lunedì 31 ottobre 2016

L'Altro in Lévinas e Canetti

Emmanuel_Levinas


Emmanuel Lévinas
Il volto dell' altro

L'altro uomo non mi è indifferente, l'altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola "riguardare". In francese si dice che "mi riguarda" qualcosa di cui mi occupo, ma "regarder" significa anche "guardare in faccia" qualcosa, per prenderla in considerazione. Io chiamo appunto questa "apparizione" dell'altro, il volto umano. Il volto umano è la testimonianza non del trionfo istituzionale del bene, ma della possibilità del bene, della possibilità per l'uomo di essere buono verso l'altro uomo o piuttosto della possibilità di leggere sul volto dell'altro uomo la vocazione, il richiamo alla bontà. Per me questa è la parola di Dio. Io trovo Dio nell'etica, non ho alcuna altra idea di Dio valida. È qui che trovo il senso di qualcosa che interrompe bruscamente il corso delle cose: il fatto che l'uno si occupa dell'altro è il solo momento in cui c'è un'alterità totale, un'alterità che non rientra nell'ordine che io controllo, che non diventa mia. Anche il mio schiavo, in quanto uomo, mi sfugge e perciò è assolutamente altro. Trovo che nel momento in cui sento questa alterità come ordine muto, come comandamento, non dico che sia di Dio, ma certo non c'è parola più forte.

http://machiave.blogspot.it/2013/01/il-volto-dellaltro-2-levinas.html

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Elias Canetti
Il piacere di sopravvivere

L’afferrare e il mangiare sono le azioni originarie del potere, ma l’istante della potenza vero e proprio è l’istante del sopravvivere. A tale istante corrisponde una forza incomparabile, la sensazione di essere un eletto, l’unico sopravvissuto tra molti che hanno invece avuto un destino comune. La forza deriva dalla consapevolezza di essere ancora vivi, e poiché il sopravvissuto è l’unico ad esserlo tra molti, egli si sente in qualche modo migliore. Alla sopravvivenza sono legati tutti i desideri d’immortalità, mentre nella sua forma più semplice essa consiste nell’uccidere. Colui a cui capita di sopravvivere più volte è considerato un eroe. Il piacere di sopravvivere è tale che può persino divenire pericoloso e insaziabile, una passione morbosa, quella che spesso muove gli eroi e i condottieri.
...
La morte è il pericolo supremo e in quanto tale il potente per eccellenza è colui che dispone del diritto di vita e di morte sugli altri individui.

http://machiave.blogspot.it/2014/07/canetti-massa-e-potere-parte-seconda.html

domenica 30 ottobre 2016

Pasolini secondo Moravia



 Alberto Moravia
Ma che cosa aveva in mente?
“L’Espresso”,
9 novembre 2015

Chi era, che cercava Pasolini? In principio c’è stata, perché non ammetterlo?, l’omosessualità, intesa però nella stessa maniera dell’eterosessualità: come rapporto con il reale, come filo di Arianna nel labirinto della vita. Pensiamo un momento solo alla fondamentale importanza che ha sempre avuto nella cultura occidentale l’amore; come dall’amore siano venute le grandi costruzioni dello spirito, i grandi sistemi conoscitivi; e vedremo che l’omosessualità ha avuto nella vita di Pasolini lo stesso ruolo che ha avuto l’eterosessualità in quella di tante vite non meno intense e creative della sua.
Accanto all’amore, in principio, c’era anche la povertà. Pasolini era emigrato a Roma dal Nord, si guadagnava la vita insegnando nelle scuole medie della periferia. È in quel tempo che si situa la sua grande scoperta: quella del sottoproletariato, come società rivoluzionaria, analoga alle società protocristiane, ossia portatrice di un inconscio messaggio di ascetica umiltà da contrapporre alla società borghese edonista e superba.
Questa scoperta corregge il comunismo, fino allora probabilmente ortodosso di Pasolini; gli dà il suo carattere definitivo. Non sarà, dunque, il suo, un comunismo di rivolta, e neppure illuministico; e ancor meno scientifico; né insomma veramente marxista. Sarà un comunismo populista, “romantico”, cioè animato da una pietà patria arcaica, un comunismo quasi mistico, radicato nella tradizione e proiettato nell’utopia. È superfluo dire che un comunismo simile era fondamentalmente sentimentale (do qui alla parola “sentimentale” un senso esistenziale, creaturale e irrazionale). Perché sentimentale? Per scelta, in fondo, culturale e critica; in quanto ogni posizione sentimentale consente contraddizioni che l’uso della ragione esclude. Ora Pasolini aveva scoperto molto presto che la ragione non serve ma va servita. E che soltanto le contraddizioni permettono l’affermazione della personalità. Ragionare è anonimo; contraddirsi, personale.
Le cose stavano a questo punto quando Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci, La religione del nostro tempo, Ragazzi di vita, Una vita violenta e esordì nel cinema con Accattone. In quel periodo, che si può comprendere tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Pasolini riuscì a fare per la prima volta nella storia della letteratura italiana qualche cosa di assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra.
La poesia civile era sempre stata a destra in Italia, almeno dall’inizio dell’Ottocento a oggi, cioè da Foscolo, passando per Carducci su su fino a D’Annunzio. I poeti italiani del secolo scorso avevano sempre inteso la poesia civile in senso repressivo, trionfalistico ed eloquente. Pasolini riuscì a compiere un’operazione nuova e oltremodo difficile: il connubio della moderna poesia decadente con l’utopia socialista. Forse una simile operazione era riuscita in passato soltanto a Rimbaud, poeta della rivoluzione e tuttavia, in eguale misura, poeta del decadentismo. Ma Rimbaud era stato assistito da tutta una tradizione giacobina e illuministica. La poesia civile di Pasolini nasce invece miracolosamente in una letteratura da tempo ancorata su posizioni conservatrici, in una società provinciale e retriva.

