martedì 23 dicembre 2014

Yvonne Sanson, l'eros redento dalle lacrime

L'archetipo della Traviata nel melodramma popolare del Novecento

Maurizio Porro
Addio a Yvonne Sanson diva del dopoguerra in coppia con Nazzari
Corriere della Sera, 24 luglio 2003

Dopo un lungo silenzio, a 77 anni, è morta per un aneurisma a Bologna, dove viveva da anni con la figlia architetto, l'attrice di origine greca Yvonne Sanson. Fu, nei primi 50, la diva del cinema popolare e populista. Era arrivata da Salonicco a Roma per studiare, figlia di genitori di origine russa, francese, turca e polacca. Bruna e altera, bella, giunonica e timida, sembrava una sfinge mediterranea in cui si identificassero virtù e peccati classici. Divenne la regina del neo realismo d' appendice, fatto di sentimenti primordiali ma autentici, che la vide, in coppia fissa con Amedeo Nazzari baciato appassionatamente nell' ultima sequenza, star di una celebre trilogia strappalacrime diretta da Raffaello Matarazzo. L'autore sapeva come far piangere le platee domenicali: ecco allora che, tra il 1949 e il 1951, Catene, Tormento e I figli di nessuno (nel ' 55 ci fu un seguito con Angelo bianco in cui la Sanson si sdoppia addirittura in due: peccatrice redenta e suora) totalizzarono, grazie a superbi meccanismi di fascinazione emotiva, l' imbattuto record di 37 milioni di spettatori. Il pubblico era soprattutto femminile, quello che divorava i fotoromanzi dell' Italia del dopoguerra e gradiva il melò strappalacrime erede del feuilleton e anticipatore degli sceneggiati. Yvonne Sanson fece carriera con 35 titoli che si riassumono nel dramma passionale, che prevedeva il peccato completo di redenzione, l'ingiustizia sociale riparata, il colpo basso del destino amnistiato dalla costanza e dalla verità, emozioni ammesse dal Centro cattolico. La Sanson lavorò anche con Freda (nel Cavaliere misterioso fu la regale Caterina con Gassman Casanova), con Coletti fu Wanda la peccatrice, due volte recitò con Lattuada (la fatale Ginevra nel dannunziano
Delitto di Giovanni Episcopo) e due con Comencini che la volle esotica con Totò ne L imperatore di Capri, ma fu anche scritturata da Camerini, Simonelli, Corbucci, anche Risi, per una sua piccola e sotterranea vena brillante. Finì la carriera, quando la nouvelle vague critica nostrana aveva riabilitato il cinema proletario d' appendice di Matarazzo, che non esitava a maltrattarla per ottenere da lei il massimo, con Rossellini (Anima nera) e Bertolucci (la madre piccolo borghese della Sandrelli ne Il conformista): ma i primi a valorizzarla furono i francesi, Melville e Cayatte. I film per cui pianse il pubblico sono quelli in cui Yvonne lotta e vince sulle pene femminili dell' amore, del tradimento, dei pargoli nascosti, prototipo del costume di un' epoca in cui la donna era madre, suora o peccatrice. In Catene è accusata di adulterio e lo confessa, ma solo per salvare il marito assassino per onore; in Tormento è umiliata dalla matrigna, ha un figlio non sposata da Nazzari, accusato di omicidio; ne I figli di nessuno non può coronare un amore per un salto di classe, ha un bimbo che le viene sottratto e si fa suora, mentre il suo uomo la crede morta, si risposa, la ritrova. L' importante era che lei, la bella Yvonne, fosse sempre infelice in nome della lacrima di massa.


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Traviata, atto secondo 


VIOLETTA (poi, piangendo, a Germont)
Ah! dite alla giovine sì bella e pura
ch'avvi una vittima della sventura,
cui resta un unico raggio di bene -
che a lei il sacrifica e che morrà!

GERMONT
Piangi, piangi, o misera, supremo, il veggo,
è il sacrifizio che ora ti chieggo.
Sento nell'anima già le tue pene;
coraggio e il nobile tuo cor vincerà!

lunedì 22 dicembre 2014

Prima viene il popolo: consenso e felicità

Il testo che segue meriterebbe un lungo commento. Due o tre osservazioni basteranno qui. Agli occhi di chi si esprime con parole tanto solenni il ruolo del Principe è tenuto dal Governo, non dallo Stato. E il governo trova la sua ragion d'essere nel consenso dei cittadini. C'è poi il diritto alla felicità. Umberto Eco nel testo sotto riportato insiste sul suo valore collettivo. Svaluta per converso la dimensione individuale, che invece non merita un trattamento così repulsivo: può essere male interpretata, non per questo dovrebbe essere trascurata, merita anzi di figurare in primo piano.  

