Marco Damilano
Borghesia, intellettuali (e Pd): non è solo colpa di Elkann
Domani, 14 dicembre 2025
Dopo gli scioperi, gli appelli, i tavoli sotto-ministeriali, le ondate di indignazione, le prediche più banali che inutili sulla libertà di stampa minacciata, la denuncia del nullismo manageriale di John Elkann e dei suoi famigli, oggi facile, ma taciuta negli anni in cui il palazzo di via Cristoforo Colombo sede di Gedi piano dopo piano spegneva le luci e piombava nel buio, sormontato dalla scritta «affittasi».
Dopo tutto questo, sarà però necessario chiedersi come sia stato possibile arrivare fin qui. Raccontare una storia che non comincia da oggi, dalla cessione dell’argenteria di famiglia al compratore greco che ha sul comodino la foto di Trump, non esattamente un amico dell’informazione indipendente.
Gli eredi Agnelli vendono i pezzi pregiati, la Repubblica come un’auto usata, la Stampa che possiedono da un secolo come un armadio da buttare, se lo vieni a prendere te lo regalo. Ma questa è la storia della resa di un intero mondo imprenditoriale, culturale, politica, di una certa borghesia irresponsabile. Di una certa idea dell’Italia, che un tempo avremmo amato definire di sinistra.
Un’inedita egemonia
La sera andavamo in via Veneto, «al caffè Rosati, che aveva soppiantato fin dall’immediato dopoguerra la terza saletta di Aragno», è l’incipit del memoir più famoso del giornalismo italiano, lo scrisse Eugenio Scalfari nel 1986, era l’autobiografia di un uomo di successo e di potere che aveva appena conquistato il primato sul “Corriere della Sera”, ma riletto oggi sembra già una premonizione della fine.
Scalfari parlava del «gran borghese di sinistra» Ugo La Malfa, di Adriano Olivetti, «un po’ mago e magico». E di Raffaele Mattioli, «un banchiere rinascimentale, in un capitalismo irrimediabilmente piccolo-borghese era un grande borghese». Fu lui a rispedire Scalfari da Milano a Roma: «Mi diede una piccola cifra al mese per scrivergli due paginette su quanto avveniva nella Capitale. Una specie di borsa di studio, mentre io lavoravo con Arrigo Benedetti al progetto di un nuovo giornale». Il nuovo giornale trovò casa in via Po 12, quattro stanze, più una toilette e un altro stanzino, era il 1955, era un settimanale, L’Espresso. «Sembrava di partecipare al varo d’una nave, della quale nessuno conosceva con esattezza, forma e dimensioni e strutture». In quelle stanze si aggirò, fino al Duemila, il principe-editore Carlo Caracciolo, si faceva il caffè in una piccola cucina di servizio, da solo o meglio con il cane, al piano di sopra c’era la mansarda di cui ha parlato Luigi Zanda. In quelle stanze la nave progettava le sue incursioni corsare, costruiva un’inedita egemonia.
Venti anni dopo, sulla prima pagina del numero uno di Repubblica, il 14 gennaio 1976, c’era l’editoriale non firmato: «È vuoto il palazzo del potere». A metà degli anni Settanta il Pci si sentiva a un passo dalla conquista del potere, ma era un’illusione: il palazzo si era svuotato, per vincere bisognava rappresentare nella società il nuovo che si candidava a riempire il vuoto. Era il progetto di un quotidiano nazionale con sede a Roma, nella Capitale, come mai era successo nella storia d’Italia, collocato nel cuore della politica e del palazzo disabitato, per riempirlo di personaggi, idee, suggestioni. Con un giornale, con un gruppo editoriale, la neo-borghesia progressista trovava quello che non aveva mai avuto: un riconoscimento, un racconto, un’epica. Trovavano voce, insieme, un pezzo di establishment, il mondo intellettuale e quel pezzo di movimento giovanile che negli anni Settanta affollava le piazze e che negli anni Ottanta-Novanta avrebbe scalato le posizioni.