Questa poesia civile, raffinata, manieristica ed estetizzante che fa ricordare Rimbaud e si ispirava a Machado e ai simbolisti russi, era tuttavia legata all’utopia di una rivoluzione sociale e spirituale che sarebbe venuta dal basso, dal sottoproletariato, quasi come una ripetizione di quella rivoluzione che si era verificata duemila anni or sono con le folle degli schiavi e dei reietti che avevano abbracciato il cristianesimo. Pasolini supponeva che le disperate e umili borgate avrebbero coesistito a lungo, vergini e intatte, con i cosiddetti quartieri alti, fino a quando non fosse giunto il momento maturo per la distruzione di questi e la palingenesi generale: pensiero, in fondo, non tanto lontano dalla profezia di Marx secondo il quale alla fine non ci sarebbero stati che un pugno di espropriatori e una moltitudine di espropriati che li avrebbero travolti. Sarebbe ingiusto dire che Pasolini aveva bisogno, per la sua letteratura, che la cosa pubblica restasse in questa condizione; più corretto è affermare che la sua visione del mondo poggiava sull’esistenza di un sottoproletariato urbano rimasto fedele, appunto, per umiltà profonda e inconsapevole al retaggio di un’antica cultura contadina.
Ma a questo punto è sopravvenuto quello che, in maniera curiosamente derisoria, gli italiani chiamano il “boom” , cioè si è verificata ad un tratto l’esplosione del consumismo. E cos’è successo col “boom” in Italia, e per contraccolpo nella ideologia di Pasolini? È successo che gli umili, i sottoproletari di Accattone e di Una vita violenta, quegli umili che nel Vangelo secondo Matteo Pasolini aveva accostato ai cristiani delle origini, invece di creare i presupposti di una rivoluzione apportatrice di totale palingenesi, cessavano di essere umili, nel duplice senso di psicologicamente modesti e di socialmente inferiori, per diventare un’altra cosa. Essi continuavano naturalmente ad essere miserabili, ma sostituivano la scala di valori contadina con quella consumistica. Cioè, diventavano, a livello ideologico, dei borghesi.
Questa scoperta della borghesizzazione dei sottoproletari è stata per Pasolini un vero e proprio trauma politico, culturale e ideologico. Se i sottoproletari delle borgate, i ragazzi che attraverso il loro amore disinteressato gli avevano dato la chiave per comprendere il mondo moderno, diventavano ideologicamente dei borghesi prim’ancora di esserlo davvero materialmente, allora tutto crollava, a cominciare dal suo comunismo populista e cristiano. I sottoproletari del Quarticciolo erano, oppure aspiravano, il che faceva lo stesso, ad essere dei borghesi; allora erano o aspiravano a diventare borghesi anche i sovietici che pure avevano fatto la rivoluzione nel 1917, anche i cinesi che avevano lottato per più di un secolo contro l’imperialismo, anche i popoli del Terzo mondo che una volta si erano configurati come la grande riserva rivoluzionaria del mondo.

