Marianna Rizzini
Ciao democrazia diretta. Il caso sardo e il ripudio grillino dello sfogatoio web
Il Foglio, 8 gennaio 2013
In principio fu l’assemblea. Come quella del liceo,
come quella di un film di Nanni Moretti: l’assemblea come idolo. Ma ora
anche i Cinque Stelle, che all’assemblea perenne avevano eretto un
altare simbolico, si stanno accorgendo che il cosiddetto “problema di
metodo” è di merito: la democrazia diretta non può essere così
minuziosamente diretta, pena l’inconcludenza (e, più che altro,
l’irrilevanza). Capita infatti che in Sardegna Beppe Grillo –
padre-padrone, sì, ma dal suo punto di vista per fortuna – salvi gli
attivisti da se stessi, negando alle fazioni litiganti l’uso del simbolo
per le regionali, nonostante i risultati delle politiche (Cinque Stelle
primo partito nell’isola).
E capita che, sempre in Sardegna, la deputata di M5s
Emanuela Corda dica parole che mesi fa sarebbero state infilzate dai
compagni parlamentari in streaming: “…Avrei voluto abbandonare il
tavolo. Temo che alcuni abbiano scambiato il Movimento per uno sfogatoio
dove poter fare il proprio comodo, senza curarsi del fatto che, in
certi contesti, occorra rispettare delle elementari regole di buona
educazione… ‘Uno vale uno’ non significa che chiunque possa irrompere in
un’assemblea e metterla a soqquadro. Non significa che ‘uno vale
l’altro’ e che chi urla di più ha infine ragione”. E’ il re nudo, un
tempo neppure guardabile dai neoparlamentari grillini (pena la crisi
prematura d’identità). Ma è soprattutto l’ultima pietra lungo la via
della disillusione: dalla democrazia diretta, dalla democrazia del Web,
dall’idea che il Web che vomita qualsiasi suggestione epidermica sia
panacea e rigenerazione. Visti poi i recenti incidenti da malaugurio
twitteriano d’ogni provenienza (contro Pier Luigi Bersani in ospedale e
contro la studentessa malata, viva grazie a esperimenti su animali) una
parte dei Cinque Stelle eletti si è detta: ma questo è troppo. Troppo
anche per un Web ideale da pianeta Gaia (quello di Gianroberto
Casaleggio).
“Non siamo pronti… c’è troppo livore, troppa
incoscienza, troppo protagonismo nell’esternare ai quattro venti un
malessere che è figlio primariamente delle nostre debolezze”, ha detto
Emanuela Corda, e a questo punto ci si chiede che cosa l’abbia finora
trattenuta dal denunciare una realtà lampante fin dal primo giorno di
permanenza dei Cinque Stelle sulla ribalta nazionale, e dal trarne le
conseguenze: la maleducazione è acuita proprio dal fatto di sentirsi
legittimati dall’esistenza teorica della democrazia diretta (“uno vale
uno” dunque io comando come te e comunque non comandi tu). Lo specchio,
agli occhi di molti eletti, quotidianamente alle prese con le orde di
“fan” anche insultanti sui social network, non rimanda più l’immagine
dei cittadini candidi, migliori di chiunque possa lontanamente essere
accomunato per status o pensiero alla fantomatica “casta”. Ma lo
specchio, agli occhi degli attivisti, rimanda l’immagine di uno spreco:
ma come, dite no a qualsiasi accordo sulla legge lettorale? Ma come, non
vi presentate dove eravate primo partito? E infatti ieri, sul Web, era
profluvio di critiche contro i parlamentari a Cinque Stelle sardi, rei,
per la base, di mancata “consultazione” e “compattazione” dei gruppi
locali (commento più gentile: “Dalle stelle alle stalle”).
Ed è il pavimento che va in pezzi sotto ai piedi, per chi,
emerso dal web grazie a un clic, si ritrova perennemente inchiodato da
un clic (ne sa qualcosa l’ex grillino poi espulso Antonio
Venturino, bersaglio, su Facebook, degli indignati della pizza: se un
eletto proprio deve mangiarla, la pizza, che almeno sia margherita, ché
la capricciosa costa troppo). Grillo ha tolto il simbolo e basta
(“partecipare non è obbligatorio”, ha detto ieri), ma il fatto scatena
dietrologie. “E’ una mossa per non perdere in vista delle Europee”,
dicevano ieri, smentiti dai vertici a Cinque Stelle che annunciano liste
in Abruzzo, gli osservatori anche benevoli che continuano a vedere in
Grillo un pensoso stratega politico (peccato che Grillo continui a
restare prima di tutto un attore).
mercoledì 8 gennaio 2014
lunedì 6 gennaio 2014
Sergio Rizzo, Roma
Sergio Rizzo
Roma, deficit a quota un miliardo
Il peccato capitale di una città in dissesto
La città? Ha più dipendenti della Fiat
Assunzioni record per Atac, Ama e Acea: 31 mila occupati
Corriere della Sera, 6 gennaio 2014
È dura da credere. Ma c’è un farmacista, in Italia, che vendendo le medicine riesce perfino a rimetterci una barca di soldi. Si tratta del Comune di Roma. Le farmacie comunali hanno 362 dipendenti e il Campidoglio ha già tirato fuori 15 milioni per tappare i buchi pregressi. Ma per rimetterle in sesto ce ne vorranno altri 20. Dice tutto la verifica affidata alla Ernst & Young che si è resa necessaria per comprendere la reale situazione. Gli esperti hanno scoperto uno scostamento di 7,3 milioni nell’attivo rispetto ai dati scritti nel bilancio 2011. Quasi tre milioni solo la differenza fra le «rimanenze di magazzino» contabilizzate e quelle accertate: 9,1 milioni contro 6,2. Sono cifre rivelate da un dossier che il consigliere comunale radicale Riccardo Magi sta per pubblicare sul sito internet Opencampidoglio.it. Il primo di una serie di fascicoli scottanti dedicati allo scenario impressionante delle municipalizzate romane.
Ventisei società, più una marea di controllate: oltre cinquanta quelle di Acea (energia e acqua), Ama (rifiuti) e Atac (trasporti). Tre gruppi che da soli hanno qualcosa come 31.338 dipendenti, ovvero l’85 per cento del personale di tutte le partecipate comunali, che si aggira intorno alle 37 mila unità. Circa diecimila in più rispetto ai 26.800 dipendenti degli stabilimenti Fiat in Italia. Senza contare i 25 mila dipendenti diretti dell’amministrazione comunale.
Sostengono i tecnici che Roma Capitale ha un disavanzo strutturale di circa 1,2 miliardi l’anno. Ed è proprio sulla galassia delle società comunali che gravano le responsabilità maggiori di una situazione, in assenza di interventi, ai limiti del dissesto. L’Atac, per esempio. Con un numero di stipendi paragonabile a quello dell’Alitalia ha accumulato in dieci anni perdite per 1,6 miliardi. Negli ultimi cinque anni si sono avvicendati al suo vertice ben quattro amministratori delegati e un numero imprecisato di presidenti e consiglieri, senza riuscire a rimetterla in carreggiata. Il contratto di servizio costa al Comune una cifra che si aggira intorno ai 400 milioni l’anno, ma per il 2014 la richiesta era di oltre 500.
