Elsa Fornero
Quei salari bassi in un vicolo cieco
La Stampa, 7 novembre 2025
L'Italia si trova da tempo a dover affrontare due grandi problemi economici, collegati tra loro: la bassa crescita, che ci trasciniamo da circa tre decenni, e un forte peggioramento nella distribuzione dei redditi, con sensibile aumento della povertà nella popolazione, in particolare quella giovane. Sono problemi che abbiamo in comune con molti altri Paesi avanzati anche se da noi hanno assunto, nel tempo, un’intensità maggiore, che rende più difficile estirparli.
La bassa crescita dipende dal relativo insuccesso della nostra struttura produttiva nel creare, anno dopo anno, un insieme di beni e servizi - e perciò di redditi, che ne sono il controvalore monetario - stabilmente anche se moderatamente crescente. Basti pensare che un tasso di crescita del PIL pari al 3 per cento consentirebbe di raddoppiarne il valore iniziale in poco più di 23 anni: con una simile dinamica, che ci appare oggi straordinaria ma che è di gran lunga inferiore a quella del cosiddetto “miracolo economico”, i figli potrebbero godere, con i loro primi salari, di un benessere doppio possibile ai genitori alla stessa età. Con una crescita prossima a zero e in presenza di nuovi bisogni (come gli strumenti informatici oggi quasi universalmente diffusi), i figli stanno in realtà peggio dei genitori! Ed è quello che è successo da noi.
Le cause sono molteplici e intrecciate tra di loro: si va dall’eccesso di burocrazia, al peso di piccole imprese non innovative, che provoca carenza di innovazione diffusa; dall’insufficienza di investimenti in infrastrutture, istruzione e formazione professionale all’invecchiamento demografico, che riduce la capacità e il desiderio di innovare e la disponibilità ad affrontare il rischio. Quale che sia il mix di cause, negli ultimi decenni, caratterizzati peraltro da una serie di continua di shock molto negativi, l’Italia è rimasta indietro. La quota di reddito che remunera il lavoro dipendente è diminuita rispetto a quella del capitale, invertendo la precedente tendenza al progressivo miglioramento del tenore di vita delle famiglie e al rafforzamento del ceto medio. Un peso durissimo, soprattutto per le famiglie giovani e per il Mezzogiorno, hanno avuto sia crisi finanziaria del 2008, sia la successiva “grande recessione”. La precarietà del lavoro è aumentata e le famiglie con redditi medio-bassi hanno subito un calo del potere d’acquisto, mentre i redditi più alti sono rimasti stabili o addirittura sono aumentati, facendo crescere i patrimoni (non o poco tassati). Negli ultimi anni, questi divari hanno inoltre subito l’effetto dell’inflazione, che colpisce maggiormente i più poveri. E se l’occupazione è un po’ aumentata (il che è un dato sicuramente positivo) la sua qualità lascia molto a desiderare: i poveri restano poveri ed esclusi.
Di fronte a questo quadro, una singola legge di bilancio, particolarmente di un Paese impegnato nella riduzione del suo alto debito, può fare assai poco sulla crescita, e quella che si sta discutendo in questi giorni in Parlamento non fa eccezione. Né ha torto il Ministro dell’Economia quando dice che con la stabilizzazione delle finanze pubbliche si possono attrarre maggiori investimenti, soprattutto esteri, o almeno non scoraggiarli. Tre leggi di bilancio (quattro se il governo andrà alla sua naturale scadenza, ma senza considerare la prima), possono però fare la differenza; cinque anni di governo, se utilizzati bene, dovrebbero infatti essere sufficienti a dare al Paese un “senso di direzione”, un po’ più di dinamica e un po’ più di inclusione. E qui si trova il limite principale dell’attuale governo: pur godendo di una notevole stabilità politica non è riuscito a incidere sui fattori dai quali principalmente dipende la crescita di un Paese: l’istruzione, l’innovazione, la ricerca, la sanità. Queste erano le direttrici lungo le quali bisognava muoversi, sulle quali occorreva costruire una “mission” (questa sì, possibile). Il Governo ha però adottato un’ottica di breve termine, sprecando risorse in inutili progetti (il progetto Albania per la gestione dei migranti) o in pessimi provvedimenti (le diverse rottamazioni e gli aperti condoni), mentre il Paese ha continuato a perdere altri giovani a favore dell’estero.
Non sembra essere chiara neppure la strategia redistributiva per combattere la povertà e l’eccessiva diseguaglianza (una delle più alte nell’Europa occidentale). Anche in questo caso, infatti, il quadro è nettamente insufficiente, con provvedimenti di sgravio fatti allo scopo di aumentare i redditi da lavoro più bassi, che però – come ha ricordato ieri il Presidente dell’Istat nella sua audizione – finiscono per favorire i redditi più elevati (almeno nella fascia da 30 a 50 mila euro annui). Il giudizio complessivo (e, almeno finora, anche quello delle istituzioni internazionali) è che anche la nuova legge di bilancio sia accettabile più per quello che non fa che per quello che fa: poco e in direzioni non sempre socialmente eque. Sulla legge di bilancio l’aspetto più positivo (o meno negativo, a seconda dei punti di vista), infatti, è che non “sfascia” i conti pubblici, evitando che il Paese si avvii a una nuova crisi finanziaria. Il problema è che pare non avviarsi da alcuna parte.
https://ilmanifesto.it/litalia-dei-forti-dove-a-pagare-pensano-i-lavoratori

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