 

IN CONGRESSO, 4 luglio 1776

Dichiarazione unanime dei tredici Stati Uniti d’America


Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato ad un altro ed assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha diritto, per legge naturale e divina, un giusto rispetto per le opinioni dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione.
Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è diritto del popolo modificarlo o abolirlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità. La prudenza, invero, consiglierà di non modificare per cause transeunti e di poco conto Governi da lungo tempo stabiliti, e, conformemente a ciò, l’esperienza ha dimostrato che gli uomini sono maggiormente disposti a sopportare, finché i mali siano sopportabili, che a farsi giustizia essi stessi abolendo quelle forme di Governo cui sono avvezzi. Ma quando un lungo corteo di abusi e di usurpazioni, invariabilmente diretti allo stesso oggetto, svela il disegno di assoggettarli ad un Dispotismo assoluto, è loro diritto, è loro dovere, di abbattere un tale Governo, e di procurarsi nuove garanzie per la loro sicurezza futura. 

Umberto Eco
Il diritto alla felicità
l'Espresso, la bustina di Minerva, 26 marzo 2014

Talora mi viene il sospetto che molti dei problemi che ci affliggono – dico la crisi dei valori, la resa alle seduzioni pubblicitarie, il bisogno di farsi vedere in tv, la perdita della memoria storica e individuale, insomma tutte le cose di cui sovente ci si lamenta in rubriche come questa – siano dovuti alla infelice formulazione della Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio1776, in cui, con massonica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, i costituenti avevano stabilito che «a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità».
Sovente si è detto che si trattava della prima affermazione, nella storia delle leggi fondatrici di uno Stato, del diritto alla felicità invece che del dovere dell’obbedienza o altre severe imposizioni del genere, e a prima vista si trattava effettivamente di una dichiarazione rivoluzionaria. Ma ha prodotto degli equivoci per ragioni, oserei dire, semiotiche.
La letteratura sulla felicità è immensa, a iniziare da Epicuro e forse prima, ma a lume di buon senso mi pare che nessuno di noi sappia dire che cos’è la felicità. Se si intende uno stato permanente, l’idea di una persona che è felice tutta la vita, senza dubbi, dolori, crisi, questa vita sembra corrispondere a quella di un idiota – o al massimo a quella di un personaggio che viva isolato dal mondo senza aspirazioni che vadano al di là di una esistenza senza scosse, e vengono in mente Filemone e Bauci. Ma anche loro, poesia a parte, qualche momento di turbamento dovrebbero averlo avuto, se non altro un’influenza o un mal di denti.
La questione è che la felicità, come pienezza assoluta, vorrei dire ebbrezza, il toccare il cielo con un dito, è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata: è la gioia per la nascita di un figlio, per l’amato o l’amata che ci rivela di corrispondere al nostro sentimento, magari l’esaltazione per una vincita al lotto, il raggiungimento di un traguardo (l’Oscar, la coppa, il campionato), persino un momento nel corso di una gita in campagna, ma sono tutti istanti appunto transitori, dopo i quali sopravvengono i momenti di timore e tremore, dolore, angoscia o almeno preoccupazione.
Inoltre l’idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l’infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista.
Questa idea di felicità pervade il mondo della pubblicità e dei consumi, dove ogni proposta appare come un appello a una vita felice, la crema per rassodare il viso, il detersivo che finalmente toglie tutte le macchie, il divano a metà prezzo, l’amaro da bere dopo la tempesta, la carne in scatola intorno a cui si riunisce la famigliola felice, l’auto bella ed economica e un assorbente che vi permetterà di entrare in ascensore senza preoccuparvi del naso degli altri.
Raramente pensiamo alla felicità quando votiamo o mandiamo un figlio a scuola, ma solo quando comperiamo cose inutili, e pensiamo in tal modo di aver soddisfatto il nostro diritto al perseguimento della felicità.
Quando è al contrario che, siccome non siamo delle bestie senza cuore, ci preoccupiamo della felicità degli altri? Quando i mezzi di massa ci presentano l’infelicità altrui, negretti che muoiono di fame divorati dalle mosche, ammalati di mali incurabili, popolazioni distrutte dagli tsunami. Allora siamo persino disposti a versare un obolo e, nei casi migliori, a impegnare il cinque per mille.
È che la dichiarazione d’indipendenza avrebbe dovuto dire che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d’infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra, e così tanti americani avrebbero capito che non devono opporsi alle cure mediche gratuite – e invece vi si oppongono perché questa idea bizzarra pare ledere il loro personale diritto alla loro personale felicità fiscale.