La verità è che queste aziende, e non è certo una particolarità di Roma, sono state spesso interpretate dalla politica, anche con pesanti complicità sindacali, alla stregua di poltronifici o gigantesche macchine clientelari, piuttosto che strumenti per fornire servizi essenziali alla città da gestire oculatamente. Salvo poi trovarsi di fronte a sorpresine al pari di quella spuntata nell’ultimo bilancio dell’Ama, che dà notizia di una raffica di arbitrati innescati dalla società titolare della discarica di Malagrotta. Alcuni dei quali già conclusi nel 2012 in primo grado con la condanna dell’azienda pubblica a pagare alla ditta che fa capo a Manlio Cerroni, tenetevi forte, la bellezza di 78,3 milioni di euro. Ma leggere l’elenco delle controversie in cui è incappata la municipalizzata dei rifiuti, indebitata con le banche per 670 milioni, somma paragonabile ai ricavi di un anno, e capace di assumere 1.518 persone fra il 2008 e il 2010, strappa anche qualche amaro sorriso: quando salta fuori che fra le innumerevoli cause in cui è protagonista l’Ama ce n’è persino una con l’Atac. Che va avanti da almeno sette anni, fra sentenze ricorsi e controricorsi, per la gioia degli avvocati. E chissà quanto durerà ancora.
Il tempo del presidente Piergiorgio Benvenuti, esponente di Fratelli d’Italia, scade invece giovedì 9 gennaio, quando l’assemblea dovrà nominare il suo successore: incrociamo le dita. Al contrario il presidente dell’Acea Giancarlo Cremonesi, nominato dal centrodestra, seduto su una dozzina di poltrone metà delle quali pubbliche nonché socio di un gruppo di imprese edili e immobiliari, è in una botte di ferro. Questo perché in piena campagna elettorale la precedente amministrazione comunale procedette elegantemente al rinnovo dei vertici, confermando in blocco tutto il consiglio.
Con clausole tali che la sostituzione prematura comporterebbe comunque il pagamento dei loro emolumenti fino all’aprile 2016. E che emolumenti. Al presidente Cremonesi, 408 mila euro l’anno. All’amministratore delegato e direttore generale Paolo Gallo, un milione 318 mila euro più un appartamento da 4.300 euro al mese ai Parioli e automobile adeguata. Agli altri sette consiglieri, una media di 120 mila euro ciascuno. Chi sono? Due rappresentanti del socio francese Gdf, una dirigente del Comune, l’ex parlamentare del Pdl ed ex assessore della giunta Alemanno Maurizio Leo, Francesco Caltagirone junior, il consorte dell’ex Guardasigilli Paola Severino nonché ex commissario Consob (l’Acea è quotata in Borsa) Paolo Di Benedetto, e il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy.
Da una società del genere sarebbe naturale attendersi utili a palate. Invece nel 2012 i profitti netti sono stati di appena 77 milioni e anche se nei primi nove mesi del 2013 hanno superato i 100, restano striminziti. Certi fatti, del resto, parlano da soli. Negli ultimi cinque anni i debiti sono cresciuti di circa un miliardo, toccando 2 miliardi e mezzo. Ed è di qualche mese fa la scelta di fondere due società energetiche del gruppo, una delle quali (Acea energia spa) ha accumulato in 18 mesi perdite per 56 milioni.
Ma tutto va avanti come nulla fosse. Almeno se è vero che l’ufficio del personale diretto da Paolo Zangrillo, incidentalmente fratello del medico personale di Silvio Berlusconi, ha proceduto qualche giorno fa all’assunzione di un nuovo capo della comunicazione nella persona di Stefano Porro, ex capoufficio stampa del ministro dello Sviluppo dell’ultimo governo del Cavaliere, Paolo Romani, Passera e Zanonato. Accade mentre è da un mese senza incarico il vecchio responsabile Maurizio Sandri, licenziato due anni fa dopo essere stato parcheggiato a lungo su un binario morto per ragioni politiche (aveva collaborato in passato con amministrazioni di centrosinistra), e reintegrato all’inizio di dicembre dal giudice del lavoro. E accade in una struttura, quella delle relazioni esterne, dove sono in 25. Compreso il capo ufficio stampa Salvo Buzzanca, incidentalmente fratello minore dell’attore Lando Buzzanca nonché, ha ricordato Ferruccio Sansa sul Fatto Quotidiano, zio di Massimiliano Buzzanca: figlio di Lando e compagno di Serena Dell’Aira, collaboratrice di Cremonesi.
domenica 5 gennaio 2014
Rossanda, venti interviste
Tommaso di Francesco
Rossana Rossanda, una stagione grande e aperta
il manifesto, 4 dicembre 2013
La forma dell’intervista è una complicità «fra due che si parlano»: così Rossana Rossanda introduce il suo libro «Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento» (Einaudi, pp 243 euro 17,50). Venti intervistati, tutti uomini perché, sottolinea l’autrice, questa è la storia della politica che ha escluso le donne. Non un «come eravamo» ma un monito: a pensare. E in grande, riproponendo i non conclusi temi del «secolo breve» che, già nel primo decennio del nuovo secolo mostrano la loro cogente attualità e urgenza. Aggregato per temi piuttosto che cronologicamente — le interviste, uscite su il manifesto quotidiano comunista tranne quella a Sartre pubblicata nel settembre 1969 sul Manifesto rivista, vanno dal 1965 al 1998.
Per Rossana Rossanda il nodo della crisi delle società del capitalismo maturo è ancora all’ordine del giorno in epoca globale, non bisogna abbandonare il campo della riflessione sull’89 (sul tramonto dei socialismi realizzati nell’est europeo), ma anche sulla caduta dei compromessi socialdemocratici. In buona sostanza torna d’attualità la domanda sul comunismo. Con nuovi strumenti critici a sinistra, sapendo che «con il volgere del secolo, di sinistra, anche della più moderata, non rimane nulla», arresa com’è al liberismo. E mantenendo aperta la porta ai paradigmi culturali affatto diversi dal movimento operaio tradizionale: il femminismo e le questioni di genere e le correnti ecologiste relative ai limiti dello sviluppo — qui l’intervista a Ignacy Sacs è illuminante.
Il filosofo marxista ungherese è per Rossanda «la mia gente»; non lo era proprio il mostro sacro del comunismo francese e della poesia transalpina, Louis Aragon, protagonista dell’incontro più sgradevole del libro e insieme più ironico. Dove si pavoneggia l’intellettuale nazionale, «uomo bellissimo», vanitoso dei suoi versi, ricco per meriti di partito dal quale «prese tutto senza dare nulla», che vive nell’agio nel cuore della Parigi ricca. Esponente di quel Pcf diventato alla fine nemico giurato del nuovo e dei movimenti emersi nel ’68 e che, nell’intervista, non perde occasione di sferzare il «fratello minore Pci». L’intervistatrice non ne può più e, mentre Aragon si parla addosso, lei tenta di uscire dalla sala dell’incontro, ma quello la riacciuffa con la sua sicumera. Quando alla fine riuscirà a guadagnare la strada, Rossana sarò così frastornata da cadere per terra ai primi passi tra le foglie bagnate, sopraffatta dal tanto peso di sé di un essere umano. Chiedendosi: «Che comunismo era il suo?”
