mercoledì 2 luglio 2025

L'ombra di Ettore

Virgilio
Eneide

II, 268-297

Traduzione di Giuseppe Albini

Era l'ora che il primo sonno scende agli affranti mortali e, divin dono, soave si diffonde. Ecco, mi parve mestissimo vedere Ettore in sogno con grande pianto, qual già strascinato fu da la biga e nero di cruenta polvere e per gli enfiati piè trapunto da le redini. Ahimè qual era! quanto cangiato da quell'Ettore che torna de le spoglie d'Achille rivestito, o messo il frigio fuoco a' legni achei! Fosca la barba, il crin grumi di sangue, con le tante ferite che d'intorno a' muri de la patria ebbe per lei. E mi parve che primo io lo chiamassi piangendo e mesto prorompessi: - O luce de la Dardania, o la piú salda speme de' Teucri, quale ti trattenne indugio sí lungo? da che terra, sospirato Ettore, vieni? Oh come, dopo molte morti de' tuoi e dopo il vario affanno de la città, te lassi rivediamo! Qual malvagia cagione ha guasto il tuo volto sereno? e che ferite vedo? - Ei nulla, e al vano chieder mio non bada; ma con un grido e un gemito profondo - Ah! fuggi, figlio de la Dea, mi dice, e scampa a queste fiamme. È tra le mura il nemico; precipita dal sommo l'alta Troia. Fu fatto per la patria e per Priamo assai. Se si potesse or Pergamo difendere col braccio, era difesa già dal braccio mio. Troia ti affida le sue sacre cose e i suoi Penati: prendili compagni de' fati e cerca lor novelle mura che grandi, corso il mare, al fin porrai -.

Traduzione di Enzio Cetrangolo

Tempo era che il primo sonno comincia ai mortali
infelici e sui corpi stanchi dono celeste
dolcemente serpeggia.
In sogno ecco al mio sguardo Ettore apparve
in largo pianto effuso, imbrattato di sangue
e di polvere il viso come quando
fu trascinato per terra dai cavalli
e aveva i piedi gonfi, legati con le briglie
dietro le ruote della biga:
ruvido nella barba, il sangue raggrumato
tra i capelli, il corpo tutto pieno di piaghe,
quelle che lo avevano ucciso
sotto le mura della patria.
Oh quanto diverso da quell'Ettore che arduo
tornava vestito delle spoglie di Achille,
rosso ancora del fuoco gettato sulle navi
curve dei Greci.
E mi pareva che anch'io piangessi
e lo chiamassi con voce di dolore:
"O luce dei Dàrdani, tu baluardo
della nostra speranza, dove sei stato finora
immemore? Da quali lontananze ritorni,
desiderato? Dopo tanta morte dei tuoi,
dopo tante fatiche umane, stanchi noi ti guardiamo.
Chi ha turbato il tuo viso sereno?
Perché tutte queste ferite che vedo?".
E nulla rispondeva. Solo un grave sospiro
mise fuori dal petto:
poi quel sospiro si fece un gemito: "Fuggi,
tògliti alle fiamme, o nato di madre celeste.
Il nemico è dentro le mura, dalle somme vette
la città rovina. abbastanza fu dato
alla patria e a Priamo. E se la patria ancora
si potesse difendere, certo io 
con questo mio braccio lo farei. Ecco:
ti affido i Penati di Troia e queste cose
sacre; prendile compagne al destino
cerca per loro altre mura:
più grandi le farai di là dal mare".

