domenica 6 aprile 2014

Cari Rodotà e Zagrebelsky

Gian Enrico Rusconi
Lettera a Rodotà e Zagrebelsky
la Stampa, 6 aprile 2014 


Cari Rodotà e Zagrebelsky, 
sapete quanto sono vostro amico ed estimatore da tanti anni. Abbiamo fatto tante battaglie insieme.Voi, giustamente, in prima fila, io personalmente insieme a tanti altri amici e colleghi, tra le truppe di complemento. Non sto facendo ironia. Voi siete i migliori.
Per questo mi colpisce il vostro atteggiamento così negativo verso il governo Renzi, il tono allarmato di chi vede una battaglia finale per la democrazia in pericolo. Consentitemi qui di non entrare nel merito delle singole argomentazioni, obiezioni, contrapposizioni che state usando contro la linea del governo a proposito del Senato. Ieri su questo giornale Augusto Barbera ha esposto in modo fermo e sintetico ragioni  opposte alle vostre. «Non vedo proprio cosa ci sia di autoritario nel progetto di riforma di Renzi». [e quattro costituzionalisti - ha aggiunto - non so fino a che punto esprimano l'opinione dei circa 200 costituzionalisti italiani]. Ha ricordato che sui temi della riforma istituzionale si è discusso per decenni esibendo ogni ragionamento possibile, senza arrivare a nessun risultato concreto. E' stato questo uno dei tanti clamorosi fallimenti dei professionisti della politica e del diritto. Ad esso aggiungerei con altrettanto rammarico la retorica della "società civile" presuntivamente sempre pronta a mobilitarsi per le grandi cause.
Perché ora accanirsi contro Matteo Renzi, che è arrivato dopo tanti fallimenti? E' un grande dilettante,  certo, e tutti vediamo i suoi limiti e i pericoli della situazione. Ma non sarebbe meglio investire la vostra competenza per indirizzare al meglio la mediocre soluzione che si sta comunque configurando? Non è questo il realismo politico che avremmo dovuto imparare dai nostri maestri?
Nessuno di loro si è trovato davanti all'avvelenata dissoluzione del berlusconismo e all'intollerabile aggressività del Masaniello-Grillo, con i suoi ciechi seguaci. Il tutto accade all'interno di una nevrosi mediatica che impedisce di valutare freddamente la situazione. Anche questa è una grande differenza rispetto al  . Il discorso politico è sempre meno condizionato dallo scambio di ragioni ma dominato dal sospetto, dal processo alle intenzioni e soprattutto da un linguaggio indecente e incontinente oltre misura. Da una parte e dall'altra.
[...] Non è evocando come spauracchio autoritarismo, decisionismo, craxismo o anche berlusconismo che si convince una generazione che si sente presa in giro dalla politica. Date fiducia a questa generazione, anche se non vi omaggia, come ha fatto la generazione precedente.

sabato 5 aprile 2014

Bauman, Il demone della paura


Giancarlo Bosetti

Zygmunt Bauman analizza i demoni del presente
Così la paura avvelena la società liquida

la Repubblica, 5 aprile 2014


ZYGMUNT Bauman, sociologo polacco trapiantato a Leeds, Inghilterra, è, prima che quel prolifico e amato scrittore che tutti conoscono, un grande lettore, un vorace esploratore della cronaca e della letteratura delle scienze sociali che descrive il nostro tempo, i cambiamenti che attraversiamo e percepiamo e le tendenze di cui abbiamo una cognizione ancora confusa. Se nei suoi saggi si è rivelato il più efficace e originale inventore di linguaggio, quello della modernità “liquida”, questo è avvenuto grazie alle doti raffinate della sua scrittura e del suo eloquio, che riescono a conquistare il pubblico come solo i grandi narratori.
Bauman rende omaggio in modo esplicito alla molteplicità delle sue infinite fonti, ma nel riferirne le scoperte e nel collegarle tra loro trova poi quasi sempre spunti per una sintesi che regala ai suoi lettori immagini e parole che marcano l’idea in modo permanente. Così avviene anche in questo testo (Il demone della paura), che rielabora suoi lavori precedenti e vi aggiunge una sintetica rassegna antologica. Il tema hobbesiano della paura attraversa tutta la storia della teoria politica da Machiavelli ai giorni nostri, è sia il nocciolo fondativo del potere assoluto del Leviatano sia la virtù del principe che ne sappia governare gli effetti. In queste pagine troviamo quel genere di paura che alimenta e/o avvelena tanta parte della politica contemporanea.
Per Bauman la madre e il padre di tutte le paure che percorrono il nostro presente è il declino, la scomposizione e la scomparsa dell’organizzazione economica, sociale, e anche politica, che andava sotto il nome di “fordismo”, da intendersi come il sostrato industriale che reggeva l’intero edificio. Questa base irradiava sicurezze e solidità nel corpo sociale. La fabbrica fordista era la «esemplificazione dello scenario di modernità solida in cui si stagliava la maggior parte degli individui privi di altro capitale». Quello era il luogo dei conflitti tra capitale e lavoro in una relazione, ostile, ma di «lungo termine». E questa caratteristica consentiva agli individui «di pensare e fare progetti per il futuro». Il conflitto era insomma un investimento ragionevole e un sacrificio «che avrebbe dato i suoi frutti», mentre la condizione attuale, la volatilità globale dell’economia, fa apparire i tentativi di ripetere analoghi conflitti con analoghi strumenti un gioco nostalgico molto povero di senso.
Nei suoi scritti Bauman mette sempre generosamente in evidenza il debito nei confronti degli autori dai quali trae ispirazione: i più frequentemente citati sono Pierre Bourdieu, Manuel Castells, Ulrich Beck, Anthony Giddens e Robert Castel, il francese cui si deve tra i primi, insieme a André Gorz, la scoperta che la “società del lavoro” volgeva al termine. In questa rassegna di paure, Castel è presente con qualche sua bella pagina in cui il tema è declinato in modo consapevolmente europeo: il paradosso è che l’insicurezza è molto diffusa nei Paesi sviluppati, che sono in realtà i meglio protetti rispetto al mondo intero. E questo perché insicurezza non è solo «vivere nella giungla», ma dipendere da protezioni forti «che diventano fragili e dalla paura di perderle». Tutta la fenomenologia della paura si riaffaccia così nei diversi segmenti della vita sociale degli ultimi decenni: il terrorismo, la criminalità della vita urbana, le tendenze a recintare la comunità di apparati di sicurezza, i rischi ambientali e della salute, e poi l’afflusso di Altri e Diversi, bersaglio prediletto dalle politiche della paura che hanno negli immigrati il più redditizio capro espiatorio.
Anche il capitale politico è “liquido” e pronto a qualsiasi investimento e coglie con prontezza le possibilità di profitti che la paura offre in misura crescente. Grandi investimenti si profilano di fronte allo scricchiolare della sovranità di quel Leviatano che aveva costruito la sua forza e legittimazione proprio sulla paura (ma restituendo protezione e sicurezza). Sorprendente e discutibile la proposta dell’ungherese Frank Furedi che critica la sinistra per la diffusione della paura del riscaldamento globale e che sembra in realtà suggerirle proprio un investimento analogo a quello che la destra fa su sicurezza e incolumità personale contro gli immigrati. Più ragionevole la risposta di Bauman e Castel: la vittoria sulle insidie della paura è da cercare sopra i confini nazionali, in una Europa sociale e, a livello mondiale, nella creazione e nel rafforzamento di istituzioni internazionali capaci di controllare i rischi. Lungo cammino, ma senza alternative.

giovedì 3 aprile 2014

La ferocia della donna tradita

Massimo Recalcati
Recalcati: “Mamme Medea. L’amore divorante che si trasforma in desiderio di morte”
la Repubblica, 14 marzo 2014