La seconda ad Althusser, Il punto di cieco di Marx, la questione dello Stato, è dell’aprile 1978 e prende spunto dalle sue affermazioni fatte al convegno del Manifesto di Venezia (novembre 1977) sull’inesistenza in Marx di una teoria dello Stato. Qui insiste sul comunismo «come tendenza e realtà interstiziale» al capitalismo in crisi, come sulla necessità di non rendere «vaga» la percezione di questa tendenza, di dirlo insomma il comunismo nei suoi obiettivi programmatici. Materialisticamente e non idealisticamente come fosse una evocazione «feticista». Ma l’equivoco più grande è lo Stato, al quale tutto, società politica, partito e sindacato — perdendo così la loro natura di classe -, si riduce. E non ci sono dissimulazioni sulla presunta novità dello «Stato allargato»: «Lo Stato è sempre stato allargato». Nell’introduzione l’autrice parla della sua imperitura amicizia con Althusser e con la moglie Hélène Rytman, fino alla prova estrema: «Le circostanze mi portarono a essere vicina a loro due nei giorni in cui egli la uccise; resto persuasa che non volesse affatto la sua morte, ma non fosse in grado di ascoltare quel che lei pensava di avere scoperto proprio allora sull’origine della sua malattia e aveva imprudentemente deciso di dirgli».
Ecco la luce affettiva della speranza. Quella del militante sessantottino Etienne Grumbach, cuore pulsante delle agitazioni operaie alla Renault di Flins, che non dismette mai l’impegno del suo «pessimismo attivo». Così come speranza e passione traspaiono dagli incontri di due massimi analisti delle crisi internazionali, Maxime Rodinson del Medio Oriente e Paul Sweezy degli Stati Uniti.
Così, un brivido si prova alle parole del presidente cileno Salvador Allende che Rossana incontra nel ’71 nel palazzo della Moneda. Si avverte la sua solitudine, lo sforzo immane, l’equilibrio difficile per sostenere il «cambiamento socialista». E la sua tragica e malriposta fiducia nella lealtà dei militari. Mentre se la prende con il nipote del Mir che, attaccando l’esercito, «gioca col fuoco». Perché «…qui se l’esercito esce dalla legalità è la guerra civile. È l’Indonesia. Credete che gli operai si lasceranno togliere le industrie? E i contadini le terre? Ci saranno centomila morti, sarà un bagno di sangue». Sappiamo com’è andata.
Stessa emozione per l’incontro a Lisbona con il maggiore Ernesto de Melo Antunes, leader della rivoluzione dei garofani, nel disadorno palazzo del parlamento di San Bento. «Quel che oggi possiamo fare è cambiare il modo in cui finora si è pensato lo sviluppo, e cioè sempre e solo in termini di accelerazione di produzione e investimenti. Noi preferiamo parlare di una via socializzante…». Era il gennaio del 1975. Noi, al seguito, assistevamo ai seminari di Rossana Rossanda al Centro Gubelkian, il dopolavoro dello stato maggiore portoghese, sui processi di transizione. A segnora — così la chiamavano — parlava appassionata e fuori montavano la guardia giovanissimi cheguevara barbuti, soldati in mimetica e mitraglia in spalla, appena rientrati dall’Angola e dal Mozambico. Quanto poteva durare? E non durò. Non capimmo, anche per l’enfasi retorica dei tanti arrivati da tutta Europa a «dirigere» con presuntuose certezze la rivoluzione che, al contrario, chiedeva, come faceva Rossana, di interrogarsi insieme a noi. Che le sconfitte alla fine — e vale anche per noi, adesso — non siano il terreno più fertile da seminare?
Rossana Rossanda, una stagione grande e aperta
il manifesto, 4 dicembre 2013
La forma dell’intervista è una complicità «fra due che si parlano»: così Rossana Rossanda introduce il suo libro «Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento» (Einaudi, pp 243 euro 17,50). Venti intervistati, tutti uomini perché, sottolinea l’autrice, questa è la storia della politica che ha escluso le donne. Non un «come eravamo» ma un monito: a pensare. E in grande, riproponendo i non conclusi temi del «secolo breve» che, già nel primo decennio del nuovo secolo mostrano la loro cogente attualità e urgenza. Aggregato per temi piuttosto che cronologicamente — le interviste, uscite su il manifesto quotidiano comunista tranne quella a Sartre pubblicata nel settembre 1969 sul Manifesto rivista, vanno dal 1965 al 1998.
Per Rossana Rossanda il nodo della crisi delle società del capitalismo maturo è ancora all’ordine del giorno in epoca globale, non bisogna abbandonare il campo della riflessione sull’89 (sul tramonto dei socialismi realizzati nell’est europeo), ma anche sulla caduta dei compromessi socialdemocratici. In buona sostanza torna d’attualità la domanda sul comunismo. Con nuovi strumenti critici a sinistra, sapendo che «con il volgere del secolo, di sinistra, anche della più moderata, non rimane nulla», arresa com’è al liberismo. E mantenendo aperta la porta ai paradigmi culturali affatto diversi dal movimento operaio tradizionale: il femminismo e le questioni di genere e le correnti ecologiste relative ai limiti dello sviluppo — qui l’intervista a Ignacy Sacs è illuminante.
Una fondamentale «ontologia»
Con György Lukacs — questa prima intervista non è della «comunista eretica e sessantottina tardiva» ma dall’ancora esponente del comitato centrale del Pci — si parla di letteratura, ma è un espediente. In realtà al centro ci sono l’ombra del XX Congresso, la tragedia ungherese del ’56, i limiti della pianificazione derivata dall’Urss e la critica alle categorie della psicanalisi e dell’esistenzialismo intese come possibili «integratori» del marxismo. Si può già individuare un punto centrale da cui ripartire? Chiede Rossana Rossanda. «Marx ha cominciato dall’analisi della struttura e anche noi dobbiamo ripartire da qui — risponde Lukacs, rivelando che in quel periodo sta scrivendo la sua opera fondamentale Ontologia dell’essere sociale — occorre una teoria valida della riproduzione in un sistema socialista…Le nostre pianificazioni sono fallite perché nel periodo staliniano è stata cancellata dalla teoria la dialettica tra valore di cambio e valore d’uso, annullando con ciò di fatto la possibilità stessa di una teoria della riproduzione…».Il filosofo marxista ungherese è per Rossanda «la mia gente»; non lo era proprio il mostro sacro del comunismo francese e della poesia transalpina, Louis Aragon, protagonista dell’incontro più sgradevole del libro e insieme più ironico. Dove si pavoneggia l’intellettuale nazionale, «uomo bellissimo», vanitoso dei suoi versi, ricco per meriti di partito dal quale «prese tutto senza dare nulla», che vive nell’agio nel cuore della Parigi ricca. Esponente di quel Pcf diventato alla fine nemico giurato del nuovo e dei movimenti emersi nel ’68 e che, nell’intervista, non perde occasione di sferzare il «fratello minore Pci». L’intervistatrice non ne può più e, mentre Aragon si parla addosso, lei tenta di uscire dalla sala dell’incontro, ma quello la riacciuffa con la sua sicumera. Quando alla fine riuscirà a guadagnare la strada, Rossana sarò così frastornata da cadere per terra ai primi passi tra le foglie bagnate, sopraffatta dal tanto peso di sé di un essere umano. Chiedendosi: «Che comunismo era il suo?”