COMMENTO

Questo canto, tanto commovente quanto famoso, è tratto dal libro II dell'Eneide ed è conosciuto come l’episodio de L’OMBRA DI ETTORE. Questi versi rappresentano, forse, il canto più alto, più toccante, più coinvolgente di tutto il poema insieme a quello de LA MORTE DI DIDONE nel libro IV e a pochi altri che non è il caso di menzionare qui, dilungandosi troppo. Esso piacque e divenne famoso quasi fin da subito. Perché? E’ un canto triste, malinconico, e l’episodio specifico è di una tragicità che fa tremare le ossa, sembra sconvolgere e a volte produrre un senso di angoscia infinito. Eppure in questo canto vi è tutto il pathos della concezione latina della vita e della morte, forse dell’intero pensare e agire del mondo mediterraneo al tempo della Grecia classica e di Roma imperiale.
Enea si trova alla corte di Didone regina di Cartagine, naufrago ed errante, ospite forse temporaneo forse duraturo. Per sdebitarsi dell’ospitalità concessa dalla regina, egli racconta la presa di Troia da parte dei greci; la fine dell’antica e nobile stirpe di Priamo; come riuscì a fuggire dalla città in fiamme e il suo errare alla ricerca di una nuova patria in terre lontane. Ettore era stato l’eroe per eccellenza della città di Troia, colui che era ritornato trionfante con le armi di Achille sottratte all’amico di lui Patroclo ucciso in duello, ma che era stato ucciso, a sua volta, da un Achille furibondo, per essere poi straziato nel corpo, appeso per i piedi alla biga del vincitore e trascinato, quale macabro spettacolo, sotto le mura della città. E’ precisamente in questa veste che appare in sogno ad Enea: lacero, sanguinante, desolato. Non nella gloria ma nella sconfitta. Per esortarlo a lasciare la città ormai perduta e a portare con sé quello che essa ha di più sacro: i Penati, gli dei del focolare; le sacre bende che cingevano l’effigie della dea Vesta e il fuoco a lei sacro. Quasi una trasmissione di testimone rispetto a un mondo e a una civiltà ormai perduti, ma che il Destino vuole rinascano, un giorno lontano e in terre lontane, nella potenza e nella grandezza di Roma dominatrice del mondo. Questo è forse l’intento più nascosto e più sentito di Virgilio: celebrare, per mezzo del Canto, la potenza raggiunta da Roma; dare alla civiltà romana che ha conquistato il mondo allora conosciuto un giusto riconoscimento e l’immortalità attraverso la Poesia. Eppure sembra anche voler dire che tanta conquista e tanta fama sono state possibili con le battaglie più cruente e le guerre più logoranti; spargimenti di sangue; sacrifici immani e la disciplina guerriera più dura. Ettore è solo un’ombra, in sogno; un Ettore vinto e pietoso, ed Enea, altro eroe troiano forse secondo solo allo stesso Ettore, in quel momento, nel suo sonno agitato non è da meno. Il pianto accomuna i due eroi troiani ormai perduti. Il dolore sembra animarli, renderli vivi e ancora capaci di lottare affinché Troia non scompaia per sempre dalla memoria degli uomini; la sofferenza dell’anima e del cuore infonde loro una speranza quasi impossibile e assurda in mezzo alla morte e alla distruzione. Allora Ettore non è più un’ombra che viene dall’Oltretomba ma si trasforma in essere ancora vivo, forse mai morto. Nell’immediata percezione di Enea,  egli costituisce una presenza viva, agisce come una persona in carne ed ossa, parla come qualcuno che ha sofferto e umanamente soffre per le ferite e per le umiliazioni subite, ma che ancora manifesta il desiderio di salvare il salvabile, incarnando sempre l’eroe prediletto sul quale Troia sapeva di poter contare per la propria salvezza o la propria sopravvivenza.
L’episodio dell’ apparizione di Ettore ad Enea è stato definito da Chateaubriand “un compendio dell’arte di Virgilio” perché il poeta latino ha saputo conciliare “l’ora in cui gli uomini nel primo sonno assaporano la quiete così necessaria alle loro membra stanche” con quella fase del sonno in cui, lentamente, i sogni affiorano e prendono forma, restituendo a noi tutti l’immagine amata di persone care ormai scomparse i quali vengono a noi per esortarci, consigliarci e farci capire che non hanno smesso di seguirci dalla dimensione ultraterrena e misteriosa dove la morte li ha portati. Napoleone Bonaparte vedeva, nell’ ombra di Ettore che appare in sogno ad Enea in questo canto dell’Eneide, il destino dei popoli; la fugacità delle conquiste; l’effimero dispiegarsi della gloria e della potenza che passando lasciano posto ad una strana vicinanza, nuda e ultima, fra uomini soltanto affranti, colpiti e rinnovati dall’esperienza forte e intensa del dolore. Nel 2000, il regista inglese Ridley Scott ha girato il film Il gladiatore, con l’attore neozelandese Russell Crowe come protagonista maschile. Forse uno dei rari prodotti cinematografici in grado di descrivere con pertinenza il mondo romano fatto di conquiste sanguinose al prezzo di sacrifici enormi; di una civiltà cruenta che poggia sulla schiavitù e la sopraffazione dell’uomo; sui combattimenti fra gladiatori quali spettacoli gratuiti nelle arene sparse per l'impero, e nonostante ciò portatore, per chiunque sappia coglierla, di quella pietas latina e tutta mediterranea “trasmessa”, quale eredità preziosa, in sogno da Ettore ad Enea e “portata” da quest’ultimo veramente ai confini dello spazio e del tempo.

https://www.poesiaeletteratura.it/wordpress/2012/10/lombra-che-esorta-alla-vita-publio-virgilio-marone/


L'Italia in abbandono

Allan Kaval
In Italia una crisi demografica senza rimedio

Le Monde, 29 giugno 2025

Tra Grumello del Monte e Telgate, nella prospera provincia lombarda di Bergamo, si respira preoccupazione tra gli industriali. Quest'area produttiva, con una popolazione di 12.000 abitanti, si è specializzata dal dopoguerra in prodotti per l'infanzia, beni che trovano sempre più difficoltà a essere venduti in Italia.

"Ogni anno i dati peggiorano a causa del calo delle nascite, con un calo costante delle unità vendute ", spiega Luciano Bonetti, titolare di Foppapedretti, azienda familiare specializzata in mobili in legno per la prima infanzia. In un'Italia in un declino demografico irreversibile, i neonati stanno diventando rari e carrozzine, seggioloni e altri fasciatoi non trovano più acquirenti.

Nel cosiddetto distretto industriale "baby" di Bergamo, la crisi delle nascite sta già facendo strage. Il produttore di passeggini CAM ha visto il suo fatturato crollare da 60 milioni di euro nel 2008 a 19 milioni di euro nel 2024 e sta valutando il licenziamento di cinquanta dipendenti. I suoi concorrenti Peg Perego sono passati da 600 dipendenti nel 2018 a 256 oggi, con un piano di cassa integrazione in fase di elaborazione. Brevi Milano, con i suoi lettini da viaggio e seggiolini auto, è addirittura fallita nel 2022, prima di essere acquisita da Foppapedretti. "A poco a poco, il mercato si sta restringendo e le aziende più vulnerabili stanno scomparendo", afferma Bonetti. "  Secondo me, il nostro distretto industriale è morto".

"Ho nipoti che hanno tre anni di differenza e frequentano la stessa scuola privata. Il più piccolo è in una classe di nove studenti. Quando il più grande era nella stessa classe, erano in 22 ", racconta l'imprenditore. "  Quando vado in centro a Bergamo, non vedo più bambini, ma persone che portano a spasso i loro cani". Ha preso in considerazione l'idea di riqualificarsi nel settore degli articoli per animali domestici. Ma le promesse di questo segmento non sono all'altezza, secondo lui: "Abbiamo valutato alcuni prodotti, ma il vero mercato in crescita in questo settore è il cibo per cani o gatti, non gli accessori..."

Sulla parete del suo ufficio, Luciano Bonetti fece collocare un grande ritratto del poeta e avventuriero Gabriele D'Annunzio (1863-1938), un nazionalista paladino della vitalità e della conquista della giovinezza. Al momento della sua morte, la "Battaglia delle nascite", una serie di politiche autoritarie pro-natalità avviate dal regime fascista a partire dal 1925, si era già conclusa con un fallimento. Un secolo dopo, il numero di neonati continua a diminuire.