Potremmo definirlo “complesso di Medea” quello che porta le madri a uccidere i propri figli rovesciando d’un sol colpo la catena della generazione: ti ho dato la vita e ora ti do la morte. È a Corinto nel 431 a.C. che Euripide mette in scena la tragedia di Medea. In essa si narra la vicenda di una donna che non può sopportare il tradimento del suo uomo Giasone e che per vendetta uccide spietatamente i suoi figli. La spinta verso il figlicidio è provocata dalla ferita causata dal trauma dell’abbandono. Se di fronte all’amore che univa nell’idillio iniziale Medea a Giasone il coro poteva ricordarci che «è la più grande delle fortune quando una donna va d’accordo con il proprio uomo», Medea dopo il tradimento, subito come una ferita insanabile, ci mostra che «quando una donna si vede tradita nell’amore, la sua ferocia non conosce limiti».
Nel suo caso è la follia della gelosia a pervertire la funzione dell’accudimento e della protezione della vita che caratterizza la funzione materna. Ma quale verità profonda si annida nel gesto estremo di Medea? In esso dobbiamo vedere emergere tutta la differenza che separa l’essere donna dall’essere madre. Alla luce della psicoanalisi sappiamo quanto problematico sia per una donna diventare madre senza perdersi come donna. Un tempo era quasi la regola: divenire madre per una donna significava morire come donna, sacrificare tutta la propria femminilità all’accudimento della vita dei propri figli. Con la conseguenza che il legame materno coi figli diveniva a sua volta patologico, fagocitante, cannibalico. Se, infatti, una donna diventa tutta madre i suoi figli si troveranno inchiodati nella posizione insostenibile di chi deve consolare e colmare la vita che a loro si è dedicata. Il gesto di Medea mostra dunque quanto la non coincidenza tra donna e madre possa rivelarsi tragica. È perché si è sentita rifiutata come donna che si cancella come madre cancellando a sua volta anche la vita dei suoi figli.
Molti casi di cronaca rispondono al complesso di Medea. Una donna non si può accontentare di apparire agli occhi dell’uomo che ama solo come una madre. Esige, giustamente, di continuare a esistere e ad essere desiderata come donna. Sappiamo come la nascita di un figlio possa destabilizzare anche le coppie più solide. Un uomo può faticare a riconoscere la donna che amava e desiderava sessualmente in quella che è divenuta la madre dei suoi figli e una donna può non riconoscere più nel padre dei suoi figli l’uomo che l’ha fatta innamorare.
Ma esistono anche altre ragioni che possono animare il passaggio all’atto del figlicidio. Freud aveva messo in evidenza l’equivalenza del bambino col fallo. Questa equivalenza significava come attraverso la maternità una donna avesse la possibilità di superare l’invidia del pene colmando la propria mancanza con il potere di generare e accudire la vita. È il senso di pienezza e di gioia che accompagna ogni maternità sufficientemente buona. Ma questa rappresentazione del bambino fallo deve essere integrata con qualcosa di più inquietante che si annida in ogni esperienza di maternità sin dal momento del concepimento. Il pensiero inconscio (o conscio) di molte donne relativo al non essere in grado di generare. L’ombra della deformazione, della mostruosità, del figlio inadeguato o malato, cala così sul desiderio di maternità. Come se tra il bambino immaginato nelle sue vesti più ideali (falliche) e il bambino reale vi fosse un divario impossibile da colmare.
Questo divario è ciò che spiega l’angoscia, a volte spessa altre più sottile, che può accompagnare il periodo della gravidanza ma anche quello della “ricerca” di un figlio. Sarò davvero in grado di generare? Sarò davvero in grado di donare la vita? Dietro queste domande sorge prepotente la figura della madre primordiale e la necessità affinché si realizzi un accesso positivo alla maternità che il cordone ombelicale con questa madre sia stato reciso, ovvero che sia avvenuta una giusta trasmissione del desiderio tra madre e figlia. Per diventare davvero madre una donna non può continuare ad essere figlia. Il giudizio con il quale allora una madre può non tollerare l’imperfezione del figlio – la sua non coincidenza con il figlio immaginato, con quello che Silvia Vegetti Finzi* definisce il «figlio della notte» – sino al punto di sopprimerne la vita, riflette spesso il giudizio severo di cui è stata a sua volta vittima. La volontà narcisistica di avere un figlio ideale, perfetto, coincidente con il figlio immaginato, non può accettare il limite costituito dall’esistenza reale del figlio. L’amore materno che è sempre amore per il figlio nella sua particolarità anche più difettosa, lascia in questi casi il posto ad una sua trasfigurazione perversa: la gioia della maternità non è più quella di donare la vita ma solo quella di avere un figlio ideale. Se il figlio si discosta da questo ideale deve essere rifiutato. Molte depressioni post partum parlano di questo rifiuto che trova la sua manifestazione più crudele nel passaggio all’atto dell’infanticidio.

mercoledì 2 aprile 2014

Replica a Guido Ceronetti sul piacere femminile

Natalia Aspesi
L’altra metà del sesso
Da Freud a Sex and the City. Tra tabù e falsi miti la scoperta del piacere femminile è stata una conquista
Così è saltata la costruzione artificiale fatta sulla natura: madre, monogama, fedele, priva di fantasie erotiche

E la convinzione che la vecchiaia sia l'età dell’astinenza
la Repubblica, 2 aprile 2014

OGNI volta che un uomo si occupa di sessualità femminile, a partire dal mitico Freud, si resta di sale: ma come, se lo raccontano ancora, ce lo raccontano ancora, che le donne non sono come da secoli se lo dicono e ce lo dicono? La loro signora non gli ha mai dato una sveglia? Non hanno mai letto i testi fondamentali degli anni ‘70, scritti ovviamente da donne in cui solo alle donne (gli uomini non li leggevano), si spiegava che “non era per piacere a Dio”, ma trovando una persona volonterosa e creativa, maschio solitamente, si poteva godere scompostamente “per piacer mio”, come si vede oggi in ogni pubblicità di yogurt gustato da femmine. Proprio nel paese del serioso giornalista Daniel Bergner che crede di sapere cosa vogliono le donne, gli Stati Uniti, uscì nel 1971 (poco dopo in Italia da Feltrinelli) “Our bodies, ourself”, in cui un collettivo femminile di Boston ce la raccontava tutta. Per le donne una rivelazione, sia per chi non ne sapeva niente e sperimentava il suo corpo nel sesso solo come un vuoto soporifero, sia per chi in certe situazioni si vergognava se le veniva da gridare, terrorizzando l’inconsapevole collaboratore. Il libro conteneva anche orrifici grafici di quella cosa là, assolutamente sconosciuta sia alla proprietaria che a chi se ne riteneva l’utente. Anche da noi i gruppi di autocoscienza si obbligarono a mettere uno specchietto tra le gambe per vedere questa cosa invisibile, che si era costrette tra brividi a trovare bellissima. Quel saggio fu radicale, disse di smetterla di credere o far finta di credere all’illusione maschile di possedere uno strumento penetrativo salvifico e in grado di far felici le donne già al primo sguardo. Disse, sorpresa! che il vero piacere femminile era nel clitoride, sempre che si trovasse qualcuno con la pazienza di rintracciarlo: o di seguire gli ordini della proprietaria che per conto suo l’aveva già favorevolmente sperimentato.
Da quel momento i testi scritti da donne sull’argomento furono una valanga, comprese le inchieste anni ’70 di Nancy Friday sulle fantasie masochiste femminili, che si riallacciavano al magistrale e a suo tempo proibito Histoire d’O( anni ‘50), della porchissima studiosa di monachesimo Paulin Reage. Lo smascheramento di massa della sessualità delle donne, silenziosamente, mandò all’aria, almeno teoricamente, tutta la costruzione artificiale sulla loro natura: madre (o puttana), monogama, fedele, priva di fantasie erotiche, nemica della pornografia (anche se ormai scritta da donne e letta quasi solo da donne).
Da anni ormai al cinema sono più le scene in cui è lui ad abbassarsi goloso sotto la vita di lei, che intanto mugola, di quelle in cui è lei a farlo su di lui (che spesso non mugola). Resta indimenticabile un film inglese molto divertente accolto però con una certa pruderie, Hysteria (2011) che racconta dell’invenzione fine Ottocento dell’antenato del vibratore: adottato dai medici come cura all’isteria, cioè a quella perniciosa malattia che era l’impossibile godimento delle donne. La televisione ha portato in tutto il mondo l’intelligente, spiritosa, coraggiosa serie Sex and the city, 94 puntate dal ‘98 al 2004, ridate anche da noi decine di volte e sempre illuminante: scritta da donne ha raccontato benissimo il bisogno d’amore femminile attraverso l’accumulo di avventure sessuali e talvolta pure sentimentali, sino all’immancabile finale, quello non cambia mai, del “vissero felici e contenti”.
Ma in generale la maschilità è zuccona, smemorata, fragile ed egoista: ancora sono in tanti, anche cervelloni, a immaginare l’erotismo come un servizio addirittura sociale, pure a spese dei contribuenti, che si prenda per esempio carico degli anziani insaziabili, senza neppure obbligarli non si dice a pagare, ma almeno a meritarselo con una certa capacità di seduzione o di risvegliare in buone Signore della Lampada un senso di cura e abnegazione. Giovani però, perché il maschio vecchio tende a sfuggire le coetanee: non è di una donna che queste persone, hanno bisogno, ma di un contenitore che accolga senza orrore lo sfacelo del loro corpo. E le anziane? Hanno imparato da secoli a nascondere i loro non riconosciuti piaceri, a soddisfarli oppure a farne a meno, quasi sempre con grande contentezza, magari dopo decenni di noiosissimo sesso coniugale. Hanno maggior senso di dignità del loro corpo, hanno avuto quello che hanno avuto e va bene così. Però sono tante le coppie invecchiate insieme, e lo scrivono a Questioni di cuore, che continuano ad amarsi, con la meravigliosa tenerezza che nasce dall’abitudine, dal rispetto, dalla riconoscenza reciproca per quella gioia inestricabile che ha insegnato a due corpi ad armonizzarsi oltre la bellezza e la giovinezza.
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Guido Ceronetti aveva scritto:

UNA parola infallibile ci dice l’essenziale. Sofocle, Edipo a Colono, dramma della vecchiaia e del suo potere magico, che si paga a caro prezzo: «La più grande sciagura per un uomo è una lunga vita».
Verità che il volgo aborrisce, contestata rabbiosamente, ma cui bisogna arrendersi: vecchiaia è brutto, vecchiaia protratta è ininterrotto soffrire fino alle peggiori degradazioni di esseri più o meno innocenti. E oggi sono moltitudine. E in Italia più numerosi che altrove. Eppure là, dove si gioca a scacchi interminabilmente la partita perdente con la Morte, qualcosa d’indecifrato, di coniugante cielo e terra, di rivelatore d’essere, si nasconde. A un artista pensante (vedi Bosch, Rembrandt) in modo preminente interessano i vecchi. Togli i vecchi da una città e ne fai una città morta. La loro terribile sofferenza la protegge. Metterli da parte, costringerli all’ozio, abbrutirli di TV e psicofarmaci è un crimine inodoro che attira il male.
Ma queste sono divagazioni. Va messo in luce questo stupefacente esempio di barbarie medica, politica, sociale: la fabbrica dei giubilati, degli esclusi, dei frustrati del sesso, e dell’amore a sfondo sessuale, a partire da un’età prossima alla settantina, o ancor prima, fino alla spossatezza e alle disperazioni di quelli che la geriatria contemporanea non abbandona neppure al di là dei cento.
LA RINUNCIA forzata è, approssimativamente, di una trentina d’anni, la durata media del tempo iuvenile. Per disabili e carcerati, in paesi civili, qualcosa si è mosso e si sta muovendo; ma per i vecchi-maschi, eterosessuali, coniugati o soli (quelli di cui posso conoscere meglio e condividere le sciagure della longevità) si muoverà mai qualcuno?
C’è un notevole vantaggio nella sessualità senile: il cosiddetto istinto che acceca e spinge a procreare (cosa dall’utilità discutibile), piglia altre strade: si depura e spiritualizza, o si perverte e si maializza. Ma spiritualizzarsi non è rinunciare, e la maialità è spiegabile coll’indebolimento del controllo mentale. Giovenale dice che i vecchi hanno tutti le stesse facce (una facies senum): massima sbagliatissima, le stesse facce ce l’hanno i neonati, i vecchi più si fanno orridi più sono caratteristici i loro volti tristi. La persistenza del desiderio è madre d’infinite disperazioni, che per lo più non poche chiavi nei nostri sepolcri psichici tengono sepolte. Hillman nel suo mirabile saggio sulla vecchiaia raccomanda di mantenere viva l’immaginazione erotica: benissimo, ma poi come esci da quel tormento?
Il ricorso alle prostitute non è certo un rimedio. La prostituzione degrada l’uomo, molto più della donna. Del resto le battone sono una specie in estinzione. Ma dal momento che già esiste nell’Europa non cattolica il servizio erotico volontario per i disabili, non dovrebbe essere fatto un passo successivo estendendolo a tutti i vecchi d’immaginazione vivace e di speranza morta? Le ierodule erano persone sacre che compivano un servizio presso tutti gli antichi templi d’Occidente come d’Oriente: si tratterebbe di far riemergere secondo una socializzazione d’anno Duemila, quella sacralità femminile, del corpo offerto liturgicamente per amore della Divinità, che certissimamente non è mai morta.
Non tocca a me, scrittore, dire modalità e legiferare intorno a questo costume che potrebbe diminuire, di poco o di molto, l’aggressiva veemenza delle infelicità esistenziali. Disse una volta Buddha a un monaco che, in città, aveva frequentato prostitute: — Era meglio per te mettere il tuo arnese tra le fauci di una tigre, piuttosto che tra le gambe di una donna! — E come maestro di salvezza non aveva torto: quelle gambe procurano un’estasi nirvanica di attimi, ma ahimè ti giochi là qualsiasi merito in vista di un Nirvana autentico che ti libererebbe dalla catena delle rinascite, supremo male.
Però, caro Dottor Buddha, non siamo che poveri esseri mortali, e se ai denti di una tigre preferiamo le carezze compensatrici di una donna illegittimamente giovane — per il diritto di sognare — faremo di colpo scattare l’inesorabile, se la temiamo, punizione karmica? La sofferenza è umana, ma non siamo uomini soltanto per soffrire. Il trenino che porta al Paese delle Nevi di Yasunari Kawabata, qualunque sia la nostra età anagrafica, non è da perdere.


Diritto d’untore
Mettiamo fine alla barbarie della vecchiaia senza sesso
Una proposta per diminuire l’aggressiva veemenza delle infelicità esistenziali

la Repubblica, 1 aprile 2014 

martedì 1 aprile 2014

Jacques Le Goff (1924-2014)

Marina Montesano 
Il Medioevo è infinito
Il Manifesto, 2 aprile 2014


Ha susci­tato qual­che foco­laio di pole­mica anche agli inizi del 2014, Jac­ques Le Goff, ormai novan­tenne, quando è uscito un suo breve libro (Faut-il vrai­ment décou­per l’histoire en tran­ches?, per ora pub­bli­cato solo in Fran­cia) nel quale ripro­po­neva un con­cetto che era andato svi­lup­pando in tanti anni di studi: quello di un «medioevo lungo» che rove­sciava le cate­go­rie sto­rio­gra­fi­che dell’Ottocento, epoca nella quale il suo con­ter­ra­neo (e peral­tro ammi­rato) Jules Miche­let aveva «inven­tato» il ter­mine Renais­sance, «Rina­sci­mento», pre­sunta cesura fra il mil­len­nio dei secoli bui e la nostra moder­nità; con­cetto che sarebbe stato ripreso, ampliato, por­tato al suo mas­simo svi­luppo dal grande Jakob Burc­khardt nella sua monu­men­tale Civiltà del Rina­sci­mento in Ita­lia.