Inconciliabilità e punti ciechi
Punti focali del libro le interviste a Jean-Paul Sartre e a Louis Althusser. La prima, Partiti e movimenti due realtà inconciliabili, del settembre ’69, realizzata nell’imminente radiazione del gruppo del Manifesto dal Pci, anticipa l’elaborazione che sul Manifesto rivista la stessa Rossanda fece con il titolo Da Marx a Marx, sui limiti della forma partito e sulla necessità di un nuovo, centrale ruolo, e insieme qualità, dei movimenti di massa. Con l’elaborazione di quella che si chiamò «strategia consiliare». A rileggerla traspare come una profezia sull’universo informatico-telematico dei nostri giorni. Perché Sartre, nel rendere evidente l’elemento vincente del partito rispetto ai soli gruppi informali, li chiama «in fusione», riconoscendone però la loro immediatezza e rappresentanza diretta: come non pensare allo status delle nuove mobilitazione politiche e gruppi nati e codificati su web? Con la loro consumabilità momentanea e caducità temporanea, senza una memoria lunga che, pur non essendo necessariamente del «partito», non sia tuttavia solo seriale ma duratura e superiore alla rappresentanza politica che non c’è più.La seconda ad Althusser, Il punto di cieco di Marx, la questione dello Stato, è dell’aprile 1978 e prende spunto dalle sue affermazioni fatte al convegno del Manifesto di Venezia (novembre 1977) sull’inesistenza in Marx di una teoria dello Stato. Qui insiste sul comunismo «come tendenza e realtà interstiziale» al capitalismo in crisi, come sulla necessità di non rendere «vaga» la percezione di questa tendenza, di dirlo insomma il comunismo nei suoi obiettivi programmatici. Materialisticamente e non idealisticamente come fosse una evocazione «feticista». Ma l’equivoco più grande è lo Stato, al quale tutto, società politica, partito e sindacato — perdendo così la loro natura di classe -, si riduce. E non ci sono dissimulazioni sulla presunta novità dello «Stato allargato»: «Lo Stato è sempre stato allargato». Nell’introduzione l’autrice parla della sua imperitura amicizia con Althusser e con la moglie Hélène Rytman, fino alla prova estrema: «Le circostanze mi portarono a essere vicina a loro due nei giorni in cui egli la uccise; resto persuasa che non volesse affatto la sua morte, ma non fosse in grado di ascoltare quel che lei pensava di avere scoperto proprio allora sull’origine della sua malattia e aveva imprudentemente deciso di dirgli».
Ecco la luce affettiva della speranza. Quella del militante sessantottino Etienne Grumbach, cuore pulsante delle agitazioni operaie alla Renault di Flins, che non dismette mai l’impegno del suo «pessimismo attivo». Così come speranza e passione traspaiono dagli incontri di due massimi analisti delle crisi internazionali, Maxime Rodinson del Medio Oriente e Paul Sweezy degli Stati Uniti.
Le crisi attraversate e infinite
L’intervista a Rodinson è del 5 agosto 1982, pochi giorni prima del massacro a Beirut di Sabra e Chatila. Egli non avverte che la negazione di una soluzione, anzi la cancellazione da parte dell’Occidente e di Israele della crisi di tutte le crisi, quella palestinese, e il suo abbandono all’occupazione militare israeliana, alle colonie che si espandono e al Muro dell’apartheid, avrebbe comportato — insieme ad una frattura anche violenta del movimento palestinese stesso — una radicalizzazione ideologica, nella fattispecie islamica, in tutti i Paesi arabi, con il ritorno della guerra imperiale all’ordine del giorno. Così come Paul Sweezy non comprende che gli Stati uniti, pur mantenendo «le spese militari come elemento essenziale della stabilità americana» avevano deciso il ritiro dal Vietnam — a questo puntava il viaggio del ’71 di Nixon a Pechino — e che quella vittoriosa lotta di popolo maturava un ridisegno del conflitto globale nella Guerra fredda: in Asia con la guerra civile in Cambogia e la svolta epocale cinese, in Africa con lotta al neocolonialismo, in America Latina con i golpe.Così, un brivido si prova alle parole del presidente cileno Salvador Allende che Rossana incontra nel ’71 nel palazzo della Moneda. Si avverte la sua solitudine, lo sforzo immane, l’equilibrio difficile per sostenere il «cambiamento socialista». E la sua tragica e malriposta fiducia nella lealtà dei militari. Mentre se la prende con il nipote del Mir che, attaccando l’esercito, «gioca col fuoco». Perché «…qui se l’esercito esce dalla legalità è la guerra civile. È l’Indonesia. Credete che gli operai si lasceranno togliere le industrie? E i contadini le terre? Ci saranno centomila morti, sarà un bagno di sangue». Sappiamo com’è andata.
Stessa emozione per l’incontro a Lisbona con il maggiore Ernesto de Melo Antunes, leader della rivoluzione dei garofani, nel disadorno palazzo del parlamento di San Bento. «Quel che oggi possiamo fare è cambiare il modo in cui finora si è pensato lo sviluppo, e cioè sempre e solo in termini di accelerazione di produzione e investimenti. Noi preferiamo parlare di una via socializzante…». Era il gennaio del 1975. Noi, al seguito, assistevamo ai seminari di Rossana Rossanda al Centro Gubelkian, il dopolavoro dello stato maggiore portoghese, sui processi di transizione. A segnora — così la chiamavano — parlava appassionata e fuori montavano la guardia giovanissimi cheguevara barbuti, soldati in mimetica e mitraglia in spalla, appena rientrati dall’Angola e dal Mozambico. Quanto poteva durare? E non durò. Non capimmo, anche per l’enfasi retorica dei tanti arrivati da tutta Europa a «dirigere» con presuntuose certezze la rivoluzione che, al contrario, chiedeva, come faceva Rossana, di interrogarsi insieme a noi. Che le sconfitte alla fine — e vale anche per noi, adesso — non siano il terreno più fertile da seminare?