Non è esagerato dire che il comunismo irrazionale di Pasolini non si è più risollevato dopo questa scoperta. Pasolini è rimasto, questo sì, fedele all’utopia, ma intendendola come qualche cosa che non aveva più alcun riscontro nella realtà e che di conseguenza era una specie di sogno da vagheggiare e da contemplare ma non più da realizzare e tanto meno da difendere e imporre come progetto alternativo e inevitabile.
Da quel momento Pasolini non avrebbe più parlato a nome dei sottoproletari contro i borghesi, ma a nome di se stesso contro l’imborghesimento generale. Lui solo contro tutti. Di qui l’inclinazione a privilegiare la vita pubblica, purtroppo borghese, rispetto alla vita interiore, legata all’esperienza dell’umiltà. Nonché una certa ricerca dello scandalo non già a livello del costume ma a quello della ragione. Pasolini non voleva scandalizzare la borghesia, troppo consumistica ormai per non consumare anche lo scandalo. Lo scandalo era diretto contro gli intellettuali, che, loro sì, non potevano fare a meno di credere ancora nella ragione. Di qui pure un continuo intervento nella discussione pubblica, basato su una sottile e brillante ammissione, difesa e affermazione delle proprie contraddizioni.
Ancora una volta Pasolini si teneva alla propria esistenzialità, alla propria creaturalità. Solo che un tempo l’aveva fatto per sostenere l’utopia del sottoproletariato salvatore del mondo; e oggi lo faceva per criticare la società consumista e l’edonismo di massa. Aveva scoperto che il consumismo era penetrato ormai ben dentro l’amata civiltà contadina. Ciononostante, questa scoperta non l’aveva allontanato dai luoghi e dai personaggi che un tempo, grazie ad una straordinaria esplosione poetica, l’avevano così potentemente aiutato a crearsi la propria visione del mondo. Affermava in pubblico che la gioventù era immersa in un ambiente criminaloide di massa; ma in privato, a quanto pare, si illudeva pur sempre che ci potessero essere delle eccezioni a questa regola.
La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nei suoi romanzi e nei suoi film, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile.

Fonte: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/pasolini-un-ricordo-di-moravia-del-novembre-1975/

sabato 29 ottobre 2016

La presunta morte di Cipputi



Articolo suggestivo, non saprei dire quanto veridico. Certe affermazioni paiono vere e non lo sono, infatti. Si è proprio estinto il proletariato industriale? Socialmente occupa meno spazio, non si colloca più al centro della scena, ma scomparso non è neppure da noi, figuriamoci poi in Cina o in Bangladesh. E anche con meno operai di fabbrica in giro, il lavoro resta tuttora un tema importante. Quello che è soprattutto mutato è il clima. Caduto il messianismo, rimane una visione disincantata che porta interrogarsi sul futuro della condizione umana nell'orbe terracqueo. Non sembra un tema tanto marginale, anche se in tempi postmoderni molti possono senza danno guardare altrove.  (Giovanni Carpinelli)



Diego Gabutti, La letteratura di fabbrica è invecchiata di colpo, Italia oggi, 29 giugno 2013