sabato 20 dicembre 2014

Mark Twain in Italia

Cesare De Seta
Il disastroso viaggio di Mark Twain in Italia
la Repubblica, 5 marzo 2012

Quando Mark Twain, nel 1866, intraprende una crociera per l' Europa che lo porta per sei mesi in Francia, Italia e vicino Oriente ha poco più di trent' anni: non è ancora il celebre autore delle Avventure di Tom Sawyer, ma un letterato e giornalista affermato. Si prende una vacanza e senza alcun timor panico si diverte un mondo, con ironia e sarcasmo, nel mettere alla berlina usi e costumi dell' antico continente. Le pagine sull'Italia, ora proposte In questa Italia che non capisco, Mattioli 1885, nella traduzione di Sebastiano Pezzani, sono tratte da The Innocent Abroad (1869) e fanno pelo e contropelo alla letteratura di viaggio. In questa tradizione ci sono due cerniere essenziali: la fine del Grand Tour con le guerre napoleoniche, e l' irrompere di uno stuolo di viaggiatori dal Nuovo continente a partire almeno dalla metà dell' Ottocento. Twain non è certo il primo, ma il piglio delle sue notazioni sul Bel Paese sono una novità ed esse, dico subito, sono agli antipodi da quelle dei "pellegrini appassionati" alla Henry James. Twain non è affatto "innocente", ma ostenta un candida ignoranza di arte, architettura e storia italiana. Anzi è come infastidito da questo fardello della storia che affonda un paese che giudica senza veli: «Questo paese è in bancarotta. Non c' è una solida base per opere grandiose», e si riferisce alla rete ferrata e alla pomposità delle stazioni. Il suo spirito puritano lo fa gioire per la confisca dei beni della Chiesa, ma sulla folla di preti che incontra ovunque è feroce e tale sua indignazione è motivata dal fasto delle chiese e dei conventi. Ovviamente a Roma il suo anticlericalismo tocca l'acme, così come sul culto dell'Antico scrive pagine esilaranti sul Colosseo e i giochi gladiatori. La demistificazione dei luoghi comuni sembra essere la ricorrente cifra stilistica di queste pagine: inveisce contro le guide parlanti ("il pappagallo umano") e scritte, non risparmiando nessuna delle consacrate icone del viaggio in Italia. Ha un occhio vigile, spregiudicato, che gli consente d' apprezzare il modo di vivere delle classi agiate italiane, assai meno operose di quanto non siano quelle del suo paese. «In America andiamo di fretta». Sbarcato a Genova s'inoltra a notte fonda nei carrugi: «le case strette ai nostri fianchi sembravano più protese che mai verso il cielo» e la voce del silenzio lo affascina. Quando scrive di paesaggi i suoi sensi vibrano e le pagine sono sempre seducenti: sul lago di Como «ville sontuose imbiancate dal chiaro di luna risaltavano dal nutrito fogliame che giaceva nero e informe»; quando sale sul Vesuvio la città, illuminata dalle lampade a gas, gli appare come «un collier di diamanti che scintillano nell' oscurità lontana» ai margini dello «splendido golfo». Ma quando s' inoltra nel ventre della città la sua analisi è spietata, ma con autoironia aggiunge: «Qualcuno potrebbe pensare che io abbia dei pregiudizi. Forse è vero. Mi vergognerei di me stesso se non li avessi». S' indigna per "l' impostura" del miracolo di San Gennaro. Venezia è «finita preda della povertà, della trascuratezza e di una triste decadenza». Ma al chiaro di luna appare «ancora un volta la più sontuosa tra tutte le nazioni della terra». È infastidito dai chilometri di dipinti che attraversa a Firenze, dove tutto, gli vien detto, è opera di Michelangelo. Si vergogna di non avere un'educazione artistica, ma si giustifica dicendo che in America non è contemplata. Twain guarda all' Italia e alla sua civiltà con sentimenti contraddittori: l' attrae il contesto paesistico naturale e urbano che incontra di città in città, ma sente che queste sprofondano di giorno in giorno in un immobile passato; è infatti sgomento per lo spettacolo di decadenza, la diffusa miseria, l' alterigia delle classi dirigenti divise dal popolo e chiuse nel loro privilegio. Un senso sincero d' angoscia lo pervade per quanto cade sotto i suoi occhi: il marciume che invade i Fori a Roma, a Venezia l' olfatto è offeso dai fetori che salgono dai canali, lo spettacolo di Pompei lo affascina, ma anche l' avvilisce. Un paese l' Italia per il quale non c'è redenzione possibile, né riesce a vedere un futuro. Viaggio contropelo quello dell'americano, in taluni casi persino urticante, in pagine letterariamente raffinate che oscillano tra sarcasmo, ironia e comico.