La lunga durata

Dalle pagine del Cor­riere della Sera, in quell’occasione, uno stu­dioso legato a una visione essen­zial­mente sto­ri­ci­sta qual è Giu­seppe Galasso aveva riba­dito che intorno al Quat­tro­cento una cesura, un ini­zio di ciò che chia­miamo moder­nità c’è effet­ti­va­mente stato, men­tre Franco Car­dini, sto­rico ita­liano fra i più vicini alla visione anti­sto­ri­ci­stica delle Anna­les, soste­neva con Le Goff la neces­sità di supe­rare que­sta idea e cogliere nella sto­ria la lunga durata (altra espres­sione venuta fuori dal cir­colo delle Anna­les e da un altro dei suoi mas­simi espo­nenti, Fer­nand Brau­del) di tanti feno­meni che siamo abi­tuati a pen­sare come pret­ta­mente «medie­vali» o come esclu­si­va­mente «moderni».
Non che Jac­ques Le Goff, nato nel gen­naio 1924 e scom­parso ieri, fosse estra­neo alla visione otto­cen­te­sca del Medioevo; magari di quello eroico, caval­le­re­sco e roman­tico, se è vero che uno dei suoi primi approcci con quest’epoca gli giunse gra­zie alla let­tura dell’Iva­n­hoe di Wal­ter Scott. Ma la sua espe­rienza di sto­rico in for­ma­zione è venuta pro­prio da quella prima metà del Nove­cento, tanto dram­ma­tica sotto il pro­filo poli­tico, sociale e mili­tare quanto feconda per gli studi sto­rici in gene­rale e medie­vi­stici in particolare.
Nel 1929 Marc Bloch e Lucien Feb­vre ave­vano dato vita alla rivi­sta Anna­les d’histoire éco­no­mi­que et sociale, attorno alla qualle si pre­pa­rava il ter­reno per una grande rivo­lu­zione sul piano del metodo sto­rio­gra­fico. Le Goff non poté cono­scere diret­ta­mente Bloch, fuci­lato nel 1944, ma fu allievo di alcuni grandi nomi che par­te­ci­pa­vano al rin­no­va­mento di que­gli anni, avendo stu­diato e discusso la sua tesi con Charles-Edmond Per­rin, Mau­rice Lom­bard, lo stesso Brau­del, non­ché con lo sto­rico belga Henri Pirenne.
Que­sti primi passi, com­piuti nella Fran­cia di Vichy, li ha ricor­dati lui stesso nell’intervista-biografia Una vita per la sto­ria, uscita in Fran­cia nel 1996 e poi tra­dotta anche in Ita­lia per Laterza. Si appren­dono i suoi tra­scorsi uni­ver­si­tari a Praga, a Oxford e a Roma, la sua con­vi­venza non sem­pre facile con l’Accademia, il suo approdo nel 1969 alla pesti­giosa dire­zione delle Anna­les, con­di­visa con Emma­nuel Le Roy Ladu­rie e l’ingresso con com­piti diret­tivi nell’École des hau­tes étu­des en scien­ces socia­les a par­tire dagli anni Set­tanta; ossia in quella fucina di idee e di studi che amplia­vano la visione sto­rio­gra­fica verso nuovi lidi e nuove espres­sioni: la sto­ria seriale, la sto­ria mate­riale, la sto­ria quan­ti­ta­tiva, la sto­ria delle men­ta­lità, l’antropologia storica.
I risul­tati che ne sareb­bero usciti ci pos­sono sem­brare appar­te­nere a indi­rizzi dia­me­tral­mente oppo­sti, ma sono comun­que il por­tato di un unico, col­let­tivo sforzo di ripen­sa­mento del modo di fare sto­ria. Dall’intervista si apprende anche la sto­ria di un uomo pro­fon­da­mente laico e pro­fon­da­mente fran­cese, che ha tra­scorso l’esistenza a inte­res­sarsi con pas­sione di un’epoca in cui la cul­tura reli­giosa è ovun­que, cer­cando di guar­darla in una pro­spet­tiva glo­bale, mai localistica.

Modelli colti e popolari

La sto­ria delle men­ta­lità e l’antropologia sto­rica sono senz’altro i set­tori nei quali ha ope­rato Jac­ques Le Goff, raro esem­pio di spe­cia­li­sta che rie­sce a gio­strare fra tema­ti­che ed epo­che anche lon­tane tra loro. Ai primi decenni della sua car­riera appar­ten­gono opere come Gli intel­let­tuali nel medioevo (prima edi­zione 1957), La civiltà dell’Occidente medie­vale (prima edi­zione 1964), la dire­zione con Pierre Nora dell’opera col­let­tiva Fare Sto­ria. Una pie­tra miliare è, nel 1981, il volume La nascita del Pur­ga­to­rio, mono­gra­fia nella quale sem­bra con­fluire tutto ciò che Le Goff ha rea­liz­zato fino a quel momento.
Da una parte la straor­di­na­ria cono­scenza delle fonti del medioevo latino e vol­gare, della cul­tura teo­lo­gica di quell’epoca, dei suoi modelli «colti»; dall’altra il ten­ta­tivo di andare oltre tutto que­sto per com­pren­dere i grandi feno­meni cul­tu­rali con­di­visi, il modo in cui gli uomini e le donne di un’epoca hanno pla­smato la società in base a deter­mi­nate idee, e in che modo tali idee hanno poi con­di­zio­nato la società. In tal senso, quella di Le Goff è stata una vera antro­po­lo­gia sto­rica, secondo la migliore lezione di Marc Bloch che invi­tava a calarsi nel pas­sato come un antro­po­logo si cale­rebbe in una civiltà «altra» rispetto alla sua.
La sto­ria delle men­ta­lità, espres­sione oggi poco apprez­zata e piut­to­sto pas­sata di moda, era il ten­ta­tivo di cogliere que­sta com­plessa feno­me­no­lo­gia. In par­ti­co­lare, un tema che allo stu­dioso fran­cese stava a cuore, così come a molti altri tra anni ’60 e ’70, era il rap­porto tra società e cul­tura, tra stra­ti­fi­ca­zione sociale e motivi cul­tu­rali, in sin­tesi tra cul­tura dotta e popo­lare: un tema che una parte della sto­rio­gra­fia pure cre­sciuta in seno alle Anna­les, ma con una più forte influenza mar­xiana, ten­deva a risol­vere in ter­mini di dico­to­mia, lì dove Le Goff pre­fe­riva pre­stare atten­zione alla cir­co­la­zione di modelli (secondo la lezione mai dimen­ti­cata di Jakob­son e Boga­ty­riev) tra ceti sociali.
Vedeva nella cul­tura popo­lare una delle fucine crea­trici, in par­ti­co­lar modo per secoli — quelli del medioevo cen­trale — nei quali la cul­tura scritta era appan­nag­gio dei chie­rici e i laici, anche quelli dei ceti ele­vati, par­te­ci­pa­vano di idee, con­ce­zioni, modi di pen­sare legati a quella che viene chia­mata «cul­tura folklorica».