"Una specie di gerontocrazia"

Un record storicamente basso è stato registrato dall'Istituto Nazionale di Statistica nel 2024 con 370.000 nascite, in calo del 2,6% rispetto all'anno precedente e di oltre un terzo inferiore al 2008. Il tasso di fecondità si attesta a 1,18 nel 2024, ben lontano dalla soglia di ricambio demografico di 2,05 figli per donna. Queste dinamiche si riflettono eloquentemente nel sistema scolastico: secondo i dati del Ministero dell'Istruzione italiano, il numero di studenti in età prescolare è diminuito del 21,4% tra gli anni scolastici 2013-2014 e 2023-2024. Risultati simili si applicano alla popolazione in età lavorativa, scesa dal 66,4% del 2005 al 63,4% del 2024. Tra il 2020 e il 2023, l'età media del Paese è aumentata da 45,7 a 46,4 anni, con un quarto della popolazione over 65. Pertanto, il continuo calo della popolazione in età lavorativa sta gravando pesantemente sul sistema pensionistico. Secondo i dati pubblicati dall'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, la spesa pubblica associata dovrebbe attestarsi al 15,3% del prodotto interno lordo nel 2025. A lungo termine, entro il 2050, si prevede un rapporto di un pensionato ogni tre persone in età lavorativa, il che metterebbe seriamente a repentaglio la sostenibilità del sistema attuale.

Il demografo Alessandro Rosina dell'Università Cattolica di Milano ha definito gli sviluppi in corso con il neologismo " degiovanimento ", una riduzione strutturale della presenza dei giovani nella società che ormai caratterizza il Paese e che si traduce in un circolo vizioso. "L'Italia ha una sorta di gerontocrazia ", ​​lamenta Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, che si occupa di integrare i giovani nel mercato del lavoro. "C'è una tendenza di chi occupa le posizioni più alte a non fermarsi mai, il che blocca la carriera ", spiega. "In questo Paese, si può ancora essere considerati giovani a 40 anni".

Il calo demografico dei giovani ha anche conseguenze politiche. "La classe politica è necessariamente più attenta alle aspettative degli anziani che alle richieste dei giovani, che hanno scarso peso elettorale ", spiega Francesco Billari, demografo e rettore dell'Università Bocconi di Milano. Questa realtà alimenta la fuga dei cervelli, secondo l'accademico, che osserva come il 35% dei laureati dell'università da lui diretta vada a lavorare all'estero. In totale, nel 2024 sono emigrati 191.000 italiani, con un aumento del 20,5% rispetto al 2023, mentre dal 2011 l'Italia ha perso 691.000 giovani tra i 18 e i 34 anni.

Di fronte a questa crisi dalle molteplici sfaccettature, le politiche pubbliche appaiono impotenti. "Le misure pronataliste sono associate all'eredità del fascismo e sono rimaste a lungo un tabù ", osserva Billari. La presidente del Consiglio italiano, di estrema destra, Giorgia Meloni, ha tuttavia fatto della questione demografica una delle sue priorità. Il suo governo, in carica dal 2022, ha attuato misure di sostegno alle famiglie, tra cui una riduzione dell'IVA sui prodotti per l'infanzia e un assegno una tantum da 50 a 175 euro al mese per figlio, a seconda del reddito dei genitori. Tuttavia, rimane ostacolato da gravi vincoli di bilancio.

Gravi disuguaglianze territoriali

L'Italia soffre anche di una lampante carenza di servizi pubblici per le famiglie, una situazione destinata a persistere, con gli obiettivi per la creazione di posti negli asili nido finanziati dal piano europeo di ripresa post-Covid NextGenerationEU rivisti al ribasso, che passano da 260.000 a 160.000. A questo si aggiungono gravi disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud del Paese. Ad esempio, mentre tutti i comuni della Valle d'Aosta forniscono servizi per la prima infanzia, in Calabria solo il 22% lo fa. "L'Italia riunisce le regioni più ricche dell'Unione Europea, come la Lombardia, e alcune delle più povere dell'Europa occidentale ", ricorda Francesco Billari. " Le prospettive demografiche mostrano che queste divisioni si amplieranno, con le regioni più spopolate che diventeranno anche le più povere, alimentando un circolo vizioso".

A Potenza, capoluogo della Basilicata, questo processo è già in atto. La città di 64.000 abitanti è in testa al territorio che ha registrato il maggiore calo demografico nel 2023, con un calo del 7,4 per mille. Sia a sud che arroccata sulla dorsale spopolata dell'Appennino, si trova ad affrontare una serie di svantaggi, con i suoi edifici vuoti degli anni '70 che circondano un centro storico deserto.

"Siamo in una spirale discendente ", spiega Giuseppe Romaniello, responsabile dell'ufficio di pianificazione sociale del comune. "  Con il calo del numero di cittadini, l'amministrazione non è più in grado di fornire i servizi pubblici necessari al sostentamento della popolazione. A poco a poco, il nostro paese sta diventando una città fantasma". Ritiratosi nella sua città natale, Renato Cantore, 73 anni, ex giornalista dell'emittente pubblica, è l'unico del suo gruppo di amici d'infanzia a vivere ancora lì. "Stiamo perdendo intelligenza e capacità, perché i più competenti se ne vanno", spiega. Il suo unico figlio si è stabilito in Svizzera, dove lavora come avvocato per l'Organizzazione Mondiale del Commercio.

"Il rovescio della medaglia della natalità è l'integrazione delle popolazioni straniere. Con misure meno restrittive sull'accesso alla cittadinanza, potremmo rendere i territori più attrattivi, ma ciò non basterebbe a risolvere il problema fondamentale della contrazione della base produttiva nelle regioni periferiche ", spiega Carmelo Petraglia, professore di economia politica all'Università della Basilicata. "Le aziende, vecchie e nuove, non investono perché i loro dirigenti sanno che non riusciranno a trovare personale", aggiunge Francesco Somma, presidente della sezione locale di Confindustria.

