martedì 24 settembre 2024

Scerbanenco, sulle tracce dell'orrore



Giovanni Basile
SoloLibri.net

Insegnare a scuola, talvolta, può essere davvero pericoloso: anzi, letale. E’ ciò che accade alla povera Matilde Crescenzaghi, coscienzosa professoressa nella scuola serale milanese "Andrea e Maria Fustagni", massacrata dai propri allievi: undici ragazzi sulla strada della delinquenza con famiglie spesso disastrate alle spalle e problemi sociali vari, una classe alla “Mery per sempre” ante litteram, per capirci.

In “I ragazzi del massacro” (Garzanti Libri, 2014) le indagini sono condotte naturalmente dal mitico Duca Lamberti, il poliziotto ex medico creato dalla polivalente fantasia di Scerbanenco.
Lamberti, personaggio spiccio e diretto, condurrà le indagini rischiando molto in prima persona pur di arrivare in fondo alla verità, insieme con il paziente Mascaranti, l’inseparabile Livia Ussaro e gli inevitabili contrasti di opinioni e modi di agire con il grande capo sardo, Càrrua.

Le indagini iniziano subito con l’interrogatorio in questura del "branco" per ricostruire la dinamica del brutale omicidio - adrenaliniche le scene descritte sul terzo grado a cui i ragazzi vengono sottoposti, tutti giovani fra i tredici e i vent’anni, per poi, dopo un susseguirsi di vicende abbastanza movimentate, concludersi con una soluzione drammatica del caso.

I tempi narrativi sono serrati, incisivi, senza però indugiare su particolari descrizioni morbose e crude come, per esempio, si usa spesso oggi nella letteratura di genere poliziesco.
Il palcoscenico della trama è il solito: la Milano anni Sessanta, grigia, umida, soffocata dal traffico, con i suoi suburbi desolati e anonimi dove prolificano degrado e malavita.
Inalterata la capacità dell’autore di accendere l’attenzione del lettore su una storia dura, con tutti i risvolti tematici di emarginazione e devianza giovanile, disadattabilità sociale, droga e carcere minorile, affrontando tra le righe argomenti consueti del disagio che si respira nelle periferie di ieri, di oggi, di sempre. È il triste e disperato mondo in cui si muovono i reietti dalla società raccontati da Scerbanenco.

Una storia coinvolgente - l’ennesima di questo immenso e prolifico autore - da consumare con piacevole avidità, al costo di neanche 9 euro.


https://www.lemonde.fr/critique-litteraire/article/2024/09/21/la-chronique-poches-de-francois-angelier-les-laisses-pour-compte-de-giorgio-scerbanenco-chris-de-stoop-claire-baglin_6326769_5473203.html

« Douceur, dont on se demande bien ce que tu fais sur la terre », s’interrogeait André Malraux, interdit et bouleversé, dans ses Antimémoires (Gallimard, 1967). Il est, en effet, des mondes où l’irruption de la douceur serait vue comme une incongruité absurde, un danger ou une agression. A Milan, l’école du soir Andrea et Maria Fustagni fait partie de ces enclaves protégées de toute tendresse. Quelques héros laïques y dispensent vaille que vaille des cours à des adolescents perçus comme des rebuts inscolarisables, fils de prostitués, rejetons d’alcooliques, ­syphilisés congénitaux. L’assistante sociale qui en gère le quotidien est indemne de toute illusion : « Il n’existe pas d’homme doux. C’est une contradiction dans les termes, ou alors il s’agit d’êtres anormaux… » C’est dans une des salles de classe, au tableau graffité d’obscé­nités, qu’est retrouvé le corps dévasté de Mathilde Crescenzaghi, institutrice. Coupables désignés, les onze élèves de son cours. Carburant de la fureur : de l’anisette sicilienne dopée aux amphétamines. Mais qui pour manigancer cette curée atroce ?