sabato 4 gennaio 2014
Selfie parola dell'anno
Selfie
L’ansia di riempire il vuoto interiore
L’autoscatto condiviso da semplice passatempo adolescenziale diventa pratica dei grandi del mondo, come è accaduto ai funerali di Mandela
E l’Oxford Dictionary la consacra parola dell’anno
Dietro questo fenomeno si nasconde un rischio il sentimento di non avere una personalità vera
la Repubblica, 29 dicembre 2013
In un film che ha fatto epoca titolato Zelig (1983), Woody Allen ha raccontato con la sua indubbia maestria tragica e ironica la patologia di un uomo che doveva assimilarsi all’ambiente e ai personaggi che frequentava per dare valore alla sua vita. Questa caricatura del soggetto – camaleonte impegnato in continui trasformismi per ridurre il suo senso di profonda estraneità trova un corrispettivo clinico preciso in una patologia che la psicoanalisi degli anni Cinquanta aveva definito con il termine di “personalità come se” (as if) (Helene Deutsch). Di cosa si trattava? Un soggetto senza mondo interiore, vuoto, staccato dall’energia vitale del suo desiderio, privo di un senso proprio dell’identità, poteva trovare una identità posticcia solo identificandosi a chi lo circondava, vivendo conformisticamente come fanno gli altri, adottando una maschera sociale rigida per colmare quel senso inestinguibile di superfluità che portava con sé. In questo caso la patologia mentale non consisteva più in una deviazione dalla norma, in una frattura con l’ordine costituito delle cose (come accadeva nella follia delirante studiata da Michel Foucault e da Franco Basaglia), ma in un eccesso di adattamento alla realtà, in una esasperata assimilazione alla normalità. In tutti questi nuovi quadri clinici in gioco sarebbe una patologia narcisistica con un fondo depressivo: il soggetto che sente di non avere alcun valore in sé (depressione) cerca di recuperarlo identificandosi a figure ideali che gli consentirebbero di edificare un Io più amabile (narcisismo). Ecco allora la ragione delle metamorfosi infinite di Zelig, che come un camaleonte cambia continuamente pelle. Di volta in volta, egli è un artista, un medico, un suonatore di jazz nero, uno psicoanalista...
Una versione aggiornata ai nuovi social network della figura di Zelig si può forse trovare nei cosiddetti “Selfie”, ovvero in coloro che tendono a fotografarsi di fianco a personaggi illustri o meno e in circostanze pubbliche di particolare valore storico o cronachistico, ma anche a riprodurre pubblicamente, grazie a Internet, i momenti più privati della loro vita per poi esibire a un loro pubblico questa specie di reliquia post-moderna. Tutto avviene “come se”: per un verso, i nuovi Zelig si autoriproducono con una solerzia incessante riducendo illusoriamente la distanza che li separa dal nome del personaggio o dall’evento ritratto come se facessero parte della loro vita; per un altro verso, provano a innalzare l’ordinarietà della loro stessa vita come se fosse il senso del mondo facendo degli spettatori una sorta di suo specchio ideale. Se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla propria esistenza. È il sintomo clinico prevalente delle personalità come se: la percezione diffusa della propria inesistenza, l’assenza del sentimento della vita.
Di nuovo troviamo al centro il binomio depressione narcisismo che è, a mio giudizio, un binomio decisivo per intendere più in generale le mutazioni antropologiche del nostro tempo. La nostra immagine è tristemente vuota (gli ideali collettivi e soggettivi sono evaporati) e può essere riempita solo grazie al cemento narcisistico offerto da un valore aggiunto: il personaggio famoso, l’evento imperdibile, l’uso della vetrina di Facebook, la moltiplicazione anonima delle amicizie, ma anche la pura esibizione della propria persona di fronte al pubblico anonimo dei social network.
La dimensione autoreferenziale di questo foraggiamento narcisistico di un soggetto in realtà tristemente vuoto è evidente, già tutto contenuto nella parola “autoscatto”. Non si fotografa più il mondo, ma il mondo serve come sfondo per una iniezione narcisistica a un soggetto che si vive come insignificante. Non si tratta di psichiatrizzare una pratica che oggi ha assunto il carattere di una epidemia virale e che coinvolge anche figure come quella del Presidente degli Stati Uniti. Ma è indubbio che in molte di queste fotografie vediamo emergere un profondo senso di tristezza. È quella stessa sensazione che circonda la vita del povero Zelig di Woody Allen. Sotto la maschera non c’è niente: apparire prende il posto dell’essere rivelandoci che l’essere che esso ricopre è una realtà inconsistente. Esibire la propria vita non perché essa assume il valore universale di una testimonianza – è questo il punto di scaturigine di ogni opera d’arte –, ma perché senza questa esibizione essa correrebbe il rischio di non esistere, di essere solamente un’ombra senza vita. Il contrario siderale di quella “capacità di stare soli” con la quale Winnicott definiva la condizione minima della salute mentale.
L’ansia di riempire il vuoto interiore
L’autoscatto condiviso da semplice passatempo adolescenziale diventa pratica dei grandi del mondo, come è accaduto ai funerali di Mandela
E l’Oxford Dictionary la consacra parola dell’anno
Dietro questo fenomeno si nasconde un rischio il sentimento di non avere una personalità vera
la Repubblica, 29 dicembre 2013
In un film che ha fatto epoca titolato Zelig (1983), Woody Allen ha raccontato con la sua indubbia maestria tragica e ironica la patologia di un uomo che doveva assimilarsi all’ambiente e ai personaggi che frequentava per dare valore alla sua vita. Questa caricatura del soggetto – camaleonte impegnato in continui trasformismi per ridurre il suo senso di profonda estraneità trova un corrispettivo clinico preciso in una patologia che la psicoanalisi degli anni Cinquanta aveva definito con il termine di “personalità come se” (as if) (Helene Deutsch). Di cosa si trattava? Un soggetto senza mondo interiore, vuoto, staccato dall’energia vitale del suo desiderio, privo di un senso proprio dell’identità, poteva trovare una identità posticcia solo identificandosi a chi lo circondava, vivendo conformisticamente come fanno gli altri, adottando una maschera sociale rigida per colmare quel senso inestinguibile di superfluità che portava con sé. In questo caso la patologia mentale non consisteva più in una deviazione dalla norma, in una frattura con l’ordine costituito delle cose (come accadeva nella follia delirante studiata da Michel Foucault e da Franco Basaglia), ma in un eccesso di adattamento alla realtà, in una esasperata assimilazione alla normalità. In tutti questi nuovi quadri clinici in gioco sarebbe una patologia narcisistica con un fondo depressivo: il soggetto che sente di non avere alcun valore in sé (depressione) cerca di recuperarlo identificandosi a figure ideali che gli consentirebbero di edificare un Io più amabile (narcisismo). Ecco allora la ragione delle metamorfosi infinite di Zelig, che come un camaleonte cambia continuamente pelle. Di volta in volta, egli è un artista, un medico, un suonatore di jazz nero, uno psicoanalista...
Una versione aggiornata ai nuovi social network della figura di Zelig si può forse trovare nei cosiddetti “Selfie”, ovvero in coloro che tendono a fotografarsi di fianco a personaggi illustri o meno e in circostanze pubbliche di particolare valore storico o cronachistico, ma anche a riprodurre pubblicamente, grazie a Internet, i momenti più privati della loro vita per poi esibire a un loro pubblico questa specie di reliquia post-moderna. Tutto avviene “come se”: per un verso, i nuovi Zelig si autoriproducono con una solerzia incessante riducendo illusoriamente la distanza che li separa dal nome del personaggio o dall’evento ritratto come se facessero parte della loro vita; per un altro verso, provano a innalzare l’ordinarietà della loro stessa vita come se fosse il senso del mondo facendo degli spettatori una sorta di suo specchio ideale. Se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla propria esistenza. È il sintomo clinico prevalente delle personalità come se: la percezione diffusa della propria inesistenza, l’assenza del sentimento della vita.