“Partire è diventato una necessità per i giovani”

La conseguente stagnazione economica sembra senza speranza. "Mancano persino le infrastrutture di base. Alcuni dei nostri villaggi sono praticamente inaccessibili. In molte aree industriali, abbiamo persino difficoltà ad avere una buona connessione internet... Non riusciamo né ad attrarre né a trattenere lavoratori ", si lamenta Salvatore Russelli, presidente di Hydros, azienda specializzata in sistemi di trattamento delle acque.

Al liceo Salvator Rosa di Potenza, Piero Bongiovanni, 63 anni, insegnante di lettere con quarant'anni di esperienza, lamenta lo svuotamento delle classi e il numero sempre minore di studenti: "Partire è diventata una necessità per i giovani. Se permettessimo loro di immaginare il futuro con un minimo di sicurezza grazie agli aiuti pubblici, potremmo forse farli restare e, come minimo, permettere loro di farsi una famiglia e frenare il calo delle nascite". Rispetto all'anno precedente, il numero di studenti iscritti in regione è diminuito di 247 unità per l'anno scolastico 2024-2025.

Carlotta Vitale, 59 anni, fondatrice dell'associazione culturale Gommalacca Teatro, che si impegna a contrastare il torpore di Potenza organizzando eventi musicali e teatrali, si rammarica che "l'idea che, qualunque cosa accada, sia meglio andarsene" abbia preso piede nella gente . Il suo compagno, Mimmo Conte, 44 anni, conferma: "I giovani sono rari e se ne vanno. Tutti quelli che fanno teatro con noi finiscono per andarsene da Potenza".

https://www.lemonde.fr/economie/article/2025/06/29/en-italie-une-crise-demographique-sans-remede_6616341_3234.html?search-type=classic&ise_click_rank=1


La cultura della destra al potere


Elio Cappuccio
Il cuore di tenebra della destra. Alle radici della democratura
Domani, 1 luglio 2025

In Nero indelebile. Le radici oscure della nuova destra italiana (Longanesi, 2025), Mirella Serri indaga intorno alla cultura politica che, sin dalle origini, ha ispirato Fratelli d’Italia. Nel novembre del 2011 Giorgia Meloni fu invitata a partecipare al secondo congresso del movimento fondato da Francesco Storace nel 2007, La Destra. La crisi del Governo Berlusconi e l’allontanamento di Gianfranco Fini da quell’area spinsero Meloni a recuperare, rileva Serri, il mondo di “destra-destra” che non si era riconosciuto nella svolta di Fiuggi del 1995.

Per recuperare il rapporto, Meloni dovette impegnarsi nel compito di delineare un comune terreno d’incontro, che si collocava, scrive Serri, «in quel brodo di cultura rautiano» diffuso nelle sedi romane del M.S.I., e particolarmente in quella di Colle Oppio, in cui lei stessa si era formata. In quel clima, fortemente segnato dal reducismo repubblichino, i militanti di Ordine Nuovo, come i seguaci di Julius Evola, costituivano una presenza significativa.

Insieme a Evola, il Marcuse della destra, come lo definiva Giorgio Almirante, altri maestri contribuivano nella formazione dei militanti, come Ernst Jünger, il cui Trattato del ribelle simboleggiava una alternativa alle democrazie “borghesi” o Pierre Drieu La Rochelle (autore di Socialisme fasciste), secondo il quale Hitler avrebbe fatto rinascere l’Europa sulle ceneri degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Nella biblioteca di Colle Oppio un posto di riguardo era riservato a Il Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien e nel 1977, da un’idea di Pino Rauti, nacquero i Campi Hobbit, in cui il culto della “Tradizione” incontrava i miti pop e rock, attirando giovani affiliati. Le manifestazioni di Atreju, promosse da Meloni a partire dal 1998, hanno poi raccolto questa eredità.

Nell’edizione di Atreju del 2018, dal titolo emblematico “Europa contro Europa”, apparve con chiarezza l’intenzione di mettere a confronto due visioni alternative del mondo. Nel logo, infatti, all’immagine di architetture antiche si contrapponevano le sagome delle sedi istituzionali dell’Unione Europea, per indicare come il grigiore tecnocratico gettasse un’ombra sui simboli della storia europea.

Nel 2019, Victor Orban, il teorico della democrazia illiberale, è stato fra gli ospiti più applauditi di Atreju, soprattutto quando, nel descrivere il rapporto della destra con gli avversari, ha citato un adagio popolare, che consiglia di confidare in Dio, tenendo però asciutta la polvere da sparo. Nell’edizione del 2024, a Roma, al Circo Massimo, è stato accolto con grandi ovazioni il filosofo Alexandr Dugin, molto apprezzato da Steve Bannon, da Matteo Salvini e da vari esponenti della destra internazionale. Dugin (ideologo di Vladimir Putin) fondò con Limonov, nel 1993, il partito Nazionalbolscevico, una formazione rosso-bruna in cui confluivano, in modo controverso, suggestioni provenienti da Antonio Gramsci, Carl Schmitt, Julius Evola, e altri pensatori, visti alla stregua di compagni di battaglia contro un Occidente giudicato decadente e corrotto. Si trattava di una guerra in cui anche la Chiesa ortodossa poteva rivelarsi un’alleata e lo stretto rapporto del Patriarca Kyrill con Putin lo ha testimoniato ampiamente.

L’apertura a un contesto internazionale, rileva Serri, non è nuova nella destra italiana, come dimostra il fatto che Rauti era vicino alla Nouvelle Droite, in cui convivevano esoterismo, antisemitismo e simpatie naziste.

Fra le figure più rilevanti in questo confronto spicca il filosofo Alain de Benoist, la cui presenza nella manifestazione di Atreju del 2023 è stata accolta con entusiasmo dall’allora ministro della cultura Gennaro Sangiuliano.

Meloni, insieme a Guido Crosetto e Ignazio La Russa, fondò Fratelli d’Italia nel 2012. Alle sue prime elezioni il partito ottenne meno del due per cento dei voti, che divennero circa il quattro nel 2022, per arrivare quasi al trenta nel 2022. Dopo essersi allontanata da Fini, che aveva favorito la sua ascesa politica, Meloni si allontanò anche da Silvio Berlusconi e dalla sua idea di una destra liberale ed europeista.