L’Europa sor­giva

Negli anni più tardi, Jac­ques Le Goff non ha mai abban­do­nato que­ste pas­sioni; in fondo, anche la monu­men­tale bio­gra­fia su San Luigi (uscita nel 1996) aveva alle spalle già degli scritti sul tema pre­ce­denti di un paio di decenni. Ma la sua pro­du­zione più recente mostra anche un’attenzione agli svi­luppi della sto­rio­gra­fia con­tem­po­ra­nea (si vedano i suoi lavori sulla con­ce­zione del corpo), non­ché un inte­resse per gli svi­luppi della società tout court: a que­sto secondo filone appar­ten­gono le rifles­sioni sull’Europa e le sue radici, che era poi soprat­tutto una rifles­sione per i suoi esiti poli­tici pre­senti e futuri.
Aveva comin­ciato la sua vita acca­de­mica (e non solo) in un momento in cui l’Europa si dibat­teva fra le guerre, ha fatto in tempo a sognare insieme a molti un’Europa diversa, si è spento quando que­sto sogno pare ormai sulla via del tramonto.
 
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 LA STORIA OGGI

di Jacques Le Goff 


Per parlarvi della scienza storica oggi, partirò da un testo di Marc Bloch nella sua Apologia per la storia o il mestiere dello storico. La storia non è solamente una scienza in cammino. È anche una scienza nell'infanzia: come tutte quelle che hanno per oggetto lo spirito umano, questo ritardatario nel campo della conoscenza razionale. O per meglio dire, invecchia sotto la forma embrionale del racconto, a lungo ingombro di finzioni, ancor più a lungo legato agli eventi più immediatamente comprensibili essa resta, come impresa ragionata d'analisi, sempre giovane. Da quando può datarsi la sua comparsa come impresa ragionata? Sono dell'avviso dello storico tedesco Reinhart Koselleck che nella sua opera pubblicata nel 1979, Vergangene Zukunft (Il futuro passato), sostiene che la storia è una nozione e una disciplina nata nella seconda metà del XVIII secolo. È un prodotto dei Lumi allo stesso titolo che le nozioni di politica, di religione e d'economia fino ad allora sconosciute. La scienza storica ha conosciuto una lunga preistoria fino alla comparsa del termine nella Grecia antica nel senso di ricerca, inchiesta più che risultato di questa, narrazione fino alla composizione nel V secolo dell'era cristiana delle Storie di Erodoto, il “padre della storia”. Bernard Guenée ha potuto scrivere nel 1980 una eccellente Storia e cultura storica nell'Occidente medievale, ma non c'è storia ragionata nel Medioevo. L'umanesimo del XVI secolo ha suscitato una duplice spinta alla riflessione storica. Da una parte il ricorso alla morale, all'etica della storia considerata magistra vitae, maestra di vita. In questa linea si colloca Montaigne sempre in cerca dell'“umana condizione”. «Gli storici sono al centro del mio interesse. L'uomo in generale di cui cerco la conoscenza, vi pareva più vivo e più intero che in nessun altro luogo». D'altra parte certi autori della fine del XVI secolo reclamano una storia che non dimentichi alcuna conoscenza importante, da qui il concetto di storia perfetta che, in un contesto e con un contenuto completamente diversi, evoca quella che sarà l'ambizione di storia totale o globale della rivista Annales e l'esigenza di svilupparlo.

TRE ACQUISIZIONI

I Lumi e il XIX secolo hanno rappresentato un taglio epistemologico che ha costituito la storia come scienza, ma ciò si è fatto ad un tempo in una prospettiva propriamente scientifica, razionale, e in una prospettiva ideologica. Questa è stata quella del progresso collegato all'evoluzionismo. La storia aveva un senso, il progresso rimpiazzava la provvidenza e conservava alcuni dei mali peggiori della teleologia e peggio ancora, per una maggioranza d'occidentali del XIX secolo e per una maggioranza di storici, il progresso s'identificava con la nazione, nella prospettiva di una escatologia nazionalista pericolosa e soffocante. Credo di poter distinguere tre acquisizioni principali della scienza storica nel XIX secolo. La prima è l'elaborazione di metodi d'erudizione - la costituzione di archivi, di istituzioni culturali quali l'Ecole nationale des chartes in Francia, e i Monumenta Germania historica in Germania, a Monaco, ai quali aggiungerei l'Istituto storico italiano per il Medioevo a Roma, oggi brillantemente diretto da Girolamo Arnaldi - la definizione dei documenti come fonti della storia, la messa in piedi di tecniche dette scienze ausiliarie della storia, fra le quali la cronologia; per cui non si dirà mai abbastanza che non c'è storia senza cronologia. Bisogna anche dire con forza che questa erudizione, questi metodi critici restano e resteranno una base essenziale della scienza storica e del lavoro dello storico. Questa formazione distingue anche lo storico professionale dallo storico amatoriale. Ma dal XIX secolo la pratica divenuta tradizionale dell'erudizione ha portato ad un disseccamento della critica storica. Questa si è focalizzata sulla ricerca del falso e ha avuto la tendenza a ridursi quando la critica del documento doveva rispondere a questioni assai più larghe e più ricche.

LA STORIA È LA SCIENZA DEL PASSATO?

La seconda acquisizione è stata l'elaborazione di una definizione che ha permesso alla storia di prendere pienamente il suo posto nell'insieme delle scienze umane e sociali del XX secolo. La definizione è di Fustel de Coulanges (1830-1889) ed è stata sostenuta e completata da Marc Bloch nella prima metà del XX secolo: “la storia è la scienza degli uomini nella società nei tempi”. I tre termini sono egualmente importanti e la loro forza deriva dalla loro messa in rapporto. Oggetto della storia sono gli uomini e le donne viventi e agenti con tutto il loro essere (corpi, sensibilità, mentalità compresi) in tutti i campi (vita quotidiana, vita materiale, tecniche, economia, società, credenze, idee, politiche eccetera) secondo i loro caratteri individuali ma anche e soprattutto collettivi, da qui l'importanza dello studio delle strutture sociali e del loro funzionamento. Sottolineo ancora “nei tempi”. L'importanza fondamentale per lo storico della dinamica delle società e della storia come scienza del movimento e del cambiamento. Non c'è storia immobile. La storia si trova così definita come una scienza della vita (si può considerare Michelet come il padre di questa concezione), di uomini viventi e dunque mutevoli. Non posso trattenermi dal citare una celebre frase di Marc Bloch. «Sono gli uomini che lo storico vuole afferrare. Chi non li raggiunge non sarà altro che un manovale dell'erudizione. Il bravo storico, lui, assomiglia all'orco delle favole. Là dove fiuta carne umana, là è la sua selvaggina». A quale altra definizione si oppone questa definizione umana, sociale della storia? A questa: “La storia è la scienza del passato”. Il commento di Marc Bloch è senza appello: «L'idea stessa che il passato, in quanto tale, possa essere oggetto di scienza è assurda. Fenomeni che non hanno altro carattere comune che di non essere stati contemporanei, senza distacco preliminare come possono divenire materia di conoscenza razionale?». Insistiamo, la storia non è la scienza degli uomini del passato e nel passato, è la scienza degli uomini nei tempi, nel cambiamento. La terza acquisizione della scienza storica nel XIX secolo è piuttosto un blocco che un'acquisizione vivente. Risulta da una abdicazione dello storico davanti al documento, da un ingemuo ottimismo nel potere del documento, una volta che la sua autenticità è stata stabilita, di imprigionare la conoscenza storica. In questa evoluzione della scienza storica, l'influenza di Marx fu molto limitata, prima perché il suo bagaglio storico era abbastanza limitato e soprattutto perché la storia nella posterità marxista fu sommersa e completamente pervertita dal marxismo-leninismo. Gramsci ricordò vanamente che nell'espressione materialismo storico la parola importante fosse storico in quanto scientifico e non materialismo in quanto metafisico.