C’est ce que va s’échiner à trouver, de nuit comme de jour, au cas par cas, alors que sa nièce agonise à l’hôpital, l’inspecteur Duca Lamberti, dont Les Enfants du massacre constituent la troisième enquête, après Vénus privée (1966) et Tous des traîtres (1966). Le chapitre final, monument de barbarie vengeresse, donne à ce chef-d’œuvre de noirceur un final d’anthologie. Mêlant une amertume désolée héritée de Simenon à la violence acharnée du roman noir américain, l’Italo-Ukrainien Giorgio Scerbanenco (1911-1969), maître incontesté du polar italien d’après-guerre, nous assène là, égarées dans la brume d’un Milan hivernal, à la fois une évocation tragique des laissés-pour-compte du boom économique italien et une galerie d’insensés portraits au couteau. Après celles de Roland Stragliati et de Gérard Lecas, le texte est proposé en intégralité dans une excellente traduction de Laura Brignon.

I ragazzi del massacro - Wikipedia

Diotima, la donna del dialogo


La poetessa Jadwiga Łuszczewska, che utilizzava il nome d'arte Diotima, in posa come l'antica veggente in un dipinto di Józef Simmler (1855)


 Dobbiamo pensare a un tempo in cui non era facile per una donna trovare posto nella società maschile, e quindi nella vita pubblica dominata dai maschi. Era così nell'Atene misogina di Socrate e di Platone. Nondimeno anche a quel tempo le donne esistenti potevano sviluppare pensieri e idee come accadeva ai loro concittadini maschi. Ecco allora come si arriva a Diotima di Mantinea. Questa donna non prende direttamente la parola in uno tra i dialoghi di Platone, il Simposio, viene chiamata in causa da Socrate, il quale rende conto del suo pensiero riguardo al tema dell'amore. Passano i secoli e Diotima ricompare in Germania nella stagione del romanticismo. Il poeta Hölderlin si innamora di una signora sposata, Susette Gontard, che per lui diventa Diotima. Curioso destino, quello di un nome che non è associato a una persona dotata di una esistenza autonoma. Diotima è la donna chiamata in causa da un interlocutore di sesso maschile. Nonostante ciò, mantiene una sua fisionomia e si staglia con palese disinvoltura sulla scena sia nel Simposio di Platone che nel rapporto epistolare con Hölderlin. 

La Diotima di Hölderlin

In una casa agiata di Francoforte, luminosa e circondata da un folto parco, il poeta assoluto dell’età moderna, Friedrich Hölderlin, allora ventiseienne, incontrò Diotima, il suo «amato amore». E subito scriveva: «C’è un essere al mondo presso il quale il mio spirito può e potrà indugiare millenni». Quell’essere, che per Hölderlin era Diotima, si chiamava per tutti gli altri Susette Gontard, ed era la madre del giovane Henry, a cui Hölderlin doveva fare da precettore. Così nacque non una storia d’amore, ma una storia che era l’amore. Le stupende lettere di Diotima, così perfettamente accordate nel timbro a Hölderlin, sono l’unica traccia immediata che ci rimane di quella vicenda, che ebbe una conclusione brutale, a cui seguì entro breve tempo la morte improvvisa di Diotima. Ma anche in un certo gruppo delle liriche di Hölderlin parla Diotima, e nel suo nome anzi si può dire che Hölderlin trovi per la prima volta la sua inconfondibile voce. (Diotima e Hölderlin, Lettere e poesie, a cura di Enzo Mandruzzato, Adelphi, Milano 1979)

La Diotima di Platone (e di Socrate) 