Il giornale faceva partito a sé. Perdeva nelle urne, con Berlinguer e anche con De Mita, ma vinse nelle edicole e nella battaglia per l’egemonia. Nel 1990, quando Silvio Berlusconi, non Theo Kiriakou, provò a impadronirsene, la guerra di Segrate per il controllo del gruppo Mondadori fu violenta. Spaccò il mondo politico a metà, fu il vero anticipo del bipolarismo Berlusconi-Ulivo. E si concluse con l’intervento diretto di Giulio Andreotti, non del buon Alberto Barachini. Scalfari visse a lungo, morì nel 2022, ma il suo giornalismo e le testate da lui fondate erano finite prima. La sua scomparsa coincise con la vendita dello storico Espresso. La radice da cui era partito tutto divenne il laboratorio della grande dismissione.
Il vuoto è arrivato davvero, negli ultimi venti anni. E non per via della rivoluzione digitale. Prima della crisi industriale e della transizione, affrontata con sconcertante povertà di idee e di linguaggio (“digital first”, s’illuminavano di immenso i prodi manager della Gedi di Elkann, era il loro slogan, con apposito comitato), c’è stato il dissolversi di un sistema che teneva insieme la politica come pensiero e battaglia di idee, l’imprenditoria come coraggio, e l’intellettualità come inquietudine e non come auto-compiacimento da applaudire nei festival o da scaraventare nei talk, come si fa nei combattimenti dei cani, confondendo la visione con la battuta.
Vuoto a sinistra
Quando nel 2007 nacque il Partito democratico e l’intera sinistra politica, compresa Rifondazione comunista, era al governo (ancora per poco) il lettore (e l’elettore) di sinistra o di centrosinistra poteva contare su almeno sei giornali, compresi quelli di partito. E poi settimanali e riviste di cultura politica, per ogni gusto. E case editrici, produzioni cinematografiche e televisive, Raitre.
Dietro ognuna di queste operazioni si ritrovavano mondi: imprenditori che investivano nell’editoria, filosofi, giuristi, economisti che discutevano delle loro idee per il Paese, partiti che investivano, politici sempre infastiditi ma attrezzati al dibattito pubblico, anche nelle sue forme più anarchiche. Furono sottovalutate, in quegli anni, le ripetute chiusure dell’Unità, considerate un problema del partito-editore, e non un campanello d’allarme che avrebbe suonato prima o poi per tutti: per incapacità, per distrazione, per rapacità. E per difficoltà politiche, ovviamente.
Negli anni recenti il partito più grande della sinistra è andato al governo più volte, avendo perso le elezioni, sposando bandiere di qualunque tipo, dal liberismo all’anti-politica, ma non le sue. Il partito nuovo, il Movimento 5 Stelle, ha teorizzato di poter fare a meno di giornali e imprese culturali, anzi, le ha indicate come un nemico da abbattere.
Intanto la borghesia di sinistra si è dissolta, ha scambiato l’innovazione con il marketing, l’influenza con gli influencer, il dibattito pubblico con le agenzie di comunicazione. Al dunque, quando c’è stato bisogno di battersi, in pochissimi hanno dimostrato di saperlo o di volerlo fare. Questione di visione, ma soprattutto di ambizione. Ancora più inerzia ha dimostrato la politica, attentissima a contendersi l’ultimo vice-caposervizio della Rai e totalmente assente mentre nell’informazione privata sparivano interi pezzi di territorio e di democrazia. E ora si ritrova di fronte a una possibile svolta di destra, il referendum sulla giustizia, le elezioni politiche, il premierato, il presidenzialismo o quello che sarà senza un’opinione pubblica organizzata e combattiva. Quella si trova a destra, con i suoi personaggi spesso impresentabili.
Finita la nostalgia di un tempo finito per sempre, s’attende una nuova generazione che ricostruisca in questo panorama di macerie, simile a quella giovane che andava in via Veneto, con i suoi vascelli pirata da mettere in mare. Non facile in un’Italia più ricca di quella del dopoguerra, ma molto più sfiduciata.




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