In una delle due prefazioni a Fabbrica di carta. I libri che raccontano l'Italia industriale, Laterza 2013, pp. 346, 20,00 euro, un libro a cura di Giuseppe Lupo e Giorgio Bigatti, il primo storico della letteratura alla Cattolica, il secondo storico dell'economia alla Bocconi, Giuseppe Lupo cita, ragionando «per paradossi», i «versi d'Inferno XXI, 11-15, che descrivono “l'arzanà de' veneziani”, il grande cantiere dove gli operai spalmano pece sulle carene delle navi, ravvolgono funi, modellano remi e chiglie con le pialle» come la più remota testimonianza della «letteratura industriale o letteratura di fabbrica».
Chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più vïaggi fece; / chi ribatte da proda e chi da poppa; / altri fa remi e altri volge sarte; / chi terzeruolo e artimon rintoppa.
Con letteratura industriale s'intendono la narrativa e (più raramente) la poesia che si sono occupate della produzione, dell'organizzazione del lavoro di fabbrica e della condizione operaia. È una letteratura per lo più di denuncia: lo sfruttamento, gl'incidenti sul lavoro, la repressione poliziesca, il lavoro minorile. All'origine ci sono Charles Dickens ed Émile Zola, persino un po' Jules Verne con le sue Indie nere (una sottospecie di Germinale, il capolavoro di Zola su un grande sciopero dei minatori organizzato dai socialisti della Prima Internazionale). Prima ancora, originario, c'è il grandissimo reportage di Friedrich Engels, futuro socio al cinquanta per cento di Karl Marx nell'impresa del socialismo scientifico, sulla Situazione della classe operaia in Inghilterra. Che non è un romanzo ma non è neppure un'inchiesta sociologica. Con largo anticipo su Tom Wolfe e Truman Capote, che con La baby aerodinamica kolor caramella e A sangue freddo fondarono il genere, La situazione della classe operaia in Inghilterra è new journalism: per metà letteratura, per metà racconto storico in presa diretta, grande eloquenza, retorica a badilate.
Da noi, dopo i Tre operai di Carlo Bernari che nel 1934 racconta una storia epica e commossa di lotte sindacali e proletarie che si svolge all'inizio del secolo, c'è stata una grande fioritura della letteratura d'ispirazione marxista, mai troppo devota agli ideali un po' monumentalistici del realismo socialista sovietico ma non di meno fortemente ideologizzata, tra l'accigliato e il predicatorio. Alcune storie operaie, tra quelle che Bigatti e Lupo ricordano nel loro libro con qualche pagina ben scelta, si sollevano sopra la routine evangelizzatrice: Una nuvola d'ira di Giovanni Arpino, La vita agra di Luciano Bianciardi, alcuni titoli (non tutti) di Vasco Pratolini, La nuvola di smog d'Italo Calvino, le storie di Vigevano di Lucio Mastronardi su su fino ai romanzi operai d'Antonio Pennacchi, forse un po' sopravvalutati. Oltre alla letteratura di fabbrica d'ispirazione marxleninista — il cui punto più alto (a mio giudizio, e posso sbagliare) è stato Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, che nel 1971 (scontate i birignao tecnici, tipo l'assenza di punteggiatura e altre uggiose licenze sperimentaliste) riuscì a coniugare Emilio Salgari con l'autunno caldo in un romanzo insieme realistico e scanzonato — ci fu anche la letteratura industriale d'ispirazione «olivettiana», da Adriano Olivetti, magnate delle macchine da scrivere e guru ante litteram dell'antipolitica e della democrazia diretta. Mentre gli scrittori devoti alla vulgata marxista vogliono abbattere il capitalismo, e il proletariato industriale è la leva con la quale si propongono d'annientarlo, come già Engels nel suo libro sul proletariato inglese, gli autori d'obbedienza olivettiana, più moderati ma non più teneri con «lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo», vogliono invece soltanto «superare» il capitalismo (cosa voglia dire, non si sa).
Di questa letteratura particolare, salvo qualche titolo qua e là, che si può ancora leggere con profitto ma anche con fatica, non rimane granchè. C'è da dubitare che Italo Calvino sarà ricordato, in futuro, per Una nuvola di smog invece che per I nostri antenati. Legata com'era a una Weltanschauung, all'epoca dominante ma oggi tramontata con l'estinzione del proletariato industriale, la letteratura di fabbrica è invecchiata di colpo e non spiega più niente, quando la sua ambizione — la stessa dell'arte sacra — era spiegare tutto.


giovedì 27 ottobre 2016

Ingrid Bergman





Ci sono sempre su Internet delle belle cose che passano quasi inosservate. Cercavo oggi qualche estratto dalla biografia di Ingrid Bergman. Non sono riuscito a trovarlo. Mi sono imbattuto invece in una voce di enciclopedia che aveva per oggetto l’attrice svedese. Mi è sembrata un piccolo gioiello. Conteneva il percorso biografico dell’attrice. si pronunciava va via via sul valore delle sue apparizioni cinematografiche e teatrali: ne veniva fuori un ritratto della persona, di ciò che era stata e un quadro ben congegnato di ciò che la Bergman medesima aveva significato nella storia del cinema. Spesso anche tra gli studiosi si pensa che la verità stia nei documenti che giacciono negli archivi, nei diari inediti, nella corrispondenza, in foto mai rese pubbliche. Eppure che cosa è stata Ingrid Bergman per gli spettatori dei tanti film da lei interpretati non è propriamente un segreto. Ore e ore di cinema lo lasciano intuire senza tante difficoltà. Ci potranno poi essere e ci sono gli approfondimenti critici. Ciò non toglie che la verità elementare dei fatti è perfettamente accessibile. Si tratta di guardare con attenzione, annotare con scrupolo e riferire. E’ quanto ha fatto Monica Trecca nel testo che segue.

