire per strada e dare fastidio a nessuno, o costringere qualcuno a occuparsi del mio cadavere. Forse avrei dovuto andare al fiume e buttarmi lì...
Poi ho sentito una voce nella mia testa, una voce che ha penetrato la mia confusione in modo così netto e rapido che poteva provenire solo da Dio. La voce diceva questo: Se sei arrivata a un punto della tua vita in cui stai seriamente pensando di uccidere te stessa o un altro essere umano, c'è una forte possibilità che tu abbia raggiunto il limite delle tue forze.
Ho smesso di camminare.
Ascoltai con più attenzione.
Mi sono appoggiato al suono di Dio, che mi offriva saggezza e guida. Stando così le cose , continuò la voce, forse è ora che tu chiami qualcuno e chieda aiuto .
Singhiozzavo, ero pieno di vergogna e rabbia mentre chiamavo queste persone – lacrime e moccio mi colava sul viso proprio lì, in pubblico – ma le chiamai comunque. Ricordo che uno di loro disse: "Quello che dicono sulle fasi del dolore è vero: negazione, rabbia, negoziazione – tutte queste cose accadono. Ma non accadono in ordine sparso. A volte accadono tutte insieme. È quello che sta succedendo a te e Rayya in questo momento. Voi due avete cercato di condensare un'intera vita in pochi mesi, quindi tutto è condensato e super intenso. Tutta la gioia, tutto il dolore. State vivendo tutto contemporaneamente."
Qualcun altro ha detto: "Ecco cosa devi capire sulle dipendenze altrui: non le hai causate tu, non puoi controllarle e non puoi curarle. Non c'è niente che tu possa fare per gestire Rayya a questo punto, e più cerchi di controllare la situazione, più perderai. Quando si tratta delle dipendenze altrui, qualsiasi cosa tu cerchi di controllare finisce per controllare te".
La vita non crolla all'improvviso, e non guarisce nemmeno all'improvviso. A volte un risveglio spirituale impiega un minuto per radicarsi, o qualche mese, o qualche anno. Ma qualcosa ha iniziato ad accadere dentro di me, dopo una giornata di singhiozzi al parco con tutti i miei amici più saggi. Qualcosa ha iniziato a volgersi verso la fioca e lontana luce della comprensione.
Rayya Elias è morta il 4 gennaio 2018. Aveva 57 anni. Al momento in cui scrivo, sono pulito e sobrio da quasi esattamente cinque anni. Oggi vivo da solo nella mia chiesa nel New Jersey.