L'agente inglese e il partigiano



Giovanni Battista Canepa, nato a Chiavari il 18 luglio 1896. Confinato dal fascismo, arrestato più volte. Dopo aver militato con i socialisti, passò al Pci. Partì nel gennaio 1937 per la Spagna dove si arruolò nelle Brigate Internazionali. Gravemente ferito ad una gamba, il 12 marzo del 1937, durante la battaglia di Guadalajara (in ricordo di quell'evento, Canepa avrebbe assunto, durante la Resistenza, il nome di battaglia di "Marzo"), rimase a Madrid, sino a che non dovette passare in Francia per le necessarie cure. Dopo l'armistizio dell'8 settembre fu in Liguria tra gli organizzatori della guerra partigiana. Vice sindaco di Genova alla Liberazione, poi giornalista de "l'Unità".  In vecchiaia si trasferì a Milazzo, dove fondò il periodico "La Voce di Milazzo". Qui morì quasi centenario nel 1994. Venne sepolto con la moglie nel cimitero di Chiavari.
Giambattista Canepa ha lasciato alcuni libri di carattere autobiografico sulla Resistenza in Liguria: Storia della Cichero, Grand-mère était génoise, La Repubblica di Torriglia.  





Un partigiano come tanti. Con una vita assai movimentata già prima del 1943. Uno che tra l'altro nel 1943 aveva già 47 anni. Era stato preso prigioniero a Caporetto ed era finito nel carcere di Braunau sull'Inn: questo nome non vi dice nulla? Braunau am Inn, al nord di Salisburgo, al confine con la Germania: il villaggio natale di Hitler.
Un partigiano che era stato fin dall'inizio un oppositore del regime fascista e per questo era presto finito al confino e poi in carcere. Era passato da Lipari a Ponza dove aveva conosciuto la figlia del farmacista: si sarebbero sposati nel maggio del 1931, dopo che lui aveva ritrovato la libertà. Ebbero una figlia, Enrica, intanto le tribolazioni non erano finite. Canepa era un sorvegliato speciale, nel gennaio 1937  allora passò in Svizzera per andare poi in Spagna. Si arruolò nelle brigate internazionali; prese parte alla battaglia di Guadalajara, in quella circostanza fu ferito. A Madrid diresse con Teresa Noce il "Volontario della Libertà". Sciolte le Brigate Internazionali passò in Francia, fu arrestato nel 1939 e poi rilasciato. La moglie e la figlia tentarono di raggiungerlo, furono espulse per via del passaporto irregolare.
Qui entra in scena un altro personaggio, Basil Davidson. E' un agente dello spionaggio inglese, lo Special Operations Executive (SOE). Prima faceva il giornalista, era stato anche inviato dell'Economist in Francia. Si era arruolato nel marzo 1941, era stato spedito in aprile a Budapest, un anno dopo sarebbe finito  a Belgrado. Ora nel luglio 1941 passava con il treno per la riviera francese diretto a Marsiglia. Sanary era una delle stazioni lungo il percorso. Davidson non conosceva Canepa, a quel tempo, e non poteva sapere che proprio a Sanary l'antifascista italiano aveva trovato rifugio in casa di una vedova.
Che cosa aveva il fuggiasco di attraente? Secondo Giorgio Bocca nulla o quasi: era "uno di quei rivoluzionari che portano il basco su un viso tranquillo, quasi pretesco". La vedova non doveva essere di questo parere. Nutriva grande ammirazione per gli artisti e Canepa, come spiegò poi in un suo libro  Davidson, "non era un artista, ma non ci si può aspettare sempre la nuda verità da un uomo in fuga. Oltretutto l'aspetto dell'artista ce l'aveva, o almeno la vedova era disposta a crederlo. Un italiano asciutto, con gli occhi di un azzurro vivo, e le belle mani di un artigiano. Probabilmente era un pittore, sicuramente un poeta. La vedova aveva una grande casa accogliente a Sanary e lo prese con sé."
Canepa fu di nuovo arrestato nel luglio del 1943, questa volta dalle truppe italiane di occupazione. Finì in una fortezza, all'Esseillon, a poca distanza da Modane. Con l'8 settembre ci fu il fuggi fuggi generale e Canepa si ritrovò libero. Il 12 prese un treno per Torino. Riannodò i contatti con l'organizzazione comunista. Ripartì diretto a Genova, proseguì per Chiavari, dove seppe che la moglie e la figlia si erano rifugiate nell'entroterra, a Favale di Malvaro. Da lì cominciò un nuovo capitolo della sua storia. La sua casa divenne un punto di raccolta per uomini in cerca di un inquadramento tra i partigiani. Stava nascendo la banda Cichero, poi divenuta una divisione garibaldina con 1200 effettivi. Canepa ne sarebbe stato il commissario politico. Nel gennaio 1945 due nuove missioni alleate furono sganciate da un aereo sull'Appennino ligure alessandrino; una, inglese, aveva fra i suoi componenti Basil Davidson; l'altra era  americana, faceva capo al maggiore di origine italiana Leslie Vannoncini. Il maggiore Davidson si aggregò alla divisione garibaldina Cichero e ne seguì le vicende fino alla liberazione di Genova. Per la seconda volta, e in modo meno occasionale rispetto alla prima, il suo destino e quello di Canepa si incrociavano. 