Monica Trecca

BERGMAN, Ingrid

Enciclopedia del cinema, 2003
Attrice cinematografica e teatrale svedese, nata a Stoccolma il 29 agosto 1915 e morta a Londra nel 1982 nello stesso giorno della sua nascita. A partire dagli anni Quaranta si era imposta negli Stati Uniti come star profondamente amata, acclamata in tutto il mondo come una delle più raffinate interpreti della storia del cinema, in parti che sono patrimonio dell’immaginario e che le valsero sette nominations e tre premi Oscar oltre a numerosi altri prestigiosi riconoscimenti anche per i suoi ruoli teatrali. Dotata di una luminosa bellezza e di una grande sensibilità, fu sempre pronta a rimettersi in discussione, incapace di rimanere prigioniera di ruoli circoscritti e prefissati nella vita privata come in quella professionale.
La sua infanzia era stata funestata da lutti dolorosi: a soli due anni aveva perso la madre (la tedesca Frieda Adler), a dodici il padre (un fotografo che le aveva insegnato il gusto di posare), quindi la zia che l’aveva allevata. Cresciuta nella famiglia dello zio paterno, nel 1933 entrò a far parte della scuola del Dramatiska Teater di Stoccolma. Ottenne quindi una breve parte in un film di Gustaf Molander e in poco tempo si affermò come giovane promessa del cinema svedese. Dopo essersi sposata nel 1937 con un medico, Petter Aron Lindström, e aver girato un film in Germania, nel 1939 giunse negli Stati Uniti chiamata dal produttore David O. Selznick, colpito dalla sua interpretazione in Intermezzo (1936), ancora di Molander. Ottenuto un personale successo con il remake del film svedese, diretto in quello stesso anno da Gregory Ratoff, e dopo due film non memorabili, la B. decise di imprimere una prima svolta alla sua carriera per sfuggire alla prigione hollywoodiana costituita dai ruoli rassicuranti della dolce eroina romantica dal sorriso radioso. Scelta per interpretare la fidanzata remissiva nel nuovo film di Victor Fleming Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1941; Il dottor Jekyll e Mr Hyde), al fianco di Spencer Tracy, s’impose per ottenere il ruolo di Ivy, la spregiudicata cameriera dapprima salvata da Jekyll e poi tormentata da Hyde in una claustrofobica prigione di paura. Furono quelli anni segnati da clamorosi successi (proprio in corrispondenza con il ritiro dalle scene dell’altra grande attrice svedese Greta Garbo) che ne fecero la diva più ammirata dal pubblico, quasi venerata come modello di perfezione, madre e moglie esemplare. A consacrare la sua affermazione fu Casablanca, diretto nel 1942 da Michael Curtiz e destinato nel tempo a divenire il film culto per eccellenza, che la vide accanto a Humprey Bogart e nel quale le incertezze sul set circa l’andamento della storia e il finale sembrano sublimarsi nell’interpretazione della B., tormentata fino all’ultimo tra la scelta d’amore e quella del dovere. Egualmente intenso fu il pathos recitativo che seppe esprimere in Gaslight (1944; Angoscia) di George Cukor, interpretando una donna condotta sull’orlo della pazzia dal marito (Charles Boyer), ruolo per il quale ottenne il suo primo Oscar nel 1945. Ma anche i film meno riusciti come For whom the bell tolls (Per chi suona la campana) diretto nel 1943 da Sam Wood, patinata versione del romanzo di E. Hemingway, che aveva indicato proprio in Ingrid l’interprete ideale della sua Maria, e il successivo Saratoga trunk (1945; Saratoga), pastiche romantico sempre diretto da Wood e ancora accanto a Gary Cooper, le procurarono comunque un enorme successo di pubblico e l’apprezzamento dei critici. Fu però Alfred Hitchcock, conquistato dalla sensualità apparentemente mascherata di freddezza della B., a comprenderne più profondamente la complessità di donna e di artista. Così dapprima riuscì a modellare sulla sua severità affascinante il personaggio della razionale psicoanalista che si abbandona all’amore in Spellbound (1945; Io ti salverò). Quindi le offrì di animare di profonda umanità il ruolo, costruito per lei, di Alicia Huberman protagonista di Notorious (1946; Notorious ‒ L’amante perduta). In quella parte l’attrice seppe esprimere tutta la sua personale inquietudine, riuscendo a far affiorare, grazie anche all’intesa con il partner Cary Grant, la ricchezza di emozioni che attraversano la storia d’amore al centro di una cupa vicenda di spionaggio venata di ambiguità: bisogno di fiducia, dolorosa diffidenza, desiderio di riscatto. Successivamente, malgrado la gioia di portare a teatro il suo personaggio preferito, Giovanna d’Arco, interpretando il dramma di Maxwell Anderson, sia Arch of Triumph (1948; Arco di Trionfo) di Lewis Milestone, sia la stessa riduzione cinematografica del testo di Anderson per la regia di Fleming (Joan of Arc, 1948, Giovanna d’Arco: ridondante epopea medioevale in cui a venire santificata era la diva), e persino Under Capricorn (1949; Sotto il Capricorno o Il peccato di Lady Considine), girato in Inghilterra con la regia dell’amico Hitchcock, che volle valorizzare l’intensità della sua interpretazione con lunghi e insistiti piani-sequenza, la lasciarono insoddisfatta. Professionista rigorosa, profondamente innamorata del suo lavoro, sentiva la necessità di misurarsi con esperienze artistiche più stimolanti. Colpita dalla visione di Roma città aperta e Paisà