Socrate Esporrò invece il discorso, che ascoltai, un tempo, su Amore, da una donna di Mantinea, Diotima, che era sapiente in questo e in molte altre cose. E agli Ateniesi che una volta celebravano dei sacrifici, prima della pestilenza, cagionò un ritardo di dieci anni del malanno e a me fu maestra nelle faccende d'amore. Il discorso dunque che disse a me, prendendo io lo spunto da quanto si è concordato tra me e Agatone, proverò ad esporvelo da parte mia, a seconda delle mie possibilità. Occorre dunque, Agatone, esporre, nel modo al quale ti sei attenuto anche tu: chi è Amore e qual è, poi dire le sue opere. Mi pare comunque che per me sia alquanto facile attenermi al modo che un tempo seguiva la straniera interrogandomi. Perché anch'io un presso a poco le dicevo le cose quali ora Agatone sosteneva con me, che Amore è un gran dio, che è amore del bello: ed ella mi contraddiceva con i ragionamenti con cui ho confutato lui: che non è bello, secondo il mio discorso, e non è neanche buono. E io le dicevo: "Come dici, Diotima? Amore è brutto, ed è anche cattivo?". Ed essa: "E non vorrai parlare da costumato? O pensi forse che quel che non è bello debba per forza essere anche brutto?" "Certo", dicevo. "E quel che non è sapiente, deve essere ignorante? Non capisci dunque che tra sapienza e ignoranza c'è in mezzo qualche cosa?" "E cos'è questo?" "E non sai che avere retta opinione, anche senza avere il mezzo di darne ragione, non è né sapere è cosa illogica infatti, come potrebbe essere scienza? e neppure ignorare perché, quello che anche a caso raggiunge il vero, come potrebbe essere ignoranza? : un qualcosa di mezzo tra discernimento e ignoranza "Tu dici il vero", le dicevo io. "Non forzare dunque quel che non è bello a essere brutto, e quel che non è buono a essere cattivo. Così anche Amore, siccome tu stesso ammetti che non è buono né bello, non pensare affatto che debba essere brutto e cattivo, ma un qualcosa di mezzo a queste cose", diceva. "Eppure", intervenivo io, "si riconosce da parte di tutti che è un gran dio". "Tu dici tutti quelli che non sanno", mi chiedeva, "o anche quelli che sanno?" "Dico tutti indistintamente". Ed essa ridendo, mi chiedeva: "Ma come, Socrate, è riconosciuto come un grande dio da quelli che sostengono che non è neppure un dio?" "E chi sono questi?", rispondevo io. "Uno", ribatteva, "sei tu, l'altro io". E io ribattevo: "Ma come mai dici questo?". Ed ella di rimando: "è facile", rispose. "Dimmi: non sostieni tu che tutti gli dèi sono felici e belli? E oseresti dire che uno fra gli dèi non è né bello né felice?" "Per Zeus! Io no!", rispondevo. "E non chiami felici tu quelli che hanno bontà e bellezza?" "Ma certo". "Ma hai ammesso che Amore, per mancanza della bontà e della bellezza, desidera proprio queste cose di cui è privo?" "L'ho ammesso, infatti". "E come potrebbe essere un dio chi è privo della bellezza e della bontà?" "In nessun modo, a quel che pare". "Vedi dunque", incalzava, "che anche tu pensi che Amore non sia un dio?" "E cosa sarebbe allora", rispondevo, "un mortale?" "Niente affatto". "Ma cosa allora?" "Come si diceva prima", rispondeva, "un qualcosa di mezzo tra mortale e immortale". "Cosa dunque, Diotima?" "Un gran demone, Socrate. Infatti tutto ciò che ha parte del demone sta in mezzo al divino e al mortale".

Diotima-Palomar(wordpress.com)
(99+) Il grande equivoco dell'amore platonico, Corriere della sera - La Lettura, domenica 20 settembre 2015 | Mauro Bonazzi - Academia.edu




lunedì 23 settembre 2024

Etty Hillesum, un atto di fede e di speranza

 



Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride
la notizia atroce
non l'ha ancora ricevuta.