LA DERIVA POSITIVISTA E L'EREDITÀ DEGLI ANNALI

All'inizio del XX secolo i limiti, le derive di questa storia erudita e storicista che si andava chiamando positivista, evenemenziale, storicizzante, suscitarono sempre più critiche e desideri di rinnovamento. Il movimento fu europeo con un'eco negli Stati Uniti. Vi parteciparono soprattutto lo storico belga Henri Pirenne (1862-1935), lo storico-filosofo italiano Benedetto Croce (1896-1952), autore della celebre frase: «Ogni storia è contemporanea» che critica lo storicismo in una prospettiva ad un tempo idealista e marxista e fonda l'Istituto per gli studi storici, affidandolo alla direzione di Federico Chabod, l'olandese Johan Huizinga (1872-1945), il rumeno Nicolae Iorga (1871-1932), la rivista tedesca Zeitschrift fur sozial und wirtschaftsgeschichte, l'Istituto per le ricerche storiche di Londra (1921) e l'Istituto di studi comparativi delle religioni di Oslo (1925). Il suo punto culminante fu la creazione a Parigi da parte di Marc Bloch e Lucien Febvre della rivista Annales d'histoire economique et sociale (1929). Prima di abbozzare un bilancio dell'eredità degli Annali per la storia di oggi sottolineo che la rivolta contro la storia positivista del XIX secolo, gesto capitale, ha avuto per bersaglio essenziale i concetti del documento, dell'avvenimento, del fatto storico come un tutt'uno. Contrariamente all'ingenua credenza degli storici positivisti ci si è resi conto che, secondo la frase di Paul Veyne, “la storia deve essere una lotta contro l'ottica imposta dalle fonti”, e Michel Focault ne “la messa in dubbio del documento” ha definito la storia come ciò che trasforma il documento in monumento cioè invece di decifrare le tracce lasciate dagli uomini la storia dispiega una massa di elementi che si tratta di isolare, di ragguppare, di rendere pertinenti, di mettere in relazione, di costituire in insieme (L'archéologie du savoir, 1969). Più fondamentalmente l'avvenimento, il fatto storico non sono dati dalle fonti allo storico. Sono la sua costruzione. La storia diventa così definitivamente una scienza che, come tutte le scienze, deve creare il suo oggetto. Vengo infine alla situazione attuale della scienza storica. Cosa resta dell'eredità degli Annali? Anzitutto il campo definito dal titolo. La storia economica e sociale. Ma la storia economica è stata svalutata dall'affossamento del marxismo e dall'impotenza dell'economia ad insinuarsi in una problematica storica. L'instaurarsi di un dialogo tra la storia e le scienze sociali è stato limitato dall'indifferenza delle scienze sociali (sociologia, etnologia, antropologia) ai tempi e all'evoluzione storica.
L'orizzonte di una storia totale o globale che non ha niente a che vedere con l'affermazione che tutto è nel tutto e reciprocamente e che non s'è confusa con una storia universale al posto della quale Michel Focault ha suggerito di elaborare una storia generale, tanto che Pierre Toubert e io stesso proponiamo la scelta di oggetti globalizzanti (il Purgatorio, San Luigi). Gli Annali hanno anche messo alla base del percorso la storia-problema, ponendo alla base di una ricerca e di una riflessione storica un problema e non un fatto o un tema. Gli Annali hanno insisitito sullo studio delle strutture ma secondo una prospettiva dinamica che rifiuta uno strutturalismo indifferente ai tempi e che non oppone il collettivo all'individuale. Infine Marc Bloch in particolare ha assegnato alla storia lo studio delle relazioni reciproche tra passato e presente, meglio definito come l'attuale. Chiarire il presente attraverso il passato come pure il passato attraverso il presente è diventato l'oggetto della storia. Nella sua opera e nella sua vita, Marc Bloch ha dimostrato lo stretto legame che unisce lo storico, l'amatore di storia e il cittadino.

LA REALTÀ DEI FATTI E LA LORO ECO NELLA COSCIENZA

Tra il 1950 e il 1980 diversi complementi importanti sono stati portati alla scienza storica nella linea degli Annali. Fernand Braudel ha attirato l'attenzione sulla necessità di situare la riflessione storica nella lunga durata. Io credo che il congegno dei tempi della storia è più complesso e mette in causa una maggiore pluralità di tempi storici. Bisogna tornare a Marc Bloch: «il tempo umano (…) si dimostrerà sempre ribelle all'implacabile uniformità come alle divisioni rigide del tempo dell'orologio. Ha bisogno di misure accordate alla variabilità del suo ritmo e che per limite accettano spesso, perché così vuole la realtà, di non conoscere che zone marginali. È solamente al prezzo di questa plasticità che la storia può sperare di adattare, secondo le parole di Bergson, le sue classificazioni alle linee stesse del reale, che è, propriamente, il fine ultimo di ogni scienza». E aggiungo, una storia che confronterà sempre il tempo misurato al tempo vissuto. Approfondendo il dialogo con l'etnologia, gli storici usciti dagli Annali hanno elaborato una antropologia storica definita come un atto di totalizzazione o piuttosto di messa in relazione dei diversi livelli della realtà prefigurata nella storia dei costumi di Tocqueville. Egualmente questi storici hanno costruito una storia delle mentalità, delle rappresentazioni, dell'immaginario. Ormai la realtà storica è l'unione di due ante: la realtà dei fatti e della loro eco nella coscienza, realtà fattuale e realtà immaginaria. E la storia delle mentalità si duplica di una storia dei valori, delle idee-forza riflesse nelle coscienze e nei comportamenti, una storia intellettuale e delle mentalità che prende il posto della vecchia storia delle idee, la Geistesgeschichte tedesca. Ma non bisogna esagerare la portata della nuova storia delle mentalità, essa non pesa sull'evoluzione storica come una causalità primaria. Molti storici disarcionati dall'affondamento dell'economia come causalità primaria generale sono ripiegati sulle mentalità per tenere il ruolo. È un altro sbaglio. Nel contempo un nuovo campo si è affermato nella storia: la storia culturale utilizzata come causalità storica generale. La spiegazione della storia e dell'evoluzione storica attraverso la cultura è un errore comparabile all'antica causalità economica anche se la nozione di storia culturale fornisce un ponte con l'antropologia e ha permesso di integrare più facilmente realtà umane che l'idea di civilizzazione integrava meno bene.