di Roberto Rossellini, la cui poetica avvertiva così lontana dagli stereotipi hollywoodiani, l’attrice scrisse al regista italiano desiderosa di lavorare con lui. I film che a seguito di ciò interpretò in Italia appartengono a un mondo immaginativo e artistico completamente diverso da tutto ciò che la B. aveva realizzato sin lì, e il drammatico impatto tra la straniera protagonista di Stromboli ‒ Terra di Dio (1950) e l’aspra terra di Sicilia ne è quasi un metaforico manifesto. L’attrice conferì quindi intenso spessore alla Irene di Europa ’51 (1952), singolare attualizzazione al femminile della figura di San Francesco, tratteggiata sul limite tra pazzia e santità; mentre in Viaggio in Italia (1954) anticipò con rarefatta sensibilità futuri ritratti di donne prigioniere dell’angoscia dell’esistere, suscitando l’entusiasmo dei critici dei “Cahiers du cinéma”. Sempre per la regia di Rossellini, la B. era inoltre apparsa nel solare episodio Ingrid Bergman di Siamo donne (1953), ricco di humour, che la vede nei panni di sé stessa alla caccia di una gallina, e in La paura (1954), girato a Monaco di Baviera, disegnò invece una figura femminile estremamente moderna che però all’epoca non venne compresa. Fu ancora una splendida Giovanna d’Arco nell’oratorio Giovanna d’Arco al rogo di P. Claudel e A. Honegger, portato in tournée in numerose città d’Italia e d’Europa e da cui Rossellini trasse un film (1954) con il medesimo titolo, capolavoro di cinema sul teatro. Ma il sodalizio artistico e sentimentale tra l’attrice e il regista (che si erano sposati per procura in Messico nel 1950) aveva suscitato un enorme scandalo soprattutto negli Stati Uniti ove era stato vissuto come il tradimento di un’immagine, provocando un vero ostracismo morale e violente stroncature del lavoro dell’attrice e del regista. Esauritosi ormai anche il rapporto tra i due (il matrimonio verrà annullato nel 1958 e l’attrice si risposerà con l’impresario teatrale svedese Lars Schmidt), la B. tornò a recitare con altri registi, e prima Jean Renoir con Eléna et les hommes (Eliana e gli uomini) e quindi Anatole Litvak con Anastasia, entrambi del 1956, la restituirono al pubblico e alla critica in ruoli assai vicini a quelli che l’avevano resa famosa a Hollywood. In particolare, il personaggio della presunta ultimogenita di Nicola II le valse il secondo Oscar (1957) che segnò la riconciliazione tra gli Stati Uniti e la diva ritrovata. Seguì la commedia sofisticata Indiscreet (1958; Indiscreto) di Stanley Donen in cui la B. interpreta un’attrice di successo, sorta di suo sorridente doppio. I film successivi non le offrirono in quegli anni ruoli di grande spessore, mentre ottenne soddisfazioni in opere teatrali di successo: da Edda Gabler di H. Ibsen, recitata in francese, a More stately mansions di E. O’Neill, a The constant wife di W.S. Maugham. Per il cinema fu invece la missionaria laica di The inn of the sixth happiness (1958; La locanda della sesta felicità) di Mark Robson; la malinconica protagonista di Goodbye again (1961; Le piace Brahms?) ancora di Litvak; l’interprete dell’ultimo episodio di The yellow Rolls-Royce (1964; Una Rolls-Royce gialla) di Anthony Asquith e di uno degli episodi di Stimulantia (1967) diretto dal regista che l’aveva lanciata, Molander. E ancora l’efficiente e apparentemente glaciale infermiera della commedia Cactus flower (1969; Fiore di cactus) di Gene Saks, che segnò il suo ritorno a Hollywood. Con la breve eppure perfetta interpretazione della missionaria svedese in Murder on the Orient-Express (1974; Assassinio sull’Orient-Express) di Sidney Lumet, ripresa in un unico piano-sequenza, si aggiudicò il terzo Oscar nel 1975. L’anno successivo accettò di prendere parte ad A matter of time (Nina), ultimo film diretto da Vincente Minnelli, dolente e malinconica riflessione sulla fama e sulla paura della solitudine e del declino. Nel 1978 la B. offrì una delle sue più toccanti prove interpretando, per la regia di Ingmar Bergman, una grande pianista che al successo ha sacrificato il rapporto con i figli in Höstsonaten (Sinfonia d’autunno), ruolo nel quale seppe dare tanto di sé, del dubbio doloroso che l’aveva sempre tormentata di aver trascurato soprattutto la figlia Pia, avuta dal primo marito (altri tre erano nati dal legame con Rossellini). Anche l’ultimo suo ritratto di donna, protagonista di uno sceneggiato per la televisione, la bruna Golda Meir, dai tratti marcati, fisicamente tanto lontana da lei, così alta e chiara, fu un’ennesima prova di bravura nella quale l’attrice, ormai molto malata, seppe trasfondere la comprensione per questo personaggio forte, dalle scelte dure e difficili. La morte sopraggiunse infatti solo pochi mesi più tardi, al termine di una lunga e coraggiosa lotta contro la malattia.In precedenza, nel 1980, aveva pubblicato l’autobiografia, Ingrid Bergman, my story, alla cui stesura aveva collaborato lo scrittore A. Burgess.
Bibliografia
J.H. Steele, Ingrid Bergman, an intimate portrait, New York 1959.
C.F. Brown, Ingrid Bergman, New York 1973 (trad. it. Milano 1981).
E. Schaake, Ingrid Bergman: ihr Leben, München 1980.
L.J. Quirk, The complete films of Ingrid Bergman, New York 1989.
D. Spoto, Notorious: the life of Ingrid Bergman, New York 1997 (trad. it. Torino 2000).