Bertolt Brecht, A coloro che verranno, 1939

Viviamo in tempi difficili,  è un dato evidente. Di nuovo, come sull'orlo dell'ultima grande guerra, quando Brecht scrisse i versi citati in epigrafe. Siamo inseguiti dalle brutte notizie: morti in guerra, alluvioni, prospettive politiche incerte e minacciose qua e là, migranti lasciati annegare, giovani lasciati marcire in attesa di un lavoro che si trova solo all'estero in molti casi. In tempi assai difficili visse  Etty Hillesum che era nata nel 1914 in Olanda, a Middelburg, in una famiglia ebrea non praticante. Trasferitasi ad Amsterdam, si era laureata in Legge e cominciava a studiare lingue slave e a dare lezioni di russo (la lingua della madre). Era una giovane donna colta, vivace, curiosa. E molto irrequieta. Era in apparenza una donna come tante altre, aveva trovato lavoro come impiegata. Su di lei pendeva la minaccia della deportazione e della morte. Ne era consapevole. Tenne un diario che è per noi fonte di ispirazione e di luce spirituale ancora oggi, soprattutto oggi.
Il 7 settembre 1943 Etty con alcuni familiari salì su un convoglio diretto in Polonia. Dal treno, riuscì a gettare un biglietto che fu ritrovato lungo la linea della ferrovia  e spedito alla destinataria, una sua amica: fu l'ultimo suo messaggio. Il padre e la madre morirono tre giorni dopo, durante il  tragitto o gasati al loro arrivo; secondo quanto riportato dalla Croce Rossa, Etty morì il 30 novembre 1943 e suo fratello Mischa il 31 marzo 1944, entrambi ad Auschwitz. 

Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1996

Sabato sera, mezzanotte e mezzo [20 giugno 1942] Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose. Si deve insegnarlo agli ebrei... Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori con il nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati, oppressi, col nostro odio e la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e lavorare ‘a se stessi’ non è proprio una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di trasformarlo in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo -. È l’unica soluzione possibile... Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra.


domenica 22 settembre 2024

Caterina II, l'imperatrice e il filosofo

 



Ivan Semënovič Sablukov, Ritratto di Caterina II (1770)

Peter ScheibertL'impero russo da Pietro il Grande alla Rivoluzione di febbraio, Storia universale Feltrinelli, Russia, traduzione di Libero Sosio, Milano 1973 

Anche Caterina II (1729-1796) fu innalzata al trono (1762) da un putsch della guardia, senza dover rinunciare a una benché minima parte del suo potere autocratico. Quale che possa essere stata la sua complicità nell'uccisione del marito, è certo che non fece nulla per salvarlo. Soprattutto ella fece di tutto per impedire l'ascesa al trono del proprio figlio Paolo (nato nel 1754). Il popolo russo si vide messo di fronte a un'usurpazione che non era legittimata da nulla; i disordini popolari cominciarono allora ad assumere un peso maggiore. Prima di Napoleone nessun sovrano dell'epoca moderna si era presentato in scena con tanta abilità propagandistica quanto la dotatissima figlia di un colonnello prussiano appartenente all'oscura famiglia di Anhalt-Zerbst. L'Europa intellettuale si prostrò ai suoi piedi; Voltaire e Diderot resero omaggio al potere "progressivo". Il fatto di riuscire a corrompere l'opinione pubblica di vari decenni fu già in sé un'impresa notevole. 


Louis-Michel van Loo, Ritratto di Denis Diderot (1767)


Robert Zaretzky, Catherine and Diderot: The Empress, the Philosopher, and the Fate of the EnlightenmentHarvard University Press, 2019, 272 pp.

Recensione di Maria Lipman, Foreign Affairs, 15 ottobre 2019

Zaretsky è uno storico della Francia e, come ammette lui stesso, un nuovo arrivato nella 
storia russa. Quindi, il suo libro breve e divertente racconta ai lettori più su Denis Diderot 
che sull'imperatrice russa che invitò il principale filosofo dell'Illuminismo a San Pietroburgo. 
Quando il sessantenne Diderot arrivò in Russia nel 1773, era la prima volta che si spingeva
lontano da casa. Condivideva con altri filosofi francesi del suo tempo una visione di
Caterina la Grande come l'incarnazione del dispotismo illuminato, una leader guidata dalla
fede nella ragione e nel progresso e dedita a garantire la felicità dei suoi sudditi. Come 
chiarisce il libro, il filosofo inizialmente sembrava pronto a realizzare il suo sogno di fare
da mentore al monarca. Catherine si impegnò con entusiasmo in dibattiti con Diderot. Era 
affascinata dal suo pensiero audace e lui rispettava la sua devozione agli ideali 
dell'Illuminismo. Il disincanto reciproco era, ovviamente, inevitabile. Alla fine Diderot 
concluse che il concetto di dispotismo illuminato era un ossimoro e che Caterina, ahimè, era
semplicemente un despota. Caterina, nel frattempo, arrivò gradualmente a considerare i 
filosofi inutili, poiché i loro scritti aprivano la strada a infinite calamità. Tuttavia, Zaretsky
non può fare a meno di ammirare l'affetto reciproco di Catherine e Diderot, che la loro
reciproca delusione non ha diminuito.