Nel programma di Fratelli d’Italia per le elezioni europee del 2014 si proclamava infatti la difesa dell’«Europa dei popoli», la netta opposizione all’Unione Europea e l’uscita dall’Euro. Sempre nel 2014, dopo l’invasione russa della Crimea, Meloni non ritenne opportuno incrinare le sue buone relazioni con Putin e criticò Paolo Gentiloni, che in Consiglio europeo aveva votato a favore delle sanzioni contro la Russia.

Dopo l’invasione dell’Ucraina del 2024, la sua posizione rispetto a Putin subisce però un mutamento e si assiste a un allineamento con l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Nato. Questa ambivalenza si manifesta anche di fronte alle vicende americane. La sintonia con Donald Trump, durante il suo primo mandato, è netta, a tal punto che nel gennaio del 2021 Fratelli d’Italia vota in Parlamento europeo contro la dichiarazione di condanna dell’assalto a Capitol Hill. Le critiche ai democratici americani vengono però messe in sordina quando Meloni, divenuta leader, si trova a confrontarsi con Joe Biden. Sarà poi pronta a riposizionarsi già in vista della seconda presidenza Trump.

Nell’“ideologia della superdonna”, incarnata da Meloni, fiera di essere la prima donna a guidare un governo italiano, è emerso, scrive Serri, un tratto decisionista in cui Berlusconi riconosceva quell’arroganza che si manifestò quando, contro le indicazioni di Forza Italia, Ignazio La Russa fu eletto Presidente del Senato. Serri identifica, in questa scelta, il secondo parricidio di Meloni, che dimostrava così, a sé stessa e al suo partito, di essersi liberata dai numi tutelari.

Nel prendere in esame i diversi aspetti della destra meloniana, Serri riserva una particolare attenzione alle posizioni di Fratelli d’Italia rispetto al fenomeno migratorio e coglie proprio qui un crudele “cuore di tenebra”. Il decreto legge varato a Cutro non sarebbe nato, a suo avviso, in seguito a quella tragedia, ma rifletterebbe le Tesi di Trieste del 2017, in cui si auspicava di affrontare la questione superando la «anomalia italiana della protezione umanitaria».

I centri di identificazione e di espulsione sarebbero stati così la risposta più adeguata. Nelle Tesi di Trieste, il documento valoriale di Fratelli d’Italia, si rifiutava il «mito dell’integrazione e del superamento della nazionalità», perché non avrebbe contribuito a realizzare un federalismo delle diversità, ma «un politburo di sapore sovietico».

Solo una «filosofia dell’identità» avrebbe allora consentito di recuperare le tradizioni culturali che l’universalismo e il multiculturalismo avrebbero cancellato.

Tutto ciò non implica certamente il progetto di un improbabile ritorno ai totalitarismi novecenteschi, sostiene Serri, ma alimenta una concezione autoritaria della democrazia, in cui il dissenso è mal tollerato da qualunque parte venga, dall’informazione, dalla stampa, dalle piazze o dalle aule universitarie. Appare paradossale che ciò accada con l’accondiscendenza dell’attuale leadership americana e che, come scrive Francis Fukuyama, le destre europee traggano ispirazione nel «vedere la più grande e antica democrazia che si muove verso il populismo».

ANSA


martedì 1 luglio 2025

Le cornacchie di Paestum


Nei suoi appunti di viaggio nel sud della Campania Albert Camus una volta giunto a Paestum nota la presenza dei corvi tra i templi, registra "il volo nero dei corvi". Il particolare salta all'occhio e forma un amaro sottofondo acustico che accompagna la contemplazione del tramonto in quei luoghi. Ad esso allude Enzio Cetrangolo quando scrive:

Stormi nutriti d'alte solitudini
vaganti idoli neri della polvere (I miti del Tirreno, Mondadori, 1958, Paestum)

Parecchi anni prima di Camus e Cetrangolo, nel 1934, era stato da quelle parti Giuseppe Ungaretti. Aveva scritto per la Gazzetta del Popolo una serie di articoli poi raccolti in volume: Il deserto e dopo (Mondadori 1961) e, in una versione ridotta, Viaggio nel Mezzogiorno (Guida, 1995). E qui le cornacchie acquistano tutta la loro importanza, addirittura arrivano a dominare la scena:

 “Circondandoli [parla dei templi, ovviamente] di febbre, seminando per tante miglia all’ingiro la paura, il tempo ha difeso per noi dalla morte il miracolo della loro forza. Che vediamo crescere, dominare, farsi arida, tremenda, disumana, e farsi pura idea via via che ci avviciniamo. Ora che siamo vicini, avviene che uno stormo di cornacchie si mette in fuga dal tempio di Poseidone; e appena in aria, una prima cornacchia lancia il suo gracchio; le altre rispondono rifacendo più e più volte quel verso. Di nuovo il corifeo strazia l’aria: questa volta i gracchi erano due, di tono nettamente più acuto; e il coro ripete i versacci accelerando il ritmo. Dopo, esse, in una confusione di strilli, spariscono… Sarà per averci fatto il nido da tante mai generazioni, sarà caso, sarà natura di questi uccelli atri, ma la metrica del loro canto è quella del tempio. […] Ed allora girandogli intorno, l’uomo raggiunge l’ultimo limite dell’idea del suo nulla, al cospetto d’un’arte che colla sua giusta misura lo schiaccia”.