http://www.film.it/film/foto/dettaglio/art/ingrid-bergman-la-regina-di-cannes-42846/

ingrid-bergman-casablanca-2025_ingrid_bergmann_roberto_rosselini_theredlist
Annex - Bergman, Ingrid (For Whom the Bell Tolls)_01Annex - Bergman, Ingrid (Joan of Arc)_02notorious-cary-grant-ingrid-bergman-018ing460

mercoledì 26 ottobre 2016

Walter Benjamin, precario


Roberto Ciccarelli
Walter Benjamin, la felicità profana degli uomini
«La Politica e altri scritti» di Walter Benjamin, a cura di Dario Gentili

il manifesto, 26 ottobre 2016

Filosofo dei frammenti, e del loro montaggio, Walter Benjamin ha fatto di necessità virtù. La sua esistenza nomade, alla prese con una precarietà che non ha nulla da invidiare alla nostra, si è conclusa in fuga dai nazisti con un tragico suicidio. Un’esistenza costellata di illuminazioni e anticipazioni sulle quali si continua ancora a riflettere. L’ultimo caso è quello della «Politica»: sin da giovane il filosofo aveva concepito un’opera organica di cui si conoscono frammenti notissimi come Sulla critica della violenza, pubblicata nel 1921.
La Politik è al centro di una discussione intensa almeno quanto le discussioni sulla valigetta che Benjamin portava sempre con sé e che si pensa custodisse il suo ultimo lavoro, un libro a cui il filosofo diceva di tenere più che alla sua vita. Oggi non è possibile ricostruirla completamente, ma dai frammenti emergono lampi significativi. È questo il tema de La politica e altri scritti (Mimesis, pp.122, euro 12), un volume per il quale il curatore Dario Gentili ha scelto un filo conduttore che, pur non rispettando la disposizione dei materiali nell’opera completa, permette di organizzarli secondo un ordine tematico e cronologico. Per ricostruire il senso di questa opera incompiuta è decisiva la corrispondenza con l’amico e filosofo Gershom Scholem. In questi scritti Benjamin lega la «verità» all’opera «comune» che gli uomini possono fare insieme. A differenza di una lunga tradizione iniziata con Weber, il politico non è una personalità o individualità, ma si dà nella radicale immanenza dell’opera comune degli uomini. In questo consiste la loro felicità profana.
La politica, nella sua caducità, non aderisce a ciò che esiste, ma adempie a un compito messianico. Accompagnato da visioni materialistiche, il messianesimo comunista di Benjamin procede in senso inverso rispetto alla teologia e alla volontà di rappresentare il Regno di Dio sulla Terra. Tra l’anarchismo giovanile e la stagione marxista della maturità la distanza è notevole, ma esistono alcune costanti.
In questa raccolta di frammenti emergono due idee che Benjamin ha coltivato ancor prima di scoprire il materialismo: la rivoluzione è «innervazione degli organi tecnici della collettività» e «scassinare la teleologia naturale». Concetti che ribaltano molte versioni del materialismo che ha ignorato il fatto che la tecnologia è un fenomeno sociale e incarnato nella forza lavoro. Per non parlare della filosofia della storia che ha legato il comunismo alla teleologia naturale. Per Benjamin nulla è irreversibile, la tecnica è una questione politica, la politica si dà quando l’azione non ha uno scopo finale, ma è l’espressione di una felicità comune.