venerdì 20 settembre 2024

L'autunno in musica e in poesia



















L'autunno è la cenerentola delle stagioni. La primavera evoca la giovinezza, l'estate le vacanze al mare, l'inverno si apre con il Natale e si esalta nella fantasmagoria della neve. L'autunno sembra avere la tristezza delle giornate che si accorciano, degli alberi che perdono le foglie, delle abitudini che riprendono nella monotonia dell'esistenza quotidiana. Eppure, anche l'autunno ha i suoi colori, i suoi frutti, la sua attrattiva perfino. Richiede solo una devozione più attenta, con una indole capace di apprezzare le gioie domestiche, il piacere lento, la luce tenue. La primavera fa pensare a Botticelli, l'autunno si contenta di Mucha. Che fu pur sempre un illustratore di immenso talento.

Emily Dickinson, L’estate è finita

Sono più miti le mattine
e più scure diventano le noci
e le bacche hanno un viso più rotondo.
La rosa non è più nella città.
L’acero indossa una sciarpa più gaia.
La campagna una gonna scarlatta,
Ed anch’io, per non essere antiquata,
mi metterò un gioiello.



Paul Verlaine, Canzone d'autunno

I lunghi singhiozzi
Dei violini
Dell’autunno
Feriscono il mio cuore
Di un languore
Monotono.

Tutto soffocante
E livido, quando
Suona l’ora,
Mi ricordo
Dei giorni vecchi
E piango

Ed io me ne vado
Per il vento malvagio
Che mi porta
Di qua, di là,
Simile alla
Foglia morta.

  Sbarco in Normandia (6 giugno 1944) ... E poi, all'improvviso, l'annunciatore dice: "I lunghi singhiozzi dei violini d'autunno". Ripeto: "I lunghi singhiozzi dei violini d'autunno". Il primo verso della "Chanson d'automne" di Verlaine è il codice del messaggio trasmesso alla rete  Ventriloquist che deve sabotare diversi impianti ferroviari e telefonici in Normandia e Bretagna.

Giuseppe Ungaretti, Soldati

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

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L'autunno nelle Quattro stagioni di Antonio Vivaldi

Il protagonista dei primi due tempi è Bacco: magistralmente l'autore riproduce in orchestra l'ebbrezza data dal vino (Allegro), mentre l'Adagio molto centrale, che reca il titolo Dormienti ubriachi, è una pagina magnifica per il tono trasognato e insieme intensamente lirico che riesce a determinare. Il finale (Allegro) invece è tutto fremente di segnali di caccia, di rapide volate del solista e della massa orchestrale. (Giacomo Manzoni)

https://www.youtube.com/watch?v=D3le4r6OqTM
https://www.youtube.com/watch?v=9HNxWGievg0




















 















giovedì 19 settembre 2024

Pavese suicida, un racconto

 






Recentemente residente a Villa Medici [l'Accademia di Francia a Roma] e ora residente a Roma, Pierre Adrian afferma il suo gusto per l'Italia con
Hotel Roma , il bellissimo racconto che dedica a Cesare Pavese (1908-1950). Rivelato nel 2015 da La Piste Pasolini, questo trentenne, grande appassionato di sport (è editorialista de L'Equipe), ha pubblicato diversi romanzi che già lasciavano intravedere un intimo sodalizio con lo scrittore piemontese: Les Bons Garçons (2020) ha preso in prestito, ad esempio, la sua epigrafe da Le Bel Eté , di Pavese (1955), e Que reviennent ceux qui sont loin (
Ritornino quelli che sono lontani, 2022) ha preso il titolo da Il mestiere di vivere, il celebre diario postumo pubblicato dopo il suicidio dello scrittore... Non ci sorprende quindi vederlo intraprendere oggi "la pista Pavese", grazie ad un racconto di viaggio - quasi un pellegrinaggio - verso i luoghi natali di un'opera.