L'immagine dei corvi o cornacchie tra i templi di Paestum al tramonto possiede una forza evocativa  di grande fascino: richiama la decadenza del sacro, la persistenza della natura su ciò che resta di una antica presenza umana e una poetica del sublime e del rovinoso. Non è difficile allora produrre una descrizione tipica dell'effetto causato dal clamore delle cornacchie in quel momento particolare. Ungaretti istituisce una sorta di armonia tra il richiamo della natura e la forma svettante delle colonne. Manca nel suo testo la carezza della luce che si insinua tra le sagome dorate dei monumenti. Il travertino butterato assume la tinta dell’ambra e acquista una evidenza viva che non ha durante le ore del giorno. Nell’aria increspata dal chiarore rossastro del sole che si abbassa, le cornacchie — ali nere, nervose — solcano lo spazio tra le architravi nude e l’erba selvatica. Il loro gracchiare squarcia la quiete e risuona tra gli alberi intorno, eco di un tempo che si prende gioco della nostra vanità più frivola, ridendo delle nostre illusioni e dei nostri rimpianti. Eppure, in quel volo frenetico e ostinato, c’è la forza di chi rifiuta di cedere alla polvere: un frammento di presenza, un residuo di sacro che si aggrappa ai resti dell’antico splendore, come un filo di memoria teso tra il mondo degli uomini e l’eterno mistero del tempo.

https://www.doppiozero.com/giacomo-ceccarelli-il-volo-delle-cornacchie

 

Khamenei redivivo

Maryam Rajavi

Francesca Luci 

Più nazione e meno religione, l'abile mossa politica di Khamenei
il manifesto, 1 luglio 2025

Nonostante l’immagine spesso cupa e medievale con cui si presenta, il leader supremo della Repubblica Islamica, Ali Khamenei, ha dimostrato una notevole abilità politica nell’ultima crisi con Stati Uniti e Israele. A pochi giorni dall’inizio del conflitto, molti osservatori lo davano per spacciato, nascosto in un bunker chissà dove, isolato e senza contatti, nel timore che venisse ucciso da infiltrati al soldo del Mossad o colpito da una bomba perforante.

Si diceva che avesse trasferito i suoi poteri a un gruppo ristretto di fedelissimi e che avesse già individuato tre candidati alla successione.

L’ultimo principe ereditario della monarchia lucidava la sua corona di fronte al Muro del Pianto, sognando il ritorno al potere, mentre i Mojahedin, oppositori storici, non vedevano l’ora di spolpare il Paese.

AL POTERE DAL 1989, l’86enne ayatollah continua a esercitare una leadership solida, nonostante l’ostilità di tutte le cancellerie occidentali, in particolare di Washington e Tel Aviv.

Il quadro assume connotazioni incredibili se si pensa che, secondo diversi studi, sondaggi e analisi delle rivolte e dell’affluenza alle urne, ben oltre metà della popolazione non sostiene più l’imposizione della sua linea politica autoritaria. La cosiddetta generazione “Z” esprime apertamente il proprio odio attraverso i social media malgrado divieti e controlli. Ma anche tra coloro che parteciparono alla rivoluzione del 1979 contro la monarchia, il consenso è ormai scarso. I nazional-religiosi lo accusano di aver tradito lo spirito di giustizia sociale della rivoluzione.

KHAMENEI ha sempre perseguito l’obiettivo di trasformare l’Iran in una potenza regionale. Un’ambizione che ha reso inevitabile lo scontro con Usa e Israele. La sua strategia si è basata sulla diffusione della rivoluzione islamica e sull’opposizione all’egemonia occidentale. Khamenei ha sempre evitato un conflitto diretto, seguendo una linea di equilibrio tra provocazione e contenimento. Questo approccio affonda le sue radici nella traumatica guerra Iran-Iraq (1980-1988), che costò la vita a circa 280 mila iraniani. Quel conflitto ha plasmato la cultura strategica del Paese, generando un’avversione radicata verso guerre su larga scala.

Tuttavia, ciò non significa che Khamenei, se costretto, non avrebbe sostenuto una difesa del Paese fino all’ultimo sangue. Al contrario, l’appartenenza al ramo sciita dell’Islam – che riconosce il martirio come atto supremo di fedeltà e sacrificio per la causa della giustizia e della verità – rende una simile posizione quasi naturale. Tuttavia, in un Iran sofferente e ostile verso una leadership percepita come dispotica, un richiamo religioso difficilmente avrebbe potuto fungere da collante nazionale. Il vecchio leader percepisce il forte sentimento nazionale della popolazione, che pone la patria sopra ogni altra priorità e non tollererebbe un’aggressione esterna. Per questo, il richiamo al nazionalismo e all’unità diventa centrale nei discorsi di Khamenei, e la bandiera nera del martirio scompare dagli schermi, sostituita da quella nazionale.

ISRAELE E LE OPPOSIZIONI iraniane della diaspora consideravano concreta la possibilità di una sollevazione di massa, auspicandola apertamente. Sebbene molti iraniani desiderino un cambiamento e la fine del regime, paradossalmente, per molti Israele diventa un nemico nel momento in cui la prima bomba distrugge un’abitazione e uccide civili.

Khamenei sembra vedere il conflitto con l’Occidente come un continuum necessario alla propria sopravvivenza. Tuttavia, come dimostrano i fatti, quando viene superato il limite che minaccia la sicurezza del regime, arrivano decisioni come il cessate il fuoco, non previsto fino alla sua entrata in vigore.

Tutto sommato, l’intero evento bellico, pur colpendo duramente strutture nucleari, ha giovato all’immagine di Khamenei: ha evitato la resa sul nucleare, come voleva Washington; ha ottenuto il vantaggio strategico di presentarsi come Paese aggredito, capace di resistere alla superpotenza mondiale, infliggendo per la prima volta danni all’interno del territorio israeliano, umiliandone la difesa e – non da meno – sedando fortemente il malcontento popolare. Nel suo primo discorso dopo il cessate il fuoco, Khamenei parlava dell’unità dei 90 milioni di iraniani, capitalizzando la devozione popolare come se davvero tutto il Paese fosse unito dietro il suo leader.

CHI PENSAVA che questa leadership fosse giunta al termine, o che la sua ostilità verso l’Occidente e Israele si stesse affievolendo, dovrà ricredersi. Khamenei è l’unico leader che è riuscito a raggiungere un cessate il fuoco con un Paese che non riconosce, Israele, e con un altro con cui non parla direttamente, gli Stati Uniti, attraverso la mediazione di un Paese che aveva appena bombardato: il Qatar!