Di nuovo troviamo al centro il binomio depressione narcisismo che è, a mio giudizio, un binomio decisivo per intendere più in generale le mutazioni antropologiche del nostro tempo. La nostra immagine è tristemente vuota (gli ideali collettivi e soggettivi sono evaporati) e può essere riempita solo grazie al cemento narcisistico offerto da un valore aggiunto: il personaggio famoso, l’evento imperdibile, l’uso della vetrina di Facebook, la moltiplicazione anonima delle amicizie, ma anche la pura esibizione della propria persona di fronte al pubblico anonimo dei social network.
La dimensione autoreferenziale di questo foraggiamento narcisistico di un soggetto in realtà tristemente vuoto è evidente, già tutto contenuto nella parola “autoscatto”. Non si fotografa più il mondo, ma il mondo serve come sfondo per una iniezione narcisistica a un soggetto che si vive come insignificante. Non si tratta di psichiatrizzare una pratica che oggi ha assunto il carattere di una epidemia virale e che coinvolge anche figure come quella del Presidente degli Stati Uniti. Ma è indubbio che in molte di queste fotografie vediamo emergere un profondo senso di tristezza. È quella stessa sensazione che circonda la vita del povero Zelig di Woody Allen. Sotto la maschera non c’è niente: apparire prende il posto dell’essere rivelandoci che l’essere che esso ricopre è una realtà inconsistente. Esibire la propria vita non perché essa assume il valore universale di una testimonianza – è questo il punto di scaturigine di ogni opera d’arte –, ma perché senza questa esibizione essa correrebbe il rischio di non esistere, di essere solamente un’ombra senza vita. Il contrario siderale di quella “capacità di stare soli” con la quale Winnicott definiva la condizione minima della salute mentale.
venerdì 3 gennaio 2014
Il revisionismo come battaglia ideologica: Paolo Mieli
Miguel Gotor
Paolo Mieli e il terzismo come categoria storica
“I conti con la storia”, il nuovo saggio del presidente di Rcs libri
la Repubblica, 2 gennaio 2013
L’espressione «uso pubblico della storia» fu utilizzata per la prima volta nel 1986 da Jürgen Habermas nel corso di un dibattito sul tema delle responsabilità tedesche nella Shoah. Egli se ne servì per distinguere il lavoro scientifico dello storico dal dibattito pubblico sui mezzi di comunicazione di massa, privilegiando la dimensione etico-civile del primo a discapito del secondo. Nel corso degli ultimi trent’anni, a seguito della rivoluzione tecnologica che ha caratterizzato in modo particolare il settore dei mass media, questa distinzione in negativo è andata sfumando e si è affermata un’accezione positiva del concetto che includerebbe tutto ciò che di storico è veicolato al di fuori dei luoghi deputati alla ricerca scientifica: dai giornali alle televisioni, ai monumenti, alle cerimonie pubbliche.
Tra i principali artefici dell’uso pubblico della storia in Italia è certamente l’attuale presidente di Rcs libri Paolo Mieli, ex direttore deLa Stampa e del Corriere della Sera, che svolge da anni un ruolo di filtro e di mediazione fra il grande pubblico e la ricerca storica. All’inizio egli ha adempiuto a questa funzione rispondendo alle lettere del Corriere al posto che fu di Indro Montanelli, poi vestendo i panni del recensore di libri di storia. Il suo ultimo volume I conti con la storia. Per capire il nostro tempo raccoglie per l’appunto un’ampia selezione di articoli e rappresenta una sorta di biblioteca ideale e di guida alla lettura utile non solo al grande pubblico, ma anche agli studiosi della materia che spazia dall’antica Grecia al fascismo, da Spartaco a Gramsci, dall’Inquisizione al Risorgimento, da Bismarck alla guerra civile spagnola. È interessante soffermarsi sui criteri generali adottati da Mieli nella scelta dei libri da recensire e dunque da divulgare presso un pubblico di non specialisti perché ciò aiuta a riflettere sui meccanismi di funzionamento dell’uso pubblico della storia in Italia, una delle principali coordinate su cui oggi opera lo storico della contemporaneità, all’incrocio tra il mondo della politica e quello della comunicazione. La prima costante è la centralità del tema della memoria e della sua contraddittorietà. Mieli è consapevole che storia e memoria sono due binari paralleli destinati a correre insieme senza però incontrarsi mai. Resiste quindi alla retorica imperante della memoria condivisa e si schiera a favore dell’utilità di un benefico oblio valorizzando la “messa a distanza” critica del passato, mettendone in luce la complessità.
La seconda costante è la centralità della vittima come testimone di un trauma, il nuovo eroe del racconto storico di oggi. Mieli, sulla scorta di alcune suggestive riflessioni del filosofo Mario Perniola, nota come le odierne civiltà della colpa tendano a trasformare la politica in etica dilatando enormemente le categorie di responsabilità. L’ipertrofia della morale, però, produce il trionfo del cinismo e della spudoratezza: se ognuno di noi è moralmente corresponsabile di tutti i mali del mondo, allora non lo è più nessuno e si produce una generale autoassoluzione in cui il politico si limita a cambiare il nome alle cose piuttosto che proporsi di cambiarle veramente.
La terza costante è la centralità del revisionismo come battaglia ideologica, in particolare contro il paradigma interpretativo di derivazione gramsciano-azionista della storia d’Italia. In effetti, la stragrande maggioranza dei libri recensiti da Mieli che riguardano i principali nodi della storia nazionale, dalla Riforma protestante all’Inquisizione romana, dal Risorgimento alla Resistenza, dal fascismo all’antifascismo, è funzionale a cogliere quest’obiettivo che tende a valorizzare le zone grigie dell’agire umano, il momento della contraddizione a discapito di quello della decisione. L’ultimo ventennio di uso pubblico della storia sui giornali è stato dominato da questo canto “terzista” che si è ormai trasformato a sua volta in un canone da rivedere perché ha esaurito la sua funzione di puntellare sul piano ideologico e di moderare su quello politico l’egemonia culturale del berlusconismo. Proprio questa è la principale ricchezza del libro di Mieli: da un lato, serve come non mai a «capire il nostro tempo», ma dall’altro ci dice che un’intera stagione è ormai giunta al tramonto.
Paolo Mieli e il terzismo come categoria storica
“I conti con la storia”, il nuovo saggio del presidente di Rcs libri
la Repubblica, 2 gennaio 2013
L’espressione «uso pubblico della storia» fu utilizzata per la prima volta nel 1986 da Jürgen Habermas nel corso di un dibattito sul tema delle responsabilità tedesche nella Shoah. Egli se ne servì per distinguere il lavoro scientifico dello storico dal dibattito pubblico sui mezzi di comunicazione di massa, privilegiando la dimensione etico-civile del primo a discapito del secondo. Nel corso degli ultimi trent’anni, a seguito della rivoluzione tecnologica che ha caratterizzato in modo particolare il settore dei mass media, questa distinzione in negativo è andata sfumando e si è affermata un’accezione positiva del concetto che includerebbe tutto ciò che di storico è veicolato al di fuori dei luoghi deputati alla ricerca scientifica: dai giornali alle televisioni, ai monumenti, alle cerimonie pubbliche.