TRE PUNTUALIZZAZIONI

Malgrado questi arricchimenti la storia espressa dagli Annali ha dato a partire dal 1980 circa sempre più segni di soffocamento, meglio d'esaurimento ed è stata l'oggetto di una convergenza di critiche che le rimproverano di schiacciare gli uomini sotto le strutture, di tendere a una storia immobile e di sacrificare la specificità della storia alle astrazioni delle scienze sociali al di fuori del tempo. Questa crisi della storia degli Annali si inscrive in una più ampia crisi della storia in generale. Discuterne supererebbe largamente il poco tempo che resta. Mi accontenterò di tre puntualizzazioni. Se si intende per crisi la destrutturazione di un sistema e la fase di disordini e turbolenze che, secondo la concezione gramsciana, prepara la costruzione di un nuovo sistema e che è più ricca di promesse e di inviti allo sforzo intellettuale che di scoraggiata contemplazione delle rovine, allora sì, la storia è in crisi ma preferisco parlare di mutamento poiché ciò riguarda l'avvenire mentre il termine crisi è rivolto verso un passato di cui bisogna riconoscere le eredità viventi ma dal quale bisogna sapersi sottrarre per costruire meglio senza nostalgia, con lucidità, critica costruttiva e volontà. Se dico che questa crisi è legata a quella delle scienze sociali nel loro insieme e questa a quella della nostra società e del nostro sapere complessivo non è voler “stancare l'avversario”, ma è definire l'ampiezza del problema e del compito e sottolineare che non si può agire di ritocchi e sotterfugi ma che è tutto un blocco storico e scientifico che si tratta di prendere di petto. Il problema non è sfuggito al comitato di direzione degli Annali che nel numero del marzo-aprile 1988 ha pubblicato un testo intitolato “Storia e scienze sociali: un tornante critico?”. È arrivato il momento, scrivevamo, di rimescolare le carte e abbozzavamo nuovi metodi, citandone due tra gli altri: “Le scale d'analisi” e “la scrittura della storia e nuove alleanze”, in altri termini ripensare e ridefinire una pratica dell'interdisciplinarietà. E concludevamo: «il momento non ci pareva venuto per una crisi della storia di cui alcuni accettano troppo comodamente l'ipotesi. Abbiamo in compenso la convinzione di partecipare a un nuovo giro di carte ancora confuso, che bisogna definire per esercitare domani il mestiere di storico». Ho la sensazione che non siamo ancora usciti da questa fase ma credo che stiamo prendendo meglio coscienza del carattere generale di un mutamento che oltrepassa la storia. Come stupirsene quando si professa una concezione della storia che la pratica in tutto lo spessore e la profondità delle realtà umane? Ho trattato altrove delle vicende che sembrano occultare l'eredità degli Annali, vicende della storia politica, dell'avvenimento della storia-racconto, della biografia e del soggetto. Per finire permettetemi d'enumerare senza sviluppare, non ne ho più il tempo - i principali compiti della ricerca storia - numerosi e maggiori in questi tempi di mutamento delle scienze sociali, della società e del sapere. Allacciare nuove relazioni con le scienze sociali. Auguro il costituirsi di un'antropologia storica raggruppante storia, sociologia e antropologia animate dalla ricerca e la spiegazione del cambiamento delle società nel tempo su tutti i piani. Questa scienza dovrebbe restare in stretto contatto con la geografia perché una delle linee di rinnovamento della storia si dovrà realizzare attraverso ricerche sui tempi, gli spazi e le loro dinamiche. La storia deve ritrovare un oggetto sintetico e spezzare la catastrofica frammentazione in storia politica, sociale, economica, culturale, storia dell'arte, del diritto, eccetera. La semantica storica, chiarendo i termini e i concetti, al di là di una filologia inerte, in una prospettiva di trasformazione e di creazione, deve permettere una rilettura ripulita dei documenti. Lo studio delle fonti deve continuare a farsi al di là dei testi trasformando in documenti di storia le immagini, i risultati dell'archeologia, le gesta, i paesaggi eccetera. Bisognerà un giorno pensare a tappare i buchi, le lacune della documentazione e a costruire una storia dei silenzi. Questo compito implica una rigenerazione completa delle scienze ausiliarie e una esplorazione della produzione storica della memoria. La scienza storica deve appropriarsi e adattarsi ai nuovi strumenti informatici apportatori di scoperte e di conquiste. La storia deve prendere ormai insieme le serie di fatti e di rappresentazioni. La storia è fatta tanto di immaginario che di realtà positive. La storia comparata augurata da Marc Bloch deve svilupparsi in una prospettiva di storia generale. Per questo deve disoccidentalizzarsi e creare strutture attente alle storie latenti o altre. La storia deve più che mai avere per oggetto gli uomini e la vita, integralmente ma secondo approcci razionali e critici. La storia recente ha lanciato la memoria all'assalto della storia. La storia dovrà continuare a nutrirsi di memoria, produttrice di vita, ma separare la buona memoria appassionata di verità dalla cattiva, corrotta dalle passioni aggressive e corrotte, soprattutto nazionaliste. È necessario che la storia cessi di essere ciò che Hegel chiamava un fardello per realizzare la funzione di mezzo di liberazione del passato che gli assegna Girolamo Arnaldi. Essa dovrà cercare di mordere razionalmente sull'avvenire, compito che le impone lo scacco della futurologia e lo scatenamento delle elucubrazioni divinatorie vecchie e nuove per prolungare prudentemente la padronanza dei tempi al di là del passato e del presente e per cercare di rispondere più pienamente alla domanda: «A che serve la storia?». A rispondere razionalmente all'interrogativo: «Chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?».
Compito immenso, esaltante. Torno all'inizio. La scienza storica è in fasce. Grandi speranze le sono concesse. Al lavoro! E come lavorare meglio che in questa città che possiede l'esperienza di grandi rinnovamenti, di grandi rifondazioni dall'antichità al cristianesimo e ai diversi rinascimenti?

Testo scritto in occasione del conferimento della laurea honoris causa dal dipartimento di storia moderna e contemporanea della Sapienza di Roma. Nostra traduzione dall'originale in francese pubblicato su: Dimensioni e problemi della ricerca storica, 2/2000

 L'ultima intervista a Repubblica

lunedì 31 marzo 2014

Francia, la delusione di un sogno

David Bidussa
Francia: un’angoscia comune
Linkiesta, 31 marzo 2014
 

Le reazioni al voto delle municipali francesi avvenute domenica scorsa non si sono fatte attendere.

Sostanzialmente le opinioni a confronto sono due: da una parte chi ritiene che quello di domenica scorsa sia un voto di protesta, e dunque un’uscita temporanea dalla casa madre; dall’altra chi ritiene, invece, che esso rappresenti l’ultima, per ora, tappa di un processo di lenta trasformazione e dunque abbia, o almeno alluda a, un aspetto più profondo. Personalmente sono più vicino ai secondi.

Certo si può dire che oggi il campo degli euroscettici è in crescita, e di sicuro una delle ragioni del successo del Front National (d’ora in poi FN) va ricercata sotto questo aspetto. Ma poi quel risultato ha un riscontro anche con la storia della Francia in età contemporanea, con la memoria di una Provincia che ha sempre guardato da lontano e spesso con rancore a Parigi (intendendo con queste due figure da una parte l’immagine della Francia autentica e nella seconda quella di una realtà in cui il dato essenziale era la presenza degli stranieri, dei “non francesi”). È la Francia del popolo variegato che riempie i racconti di Simenon, delle inchieste di Maigret, una Francia che attraverso il delitto di cronaca, a saperla leggere, racconta di sé moltissimo. Per capire dunque lo stato d’animo profondo, inquieto, risentito, a mio parere dobbiamo abbandonare una lettura che nasce dal contingente, dalle difficoltà in corso e scavare più a fondo, andando a indagare il “ventre profondo” di Francia.

Hervé Le Bras, demografo attento ai comportamenti, ed Emmanuel Todd, un antropologo che studia la trasformazione dei sentimenti e la loro interpretazione, hanno pubblicato a metà del 2013 un libro ricco di dati e di riflessioni su quella che è una crisi di lungo periodo della Francia attuale, dal titolo Le mystère français (Seuil). Su quel libro ho già scritto sul "Sole 24 ore" (quel testo è stato ospitato da Doppiozero con il titolo La Francia senza identità e non vi ritorno qui. Se non per riepilogare alcuni dati.

municipalei francesi 2014

In sintesi: la Francia degli ultimi venti anni registra un abbassamento verticale del PNL; aumenta la quota degli scolarizzati ma senza che questo indichi un avanzamento sociale; arretra il tasso di integrazione nelle grandi aree urbane; si mantiene uno spirito di villaggio nella “provincia”.

Un dato che esprime la rivincita del villaggio sulla città; dello spirito comunitarista su quello liberale e individualista. Diversamente si potrebbe dire: la famiglia-ceppo torna a prevalere su quella mononucleare.
La crisi sociale della Francia è prima di tutto crisi dei percorsi emancipativi individuali, fondati sul rifiuto della tradizione, propri delle rivolte giovanili degli ultimi cinquant’anni. Sentimenti che significano ricerca della “Vecchia Francia”.