martedì 25 ottobre 2016

Toulouse-Lautrec e le donne





Lautrec’s poignant depiction of a prostitute in the painting Woman before a Mirror offers a counterpoint to the dazzling exuberance of Miss Loïe Fuller. Nude save for her black stockings, the woman stands straight-backed as she gazes into a looking glass, dispassionately analyzing her body’s attributes and faults. Meanwhile, the viewer is compelled to do the same, as we are presented with both her ample backside and her blurred reflection. Lautrec presents her neither as a moralizing symbol nor a romantic heroine, but rather as a flesh-and-blood woman (the dominant whites and reds in the composition reinforce this reading), as capable of joy or sadness as anyone. Indeed, the directness and honesty of the picture testify to Lautrec’s love of women, whether fabulous or fallen, and demonstrates his generosity and sympathy toward them.
Cora Michael
Department of Drawings and Prints, The Metropolitan Museum of Art

May 2010


Qualcuno ha poi scritto che il bravo Toulouse-Lautrec frequentava i bordelli. Faceva di più, per la verità. Ha vissuto tra il 1892 e il 1894 in due bordelli, prima al numero 8 di rue d’Amboise, poi alla Fleur blanche, casa chiusa situata in rue des Moulins 6. (Giovanni Carpinelli)

La grosse Marie ou Vénus de Montmartre, 1884

 
Au lit: le baiser (1892)













Petit déjeuner (1896) Ancora alla Fleur blanche:  Juliette Baron, porta via il vassoio della colazione dal letto della figlia Pauline (nota nell’ambiente con il suo diminutivo, mademoiselle Popo), che l’ha appena consumata prima di iniziare una nuova giornata di lavoro nel bordello gestito dalla madre.
Salon de la rue des Moulins (1894)

 
























domenica 23 ottobre 2016

Amor che ne la mente mi ragiona


Simone Martini, Musici, Basilica inferiore di Assisi


Poi arriva il duro rimprovero di Catone, che riappare all'improvviso e mette fine al canto esortando gli spiriti a non essere lenti, a non peccare di negligenza indugiando ad ascoltare la bella musica invece di correre al monte per iniziare il percorso di purificazione. Intanto il miracolo si è compiuto, per un momento Dante si è abbandonato all'ascolto del canto associato alla musica e ogni altra cosa ha perso rilievo ai suoi occhi. La sua mente come quella di Virgilio e di altri presenti è tutta presa dal trasporto estatico legato all'ascolto. La musica qui rivaleggia con la luce divina.


Dante, Divina Commedia, Purgatorio, II, 106-117

E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,

di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».

Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli [Casella] allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.

Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.


Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi
memoria o uso...: il ricordo, o la possibilità di usarne, dell'arte che fu tua in vita. Si veda l'incerto andamento della frase ipotetica, dove è celato il timore che quell'amoroso canto qui non si possa più intonare.
amoroso canto: intende il canto proprio della lirica d' amore, nel quale eccelleva Casella; non è tuttavia, crediamo, espressione puramente tecnica, ma, come spiega la relativa seguente, indica quel canto d'amore che – per la sua forma e il suo contenuto – riusciva a placare ogni moto dell'animo.

https://machiave.blogspot.com/2025/02/dante-e-la-musica.html