Tra i principali artefici dell’uso pubblico della storia in Italia è certamente l’attuale presidente di Rcs libri Paolo Mieli, ex direttore deLa Stampa e del Corriere della Sera, che svolge da anni un ruolo di filtro e di mediazione fra il grande pubblico e la ricerca storica. All’inizio egli ha adempiuto a questa funzione rispondendo alle lettere del Corriere al posto che fu di Indro Montanelli, poi vestendo i panni del recensore di libri di storia. Il suo ultimo volume I conti con la storia. Per capire il nostro tempo raccoglie per l’appunto un’ampia selezione di articoli e rappresenta una sorta di biblioteca ideale e di guida alla lettura utile non solo al grande pubblico, ma anche agli studiosi della materia che spazia dall’antica Grecia al fascismo, da Spartaco a Gramsci, dall’Inquisizione al Risorgimento, da Bismarck alla guerra civile spagnola. È interessante soffermarsi sui criteri generali adottati da Mieli nella scelta dei libri da recensire e dunque da divulgare presso un pubblico di non specialisti perché ciò aiuta a riflettere sui meccanismi di funzionamento dell’uso pubblico della storia in Italia, una delle principali coordinate su cui oggi opera lo storico della contemporaneità, all’incrocio tra il mondo della politica e quello della comunicazione. La prima costante è la centralità del tema della memoria e della sua contraddittorietà. Mieli è consapevole che storia e memoria sono due binari paralleli destinati a correre insieme senza però incontrarsi mai. Resiste quindi alla retorica imperante della memoria condivisa e si schiera a favore dell’utilità di un benefico oblio valorizzando la “messa a distanza” critica del passato, mettendone in luce la complessità.
La seconda costante è la centralità della vittima come testimone di un trauma, il nuovo eroe del racconto storico di oggi. Mieli, sulla scorta di alcune suggestive riflessioni del filosofo Mario Perniola, nota come le odierne civiltà della colpa tendano a trasformare la politica in etica dilatando enormemente le categorie di responsabilità. L’ipertrofia della morale, però, produce il trionfo del cinismo e della spudoratezza: se ognuno di noi è moralmente corresponsabile di tutti i mali del mondo, allora non lo è più nessuno e si produce una generale autoassoluzione in cui il politico si limita a cambiare il nome alle cose piuttosto che proporsi di cambiarle veramente.
La terza costante è la centralità del revisionismo come battaglia ideologica, in particolare contro il paradigma interpretativo di derivazione gramsciano-azionista della storia d’Italia. In effetti, la stragrande maggioranza dei libri recensiti da Mieli che riguardano i principali nodi della storia nazionale, dalla Riforma protestante all’Inquisizione romana, dal Risorgimento alla Resistenza, dal fascismo all’antifascismo, è funzionale a cogliere quest’obiettivo che tende a valorizzare le zone grigie dell’agire umano, il momento della contraddizione a discapito di quello della decisione. L’ultimo ventennio di uso pubblico della storia sui giornali è stato dominato da questo canto “terzista” che si è ormai trasformato a sua volta in un canone da rivedere perché ha esaurito la sua funzione di puntellare sul piano ideologico e di moderare su quello politico l’egemonia culturale del berlusconismo. Proprio questa è la principale ricchezza del libro di Mieli: da un lato, serve come non mai a «capire il nostro tempo», ma dall’altro ci dice che un’intera stagione è ormai giunta al tramonto.
lunedì 30 dicembre 2013
Hannah Arendt: la politica, il nuovo, la libertà
Laura
Boella
La politica ha senso in
se stessa: il mito della polis atenieseEuropa, 13 agosto 2013
...
Meritano una rilettura le pagine di Vita activa in cui alla «condizione umana» viene restituita la sua massima prerogativa, quella di «dare inizio», di introdurre il «miracolo» del nuovo nel mondo. L’attuale crisi della politica ha dei tratti inconfondibilmente nuovi, e non si tratta semplicemente di rileggere un “classico”. Occorre piuttosto cogliere fino in fondo l’effetto straniante (Arendt fu acuta lettrice di Brecht), lucido e per nulla idealizzante, della concezione arendtiana di politica.
Vita activa si propone di ridefinire il concetto di azione. Dopo averla distinta dal “lavoro” – l’attività dell’animal laborans che corrisponde allo scambio organico tra uomo e natura necessario per la riproduzione della vita biologica – e dall’«opera» – l’attività di fabbricazione attraverso cui l’uomo crea una «seconda natura», producendo beni durevoli, dagli oggetti d’uso alle opere d’arte – l’«azione» nel senso autentico del termine rappresenta la massima espressione della dignità umana, l’attività attraverso cui l’individuo dà senso alla propria esistenza, riscattandosi dai vincoli biologici e affermando la propria unicità. Ne sono esempio la virtù del cittadino della polis, il coraggio dell’eroe omerico. L’azione diventa propriamente principio dell’agire politico quando si coniuga con la pluralità e con il discorso. Nasce così lo «spazio pubblico», ossia la forma di comunità che per Arendt ha la realtà dell’«agire di concerto» nel mondo comune. Si tratta di una realtà radicalmente intersoggettiva e relazionale. Non coincide con alcun territorio o spazio determinati, sta prima delle varie forme di governo o di organizzazione della vita pubblica, e coincide essenzialmente con la possibilità dell’essere insieme.
Nello spazio pubblico così delineato si configura un’accezione di politica radicalmente contrastante con la tradizione del pensiero moderno. La politica non soggiace alla logica mezzo-fine, e non è ispirata al principio della sovranità, bensì ha il suo fine in se stessa, nel consentire agli esseri umani di riconoscersi e di attestare la realtà del mondo come spazio di visibilità e di discorso. La politica è una possibilità sempre aperta per chiunque, ma intrinsecamente fragile, è esercizio di un “potere” di iniziativa che non ha nulla a che vedere con la forza o con la violenza, bensì è tutt’uno con la libertà.
...
testi http://machiave.blogspot.it/2013/01/hannah-arendt-unidea-alta-della-politica.html
domenica 29 dicembre 2013
Rousseau, l'idillio delle ciliege
Il
tratto saliente che caratterizza il legame di Rousseau con le donne amate
risulta essere la delega di ogni iniziativa e dell’'intera gestione del
rapporto amoroso all’'altra, in una sorta di rinuncia a priori ad un confronto
sentito come inquietante, fonte di seducenti promesse, ma anche di
imprevedibili minacce.
Elena Pulcini, Introduzione (J. J. Rousseau: l’immaginario e la morale) alla Giulia o la Nuova Eloisa, Bur, Milano 1994.