Un viaggio del genere era previsto da molto tempo, come un debito nei confronti di uno scrittore amato? «Con Pasolini non ho lo stesso rapporto che con Pavese », spiega l'autore a «Le monde des livres».  Cercavo nel primo un “conduttore di anime” e nel secondo ho trovato un compagno. Que reviennent ceux qui sont loin, il mio libro precedente,  testimoniava ciò con il titolo, ma anche con il tema del ritorno, tanto caro a Pavese: il ritorno all'infanzia, a casa, e l'interrogarsi su cosa significhi avere un paese , una casa... All'inizio desideravo soprattutto essere nei libri di Pavese, potrei quasi dire che volevo diventare uno dei suoi personaggi. E poi, mentre lavoravo ai testi, mi è venuta voglia di andare a vedere le colline piemontesi, di passeggiare per Torino..."

È dunque a Torino che si apre Hotel Roma, nella stanza dove lo scrittore si suicidò e dove il racconto si confronta immediatamente con una certa mitologia del suicidio, senza esserne uniformemente determinato: l'indagine letteraria si adopererà invece, seguendo l'ordine cronologico di un viaggio, a mettere in luce vari aspetti del destino dello scrittore, prima di ritornare, inevitabilmente, all '"ultima estate di Pavese" .

“Nessuna attrazione per me per il suicidio”

Senza dubbio Pierre Adrian, la cui vena è volutamente elegiaca, a volte a rischio di qualche civetteria, cerca di resistere a una sorta di potere della morte, il cui peso oscuro non è assente nel suo libro, anche se lo nega: C’è ovviamente un'attrazione per Pavese, ma nessuna attrazione per me per il suicidio, anche se il mio libro inizia da lì. E poi, in alcuni testi di cui parlo, come La luna e i falò o La bella estate, c'è una giovinezza e un'energia straordinaria per trasmettere ciò da cui lo scrittore si sentiva tagliato fuori... Hotel Roma , in questo senso non è un libro sul suicidio, è un libro su uno scrittore che finì per suicidarsi. 

La presenza di questa giovane donna è anche un mezzo per resistere alla tentazione della pura immedesimazione, quando l'autore, attraverso i capitoli, mette in discussione quelle che possiamo chiamare postulazioni di Pavese: cosa ha bevuto o mangiato, cosa ha pensato e scritto, i paesaggi che formano base della sua poesia, le donne che non ha saputo amare o il coraggio che forse non ha saputo avere restando lontano dalla Resistenza... Il libro è fatto di domande, che finiscono per rimandare indietro Pierre Adrian alla propria identità: "È un po' strano, perché Pavese è un poeta quasi senza corpo: di lui abbiamo poche foto, e la sua voce, cosa che sembra straordinaria, non è mai stata registrata... Il fatto che sia così poco incarnato potrebbe allontanarci da lui, mentre io mi sono avvicinato a lui. Mi rendo conto che condivido con lui la tentazione del ritiro: tendo a fuggire l'attualità, i dibattiti, il presente, e mi pongo sinceramente la questione di sapere a partire da quando questa ricerca di pace potrà diventare viltà…” L'apparente modestia di tale dubbio è commisurato alle esigenze dello scrittore, per il quale la letteratura è una cosa seria. Un modo anche per mantenere un legame vivo, magnifico con i fantasmi del passato.

Un omaggio errante

Pierre Adrian si fa conoscere all'età di 25 anni per un primo libro pieno di fervore, La Piste Pasolini (Equateurs, 2015), dove segue le orme dello scrittore e cineasta italiano in una sorta di indagine iniziatica, intima ed esaltata. Qualche anno (e qualche libro) dopo, eccolo qui, questa volta alla guida di Cesare Pavese, con  Hotel Roma .