Una comunista cilena


Gennaro Carotenuto

Cile, la comunista Jeannette Jara vince le primarie. Ora viene la sfida più difficile
Domani, 1 luglio 2025

Sarà la comunista Jeannette Jara, già ministra del Lavoro di Gabriel Boric, a sostenere la sfida – difficile – di non consegnare un Cile sempre più polarizzato all’estrema destra di José Antonio Kast nelle presidenziali del 16 novembre.

È questo l’esito delle primarie di domenica 29, dove Jara si è imposta col 60 per cento su quella che fino a un mese appariva la favorita, la socialdemocratica Carolina Tohá (28 per cento), già ministra degli Interni e figlia di José Tohá, socialista, anch’egli ministro degli Interni di Salvador Allende, sopravvissuto alla battaglia della Moneda, poi fatto assassinare da Pinochet.

Una svolta

 

Fino a poche settimane fa Jara non superava il 30 per cento nelle aspettative di voto e, solo nelle ultime settimane, si era percepito che la vittoria di Tohá, considerata da quasi tutti i politologi nazionali come la figura più opportuna per sconfiggere le destre, non fosse più così sicura. Nel discorso di accettazione, molto cilenista, ovvero puntando sull’orgoglio nazionale come s’usa da queste parti, ha lanciato il primo segnale sulla linea che prenderà la campagna già lanciata: «Continueremo a essere un paese libero, indipendente e sovrano».

La partecipazione al voto, di 1,4 milioni, è stata relativamente bassa, con il governo che, esagerando, chiamava a raggiungere i due milioni. Questa ha indubbiamente favorito Jara, capace di contare sulla militanza tradizionale comunista, in pochi paesi al mondo tuttora radicata e diffusa come nel paese australe, ma il suo successo appare così netto da avere sia caratteristiche personali.

Così, per la prima volta dal ritorno della democrazia, il campo progressista avrà una candidata comunista. I precedenti recenti sono di quando nel 1999 Gladys Marín ottenne il 3,2 per cento al di fuori della Concertazione e del 1970, quando il PCCh candidò ufficialmente Pablo Neruda, poi ritiratosi per convergere su Salvador Allende il 4 settembre.

Jara, 51 anni, militante della Jota (Gioventù Comunista) dal 1989, appena compiuti 14 anni, avvocata e amministratrice pubblica, è una politica esperta che in queste settimane di esposizione mediatica ha mostrato molto più carisma della rivale Tohá. Sottosegretaria di Michelle Bachelet (2016‑2018), e soprattutto ministra del lavoro del governo Boric (2022‑2025), ha costruito il suo consenso con riforme emblematiche come la settimana lavorativa di 40 ore e un consistente aumento del salario minimo. In un partito ancora ufficialmente marxista-leninista e vicino alla Rivoluzione cubana, che ha definito «una democrazia distinta», mentre si è distanziata dal Venezuela di Maduro definito «un regime autoritario», la prima sfida sarà quello di mostrare un profilo progressista capace di tenere insieme una tradizione plurale del centro sinistra e sconfiggere le destre al ballottaggio.

Cosa si muove a destra


La destra è favorita per novembre, e non solo per il profilo polarizzante di Jara, ma il cammino non le sarà facile. Senza primarie i candidati saranno tre: la più moderata Evelyn Matthei, battuta nel 2013 da Michelle Bachelet con un modesto 37 per cento al ballottaggio, l’ultra José Antonio Kast, sconfitto da Boric nel 2021 col 44 per cento e l’emergente libertario (una versione transandina di Milei) Johannes Kaiser.

Sono le cosiddette tre destre, una sorta di attacco a tre punte, pronto a riunirsi nel ballottaggio. Matthei, figlia di un generale golpista, è la più centrista con tinte quasi liberal. Kast è il conservatore duro e puro, che quattro anni fa appariva la destra più estrema possibile, oggi superato dall’odiatore populista Kaiser.

Se a lungo nei sondaggi andava in testa Matthei, oggi questa è in caduta libera. Per il 16 novembre, ma tanta acqua dovrà passare sotto i ponti del Río Mapocho fino allora, Kast è valutato intorno al 24 per cento e Jeannette Jara al 16 per cento (dato che non contempla ancora il successo nelle primarie). La contesa, con ogni evidenza, si risolverà il 14 dicembre al ballottaggio.

Camus a Paestum


Giovanna Taverni
Camus e la luce di Paestum

Domani, 1 luglio 2025

Soprattutto d’estate, quando siamo avviliti dalla calura e meditiamo di fuggire, capita di inciampare su pagine di taccuini di viaggio che ci dirottano altrove. A volte le pagine nascondono storie poco note. Tra i taccuini e i diari di appunti che Albert Camus ha scritto per quasi tutta la vita, c’è la storia di un suo mirabolante viaggio a Paestum.

Nell’inverno del 1954 lo scrittore franco-algerino arriva in Italia per una serie di conferenze: Camus si sposta tra le città di Torino, Genova, Roma, ma ha in serbo un progetto più intimo per il suo viaggio italiano: andare a Paestum con Nicola Chiaromonte per vedere i templi greci.

I due amici si accordano già in estate attraverso uno scambio di lettere: vogliono avventurarsi nell’antica città per vivere insieme il sogno greco, nessuno dei due era ancora mai stato in Grecia: Camus aveva organizzato un viaggio nel 1939, poi era scoppiata la guerra e ci aveva rinunciato.

Paestum diventa allora una sorta di segreta aspirazione per due spiriti fraterni e lontani. Chiaromonte ci è già stato, ma è il desiderio di tornare con l’amico e condividere l’esperienza ad entusiasmarlo.