Basil Davidson, Scene della guerra antifascista, traduzione di Antonio Bronda, Rizzoli, Milano 1981
http://www.theguardian.com/books/2010/jul/09/basil-davidson-obituary

Genova, concessione della cittadinanza onoraria ai partigiani stranieri. G.B. Canepa è l'oratore ufficiale




venerdì 19 dicembre 2014

Simenon, suggestioni marine


La Rochelle, la vecchia stazione

La Rochelle, faro























Il sentore del mare




A Poitiers, mentre il treno era in stazione, di colpo si accesero le luci lungo i binari pur non essendo ancora buio. La notte calò più tardi, mentre attraversavano i pascoli, e le finestre delle fattorie solitarie si fecero brillanti come stelle.
Poi all'improvviso, a qualche chilometro da La Rochelle, una leggera nebbia che non era la nebbia della campagna ma quella del mare, si mescolò all'oscurità e un faro apparve un attimo in lontananza.
[...] Il treno aveva superato una rete di scambi ed era passato in mezzo a file di case basse. Poi i binari si erano moltiplicati e alla fine erano spuntate le banchine della stazione, le porte con i loro cartelli familiari, la gente che aspettava, la stessa, si sarebbe detto, che nelle stazioni precedenti. Aperta la portiera, si sentì un alito forte e fresco provenire dal buco nero dove parevano finire le strade e, guardando con più attenzione, si distinguevano gli alberi delle navi, i fumaioli che dondolavano dolcemente, si udivano le grida dei gabbiani, si riconosceva l'odore della marea e del catrame. 

Maigret à l'école, chapitre 2, incipit



Il mare come ricordo

Etretat

Erano appena le dieci del mattino, e Maigret, che aveva portato con sé solo una valigia leggera, si diresse a piedi verso l'albergo, vicino alla spiaggia.
Ma prima di entrare, e nonostante la sua valigia, andò a guardare il mare, le bianche scogliere a picco, ai due lati della spiaggia ghiaiosa; c'erano degli adolescenti, delle ragazze che danzavano nelle onde, e altri che, dietro l'albergo, giocavano a tennis; sulle sedie a sdraio le madri sferruzzavano e, sulla spiaggia, coppie anziane camminavano lentamente.
Per anni, quando era in collegio, aveva visto i compagni ritornare dalle vacanze, abbronzati, pieni di storie da raccontare e di conchiglie nelle tasche; lui invece si guadagnava la vita da molto tempo, quando aveva per la prima volta contemplato il mare.
Si rattristò un po' constatando che non sentiva più l'antica piccola emozione, che poteva guardare con occhio indifferente la schiuma splendente delle onde e il bagnino dalle braccia nude e tatuate nella sua barca, che scompariva talvolta dietro una grossa ondata.

Maigret et la vieille dame, chapitre 2, La châtelaine de "La Bicoque"






 












Maigret à la mer 

Mon ami Maigret
Liberty Bar
Au Rendez-Vous des Terre-Neuvas
Maigret et la vieille dame
Les vacances de Maigret
Maigret à l'école
L'improbable Monsieur Owen