Senza dubbio meno famoso in Francia, questo sosia saturniano dello sgargiante Pasolini è  conosciuto colà soprattutto per il suo straordinario diario postumo, Il mestiere di vivere  (pubblicato da Gallimard, 1958), e per il suo suicidio, a Torino, il 27 agosto 1950, all'età di 41 anni. Pierre Adrian sceglie allora di partire da questa fine, e più in particolare dalla camera 49 dell'Hotel Roma, dove lo scrittore si suicidò, per intraprendere un racconto un po' errante, in cui tenta di scoprire in frammenti un poeta piuttosto singolare del suo tempo, sedentario. attaccato alle colline piemontesi delle sue origini, dilaniato dal senso di colpa per non essersi arruolato durante la guerra, infelice per tutta la vita in amore...

Rintracciando questo triste fantasma nei suoi libri tanto quanto nei paesaggi del nord Italia, l'investigatore si sposta tuttavia dal lato della vita, innamorato di una "ragazza dalla pelle scura" che lo accompagna nel suo desiderio di trovare testimoni ancora vivi, di assaporare i luoghi dell'infanzia che non sono andati perduti... Ciò che ne emerge è un testo semplice e colto allo stesso tempo, malinconico e luminoso: il bellissimo omaggio di uno scrittore-lettore.





mercoledì 18 settembre 2024

Chaos, Terra e Cielo


Non siamo tenuti, noi moderni, a trasformare le antiche leggende in articoli di fede. Altra cosa è l'ammirazione che pur sempre suscita nel lettore di oggi tanta poesia. Se si pensa poi al racconto biblico, che tutto riconduce all'opera del Creatore, qui siamo di fronte a un mondo prima generato dal Chaos primordiale e poi da una serie di apparizioni successive. Per la teoria del Big Bang l'universo si forma attraverso un lungo e macchinoso processo evolutivo - il racconto mitico era assai più spettacolare e fantastico -, ma nelle due versioni della storia l'idea dei mutamenti a catena, tutto sommato, sembra essere un po' la stessa.

Esiodo

Dunque, per primo fu il Chaos, e poi
Gaia [la terra] dall'ampio petto, sede sicura per sempre di tutti
gli immortali che tengono le vette dell'Olimpo nevoso,
e Tartaro nebbioso nei recessi della terra dalle ampie strade,
e poi Eros, il più bello fra gli dèi immortali,
che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini
doma nel petto il cuore e il saggio consiglio.
Da Chaos nacquero Erebo e nera Nyx.
Da Nyx provennero Etere [il cielo superiore] e Hemere
che lei partorì concepiti con Erebo unita in amore.

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Jean-Pierre Vernant
L'universo, gli dei, gli uomini. Il racconto del mito
Einaudi, Torino 2000 [1999]

Mito, mitologia, sono proprio parole greche legate alla storia e ad alcuni aspetti di questa civiltà. Bisogna allora concluderne che tali definizioni non sono piú pertinenti al di fuori di essa e che il mito, la mitologia non esistono che sotto tale forma e soltanto in senso greco? È vero piuttosto il contrario. Le leggende greche, per essere capite, richiedono di essere comparate con i racconti tradizionali di altri popoli, appartenenti a culture e a epoche molto diverse, che si tratti della Cina, dell'India, del Vicino Oriente antico, dell'America precolombiana o dell'Africa. Se il confronto è necessario, è perché quelle tradizioni narrative, per quanto differenti siano, presentano fra di loro e in rapporto al caso greco, sufficienti punti in comune per apparentarle. Claude Lévi-Strauss può affermare, come se si trattasse di un'evidenza, che un mito, da qualsiasi parte provenga, si riconosce d' emblée per ciò che è senza correre il rischio di confonderlo con altre forme di racconto. La differenza con il racconto storico è cosí ben marcata che in Grecia quest'ultimo si è formato, in un certo senso, contro il mito, nella misura in cui si è sviluppato come il resoconto esatto di avvenimenti abbastanza vicini nel tempo perché testimoni affidabili avessero potuto attestarli. In quanto al racconto letterario, si tratta di una pura finzione che si dichiara apertamente come tale e la cui qualità è, prima di tutto, data dal talento e dal mestiere di colui che l'ha creata. Entrambe queste due forme di racconto sono normalmente attribuite a un autore che se ne assume la responsabilità e che le tramanda sotto il proprio nome, per scritto, a un pubblico di lettori.
Di ben altra natura è io statuto del mito. Il mito si presenta sotto forma di un racconto venuto dalla notte dei tempi e che esisteva già prima che un qualsiasi narratore iniziasse a raccontarlo. In questo senso, il racconto mitico non dipende dall'invenzione personale né dalla fantasia creatrice, ma dalla trasmissione e dalla memoria. Questo legame intimo e funzionale con la memorizzazione riavvicina il mito alla poesia che, in origine, nelle sue manifestazioni piú antiche, può confondersi con il processo di elaborazione mitica. A questo riguardo è esemplare il caso dell'epopea omerica.