Cercare la Grecia

Camus insegue la luce, quella delle mattinate della sua infanzia in Algeria, una luce che a Parigi non trova. Ogni città ne ha una propria e con essa la sua fatalità. Quando a inizio dicembre arriva in treno a Roma, Camus sembra commosso dalla luce romana «rotonda, brillante, morbida», e dai canti degli uccelli tra i ruderi. Il pensiero meridiano e la nostalgia mediterranea orientano però lo scrittore a spingersi ancora più a Sud, verso luci più arancioni, alla ricerca della primavera di Tipasa, dell’estate di Algeri, del «gran libertinaggio della natura e del mare».

Nei suoi appunti di viaggio, diario esistenziale e girovago dello scrittore, Camus annota giorno per giorno le tappe che lo condurranno a Paestum. A volte il suo stile è telegrafico: «Giornata grigia. Febbre. Resto in camera. La sera vedo Moravia».

Ancora a Roma gli viene la febbre, una febbre tenace: quasi dispera di poter continuare il viaggio. L’indomani però parte lo stesso, scende a Napoli insieme a Nicola Chiaromonte e Francesco Grandjacquet, l’attore protagonista di Roma città aperta. I tre compagni girano per le strade di Napoli, osservano processioni, balconi e madonne, e la febbre non passa, ma non è la peste e allora Camus lascia scorrere le ore e aspetta che passi. Ma non passa.

Il mattino dell’8 dicembre Camus si sveglia rassegnato: la febbre è così resistente che si convince di non poter più raggiungere Paestum; dovrà tornare a Parigi senza aver visto i templi, esiliato dalla Grecia e dalla sua fantasticheria. «C’è qualcosa tra me e i templi greci. All’ultimo momento interviene sempre qualcosa che mi impedisce di raggiungerli». In un certo senso Camus si arrende al caso. Poi l’assurdo. Il giorno dopo miracolosamente la febbre scompare.

Camus, Chiaromonte e Grandjacquet saltano in macchina e partono in direzione meridionale: passano per Sorrento, ammirano il giardino di Cocumella, pranzano ad Amalfi, si scambiano i posti alla guida, sfrecciano sulle strade, attraversano zone industriali e finalmente arrivano a Paestum all’ora del tramonto. Ed ecco che il sogno deve affrontare la realtà: sarà Paestum all’altezza?

ANSA
I corvi e i bufali

«Qui il cuore ammutolisce», scrive Camus e pare confermare che a Paestum qualcosa ha trovato. Qualche riga dopo scrive così: «L’ora, il volo nero dei corvi, i rari canti d’uccelli, lo spazio tra il mare e le colline, e queste meraviglie calde e precise, si fissano nella mente, e tutto questo, nella mia stanchezza e nella mia emozione, mi porta a due dita dal piangere».

Per gran parte della sua esistenza Albert Camus è andato in cerca di una riconciliazione con la libertà dell’infanzia. Sotto la luce arancio che cade al tramonto sui templi di Paestum, con le narici soffocate dalla merda dei bufali, in quella distesa di ruderi in mezzo alla pianura, con le mura greche da scavalcare come i bambini, poco più in là il mare, Camus ritrova una parte d’infanzia.

Gira e ammira tutto quanto, i corvi in volo sopra il tempio di Poseidone, le «colonne di spugna rosa», i canneti sulla strada verso la spiaggia, il mare nudo, la natura. La notte s’addormenta cullato dal bianco della sua camera da letto. Ha freddo ma è felice. «Difficile staccarmi da questi luoghi, i primi dopo Tipasa dove io abbia conosciuto un abbandono di tutta la mia persona», scrive prima di ripartire.

Si racconta che il pittore Mark Rothko, passeggiando tra gli scavi di Paestum, si disse sorpreso di avere scoperto di aver dipinto templi greci tutta la vita senza saperlo. Bisogna avere una certa fantasia per immaginare le rovine dei templi guardando le sue tele – nero su grigio, viola verde e rosso, blu diviso da blu, untitled blue, untitled red – ma Rothko stava parlando di qualcosa che teneva nelle interiora, una sensazione più primordiale e astratta, la stessa che deve aver spinto Camus a mettersi a cercare la Grecia, e così pure Nicola Chiaromonte, intellettuale, resistente, fuggiasco, venuto dalla Magna Grecia.

Lui e Chiaromonte: due odissei


Come due odissei sballati in cerca di un’Itaca, i due amici stringono un legame antico e giovanissimo attraverso un viaggio che si ripeterà per sempre nei quaderni e attraverso le parole, perché ciò che è scritto resta (e non è sempre detto che sia un bene).

Ripartendo da Paestum, Camus, Chiaromonte e Grandjacquet risalgono la costa campana e fanno una sosta a Pompei: dalla Grecia a Roma e senza ritorno. «Interessato, ma mai commosso», annota Camus, che arrivato a questo punto del viaggio confessa a un margine di quaderno di avere sempre preferito la lirica greca alla poesia latina, l’ingenuità alla forza. Dopodiché è ora di tornare a casa. Albert Camus risale in macchina con Francesco Grandjacquet verso Roma. La febbre è passata del tutto.

Qualche giorno dopo, da Parigi, Camus scrive ancora a Chiaromonte. Nelle sue lettere lo chiama Nicolas, alla francese. «Ho ancora Paestum nel cuore», gli scrive, «la notte sulla spiaggia e le bufale immobili nel buio. Ci sono luoghi come questi, che danno nutrimento a lungo».

Nicola Chiaromonte non lascia passare tanti giorni che gli risponde: «Anche a me, Paestum – e la sua compagnia – hanno fatto bene. Innanzitutto, sentirci più amici che mai, con le nostre conversazioni e con tutto ciò che vedevamo insieme. In secondo luogo – e questo concerne soprattutto Paestum – essere a contatto con quella realtà solitaria, fiera e senza tempo che la Grecia ci indica con tanta fermezza».

È anche in questi stralci di lettere scritte a posteriori, da due paesi, dopo la sbornia del viaggio italiano e i giri e gli scavalcamenti, che si trova il senso di questa ossessa ricerca dello spirito greco che ha legato i due amici sotto una luce arancio nel bel mezzo dell’inverno millenovecento cinquantaquattro.