Il FN vince perché è avvertito come espressione autentica della storia di Francia. Un aspetto che richiama il mito della Francia di Vichy, anch’esso fondato sul riscatto della tradizione e sul primato della provincia contro la città industriale. Una realtà in cui l’insediamento agrario e la divisione del campo per appezzamenti come ha rilevato Marc Bloch in uno studio classico (I caratteri originari della storia rurale francese, Einaudi 1973, ed. or. 1931), esigono una “grande coesione sociale, una mentalità comunitaria”.

Ma questa coesione è messa in discussione da almeno trent’anni.
Era il 3 dicembre 1983 quando a Parigi 100.000 figli d’immigrati (in gran parte algerini) partecipano alla “marcia per l’eguaglianza e contro il razzismo”. Quella marcia era la richiesta di esserci, di esistere e di integrarsi in una società che ancora stentava a riconoscerli.

La risposta di una parte della società francese di fronte alla possibilità dell’integrazione, alle politiche integrative avviate con la prima esperienza Mitterrand, fu la nascita del Front national di Jean-Marie Le Pen. La controreplica nel corso degli anni ’90 è stata la progressiva rivendicazione di un orgoglio delle origini che ha trasformato profondamente le periferie francesi e ne ha innalzato le conflittualità: quella degli integrati sociali, contro i marginalizzati; quella dell'occupazione a bassa professionalità contro la disoccupazione; quella della selezione scolastica per ceti; quella del maggior successo nella scuola delle ragazze nei confronti dei ragazzi. Soprattutto la fine del desiderio di integrarsi. Oggi la loro condizione è di essere al massimo francesi sulla carta (“Français de papier”) mentre cresce la nostalgia dell’origine. L’identità non è al futuro, è al passato. È il capostipite a tornare protagonista nell’identità di una società sempre più divisa e soprattutto distante. “Francesi di ceppo”, “Français de souche”, secondo il linguaggio di Le Pen. Fine del sogno di essere “Français comme les autres”, da parte dei nipoti degli immigrati.

I margini per un recupero del sogno del 1983 sono oggi molto stretti. Non solo perché l’opinione pubblica dei francesi di ceppo non sembra orientata in quella direzione, ma forse anche perché quegli altri l'integrazione non la chiedono più. E non la chiedono non solo, o non tanto, perché è una richiesta inutile, ma perché esiste un orgoglio di comunità, di origine, che è forte anche dentro e comunque fa ritenere che impegnarsi per integrarsi sia tempo perso.

Ma quest’aspetto ne implica un altro, anch’esso di natura strutturale, su cui non è improprio riflettere.
Venti anni fa, nel 1995, un rapporto sulla condizione minorile nelle periferie francesi evidenziava molti malesseri della società nel suo complesso.

In quel rapporto si metteva in guardia anche da un doppio fenomeno conseguente alla condizione d’incertezza: insorgenza dell’islamizzazione delle periferie; crescita del fenomeno lepenista. Nelle periferie del terzo anello contigue a quei quartieri cresceva la solitudine dei “beurs”, cioè dei nipoti della grande ondata maghrebina degli anni ’50 che non vedevano un futuro davanti a loro. Nei quartieri operai, un tempo roccaforti tradizionali della sinistra, il voto operaio già allora iniziava a rivolgersi verso Jean-Marie Le Pen. È la silhouette del malessere europeo postindustriale.

È significativo cosa risponde un operaio sindacalizzato a proposito della sua scelta di vita (siamo nel 2011, ovvero prima delle elezioni presidenziali che nel 2012 portano François Hollande all’Eliseo, questo per dire che chi oggi crede che la causa di tutto sia il grigio presidente attuale dice una cosa vera, ma non dice tutto, e soprattutto scarica su una sola persona un sintomo molto più profondo): “Votare FN è votare per il posto di lavoro. Votare socialista o UMP è votare per i padroni. Votare all’estrema sinistra significa difendere il lavoro degli immigrati. Io voto l’estrema destra” (Citato in Michel Wieviorka, Le Front National, Emsh, Paris 2013, p. 40).

Hollande, municipali 2014

Dagli anni ’80 e, soprattutto, nel corso degli anni ’90, la risposta messa in atto nella realtà francese è stata da una parte l’apertura di una campagna volta genericamente a una riaffermazione della lotta al razzismo e alle intolleranze, dall’altra la presentazione di un modello di crescita sociale e di emancipazione, comunque di benessere, che si prometteva “per tutti”, ma poi non aveva le coperture per garantirlo. Fine dello sviluppo e crisi del sistema di protezione sociale, dello Stato-provvidenza, sono i due segni di questa crisi.

Per poter rispondere a quella crisi si trattava di andare oltre la campagna sulle condizioni generali e affrontare le questioni specifiche, scomporre i dati generali del malessere, mettere in atto una politica concreta in grado di affrontare i percorsi specifici e personali del disagio. Più precisamente: da una parte constatare e considerare il dato che il razzismo oggi sia un fenomeno multifattoriale, ovvero plurale, basato su motivazioni locali, sociali, nazionali e globali; dall’altro considerare proprio in relazione a questa pluralità le risposte da attivare.

Ciò che era già evidente allora e che ora credo sia manifesto platealmente è la delusione di un sogno emancipativo che molti pensano che non sia per loro. Con quella delusione, ciò che si mette a nudo è anche la crisi di una repubblica inquieta e tormentata intorno ai suoi fondamenti. Tra questi particolarmente rilevante è la dimensione della laicità. Anche se difficilmente da questa crisi si uscirà riscoprendo l’esaltazione del vincolo sociale del religioso, ovvero delle strutture di tutela e di “carità” o di assistenza, è certo che oggi la Repubblica laica deve ripensare il suo stesso modello ideale, a partire da quella legge che circa nel 1905 sanciva la separazione tra sfera del religioso e sfera pubblica.

Da tempo lo “stato di salute” della laicità costituisce il tema all’ordine del giorno. La questione è, preliminarmente, se la strada intrapresa due anni fa con i lavori della Commissione Stasi – il cui primo effetto è stato la legge che interdice l’ostentazione dei simboli di appartenenza di fede nei luoghi pubblici e soprattutto nella scuola – rappresenti un percorso condiviso e se quell’agenda debba essere ripensata.
Qui si misura la domanda all’Europa come ipotesi politica, ma anche la crisi evidenziata dalle risposte arrivate da un ventennio su questo versante. Per questo se all’inizio l’Europa era una scommessa oggi a molti appare un incubo, comunque una realtà da cui fuggire a gambe levate.

Dunque per riepilogare.

Il voto al FN esprime sia un sentimento locale sia una condizione collettiva.
Quel voto denuncia l’angoscia delle periferie terrorizzate dall’eventualità che il legame sociale della comunità si spezzi, attraversate dalle paure di ciò che può arrivare da “fuori”. La sua geografia è collocata nell’estremo Est della Francia e nella zona mediterranea sud; ha una barriera di contenimento nella Francia occidentale, che il FN conquista solo al primo turno delle presidenziali del 2012. Nella stessa occasione il FN conquista il voto operaio nelle roccaforti comuniste di un tempo – Alta Normandia, Pas de Calais, Picardia – con percentuali intorno al 40% (27% su tutto il territorio nazionale).

Non solo. Quel voto esprime anche: preoccupazione per la perdita di competitività internazionale; percezione del crollo della propria “potenza”; timore del “declassamento”. Sentimenti che agiscono sulle convinzioni, più che sulla realtà. Infatti: lo stato sociale ancora funziona e la capacità d’innovazione culturale è tuttora rilevante. Ma non basta: ciò che manca è un’idea di futuro. Una condizione che, peraltro, si rispecchia nella crisi di progetto dell’UE, un dato che non è solo francese.

Per questo la crisi odierna della Francia parla alle altre democrazie europee e le interroga riguardo al deficit di progetto di cui anch’esse soffrono. In questo senso non è un voto di protesta, ma un segnalatore d’incendio che agisce nel profondo e parla anche a noi, alle nostre incertezze e, soprattutto al nostro malessere.