Cosmogonia greca elementare

Che cosa c'era, quando ancora non c'era qualcosa, quando non c'era proprio nulla? A questa domanda, i Greci hanno risposto con miti e racconti.
In principio, fu Voragine. I Greci la chiamarono Chaos. Che cos'è Voragine? È un vuoto, un vuoto oscuro, dove niente può essere distinto. È un punto di caduta, di vertigine e di confusione, un precipizio senza fine, senza fondo. Si viene ghermiti da Voragine come dall'apertura di fauci immense in cui tutto può essere ingoiato e confuso in un'unica notte indistinta. In origine dunque, non esiste che Voragine, abisso cieco, notturno, sconfinato.
Poi apparve la Terra. I Greci la chiamarono Gaia. E dal seno stesso di Voragine che sorse la Terra. Eccola dunque, nata subito dopo Caos, di cui rappresenta per certi aspetti il contrario. La Terra non è più uno spazio di caduta oscuro, senza limiti, indefinito. La Terra possiede una forma distinta, separata, precisa. Alla confusione, all'indistinto carico di tenebre di Caos, Gaia oppone nettezza, compattezza, stabilità. Sulla Terra ogni cosa è ben delineata, visibile, solida. Gaia può essere definita come il suolo su cui dèi, uomini e animali camminano con sicurezza. Gaia è il pavimento del mondo.

Nel profondo della Terra: Voragine

Chaos, dunque, è un sostantivo neutro e non maschile. Gaia, la Terra madre, è evidentemente un femminile. Ma, chi può mai amare al di fuori di se stessa, visto che la Terra è sola con Caos? L' Eros che appare per terzo, dopo Voragine e Terra, non è inizialmente quello che presiede agli amori sessuati. Il primo Eros esprime un'energia nell'universo. Così come un tempo la Terra è sorta da Voragine, dalla Terra scaturirà ciò che essa contiene nelle sue profondità. Quello che era in lei, mescolato a lei, si trova portato al di fuori: Terra lo partorisce senza aver bisogno di unirsi a nessuno. Ciò che libera e palesa è proprio l'indistinto che, nell'oscurità, dimorava al suo interno.

La Terra partorisce dapprima un personaggio molto importante, Ouranos, il Cielo, e anche il Cielo stellato. Poi, mette al mondo Pontos, cioè l'acqua, tutte le acque, e piú precisamente Flutto marino, dal momento che il nome greco è maschile. La Terra li concepisce senza unirsi a nessuno. Attraverso la forza interiore che porta in sé, Terra sviluppa quello che già era in lei e che, dal momento in cui lo libera, diventa il suo doppio e il suo contrario. Perché? Perché crea il Cielo stellato uguale a sé, come una replica altrettanto solida, altrettanto stabile e simmetrica. Allora Urano si stende su di lei. Terra e Cielo costituiscono così due piani sovrapposti dell'universo, un pavimento e una volta, un sotto e un sopra che si coprono a vicenda, completamente.