Les Confessions, Livre IV
Mi ero insensibilmente allontanato dalla città; il caldo aumentava, e passeggiavo all'ombra di un vallone lungo un ruscello. Odo alle mie spalle uno scalpitare di cavalli e voci di ragazze che parevano in difficoltà, e nondimeno ridevano di cuore. Mi volto, mi chiamano per nome, mi avvicino, e vedo due fanciulle di mia conoscenza, la signorina di Graffenried e la signorina Galley, che, non essendo cavallerizze provette, non sapevano come convincere i loro cavalli ad attraversare il ruscello. La signorina di Graffenried era una giovane bernese graziosissima, che, scacciata dal suo paese per qualche follia della sua età, aveva imitato la signora di Warens, presso la quale l'avevo vista qualche volta; ma non disponendo come lei di una pensione, era stata ben felice di appoggiarsi alla signorina Galley, che, avendola presa in amicizia, aveva persuaso la madre a dargliela come compagna, finché non si fosse potuto sistemarla altrimenti. La signorina Galley, di un anno più giovane, era ancora più bella; aveva un non so che di più delicato, di più fine; era insieme molto minuta e ben formata: il momento più bello di una fanciulla. Entrambe si amavano teneramente, e il buon carattere dell'una e dell'altra non poteva che prolungare quell'unione, se qualche amante non fosse sopraggiunto a turbarla. Mi dissero che andavano a Thônes, antico castello della signora Galley, e implorarono il mio aiuto per far guadare i cavalli, non venendone a capo da sole. Volli frustare le bestie, ma le fanciulle temevano i calci per me, e gli sbalzi per loro. Ricorsi a un altro espediente. Afferrai per la briglia il cavallo della signorina Galley, poi tirandomelo appresso, attraversai il ruscello con l'acqua a metà gamba, e l'altro cavallo seguì docilmente. Ciò fatto, volli salutare le signorine e andarmene come uno sciocco; esse si scambiarono qualche parola sottovoce, e la signorina di Graffenried, rivolta a me, disse: «No, no: non ci sfuggirete così. Vi siete inzuppato per aiutarci; e a noi spetta in coscienza la cura di asciugarvi. Bisogna, per piacere, che veniate con noi: siete nostro prigioniero.» Il cuore mi batteva, e guardavo la signorina Galley. «Sì, sì,» aggiunse lei, ridendo della mia aria smarrita, «prigioniero di guerra. Montate in groppa dietro a lei: vogliamo rispondere di voi.» «Ma, signorina, io non ho l'onore d'essere conosciuto dalla signora vostra madre: che dirà vedendomi arrivare?» «Sua madre,» rispose la signorina di Graffenried, «non è a Thônes, siamo sole; torniamo questa sera e tornerete con noi.»
L'effetto dell'elettricità non è più fulmineo di quello che produssero su di me quelle parole. Balzando sul cavallo della signorina de Graffenried, tremavo di gioia, e quando bisognò che l'abbracciassi per sorreggermi, il cuore mi batteva tanto forte che lei se ne accorse; mi disse che anche il suo batteva per la paura di cadere, ed era quasi, in quella posizione, un invito a verificare il fatto. Non osai, e per l'intiero tragitto le mie braccia le servirono da cintura, strettissima in verità, ma senza spostarsi un istante. Ogni mia lettrice mi schiaffeggerebbe volentieri, e non avrebbe torto.
L'allegria del viaggio e il cinguettio delle ragazze eccitarono a tal punto il mio che sino a sera, e finché restammo insieme, non smettemmo un momento di parlare. Mi avevano messo così perfettamente a mio agio che la mia lingua parlava quanto i miei occhi, benché non esprimesse le stesse cose. Solo per qualche istante, quando mi trovavo a tu per tu con l'una o con l'altra, la conversazione s'impacciava un poco; ma l'assente tornava prestissimo e non dava all'impaccio il tempo di chiarirsi.
Arrivati a Thônes, e io ben asciugato, facemmo colazione. Poi bisognò procedere all'importante operazione di preparare il pranzo. Le due signorine, mentre cucinavano, baciavano di tanto in tanto i figli della castalda, e il povero sguattero guardava, mordendo il freno. Dalla città erano state inviate delle provviste e c'era di che preparare un pranzo eccellente, soprattutto in fatto di ghiottonerie; ma sfortunatamente avevano dimenticato il vino. La dimenticanza non era strana per le ragazze che non bevevano; ma io ne fui seccato, perché avevo un po'contato su quell'aiuto per farmi coraggio. Anch'esse ne furono seccate, forse per lo stesso motivo, ma non posso giurarlo. La loro allegria vivace e deliziosa era l'innocenza stessa; e, d'altra parte, che cosa avrebbero fatto di me, tra loro due? Mandarono dappertutto, nei dintorni, a cercare del vino; non se ne trovò, tanto i contadini di quel cantone sono sobri e poveri. Siccome mi esprimevano il loro disappunto, dissi di non preoccuparsene tanto, ché non avevano bisogno di vino per inebriarmi. Fu l'unica galanteria che azzardai in tutta la giornata; ma credo che le furbette vedessero come quella galanteria rispondesse a verità.
Pranzammo nella cucina della castalda, le due amiche sedute sulle panche ai due lati della lunga tavola, e l'ospite in mezzo a loro, su uno sgabello a tre piedi. Che pranzo! Che ricordo affascinante! Come si può, potendo gustare a così poco prezzo piaceri tanto puri e tanto veri, pretendere di cercarne altri? Mai cena parigina in ambienti galanti uguagliò quel pranzo, non dico soltanto in allegria, nella dolce gioia; dico anche nella sensualità.
Dopo pranzo facemmo un'economia. Anziché prendere il caffé, che ci restava dalla colazione, lo serbammo per gustarlo a merenda con la panna e i pasticcini che esse avevano portato; e per mantener sveglio l'appetito, andammo nel frutteto a completare il nostro pranzo con le ciliege. Io salii sull'albero, e ne lanciavo giù a mazzettini, di cui esse mi rispedivano i noccioli attraverso i rami. Una volta, la signorina Galley, sollevando il grembiule e spostando indietro la testa, si offrì così bene al bersaglio, e io mirai così giusto, che le feci cadere un mazzetto giusto nel seno; e la risata! Dicevo dentro di me: «Perché le mie labbra non sono ciliege! Come gliele getterei volentieri!»
La giornata trascorse così, a folleggiare con la massima libertà e sempre con la maggior decenza. Non una sola parola equivoca, non uno scherzo arrischiato; e questa decenza non ce la imponevamo affatto, veniva spontanea, obbedivamo al tono che ci dettavano i cuori. Infine la mia modestia, altri diranno la mia ottusità, fu tale che la più audace intimità che mi sfuggì fu di baciare una sola volta la mano della signorina Galley. È vero che la circostanza rese prezioso questo lieve favore. Eravamo soli, io respiravo a fatica, lei teneva gli occhi bassi. Anziché cercare parole, la mia bocca scelse di posarsi sulla sua mano, che lei dolcemente ritirò dopo il bacio, guardandomi con un'espressione che nulla aveva d'irato. Non so che cosa avrei potuto dirle: la sua amica entrò, e in quel momento mi parve orribile.
Si ricordarono infine che non bisognava aspettare la notte per rientrare in città. Ci restava appena il tempo per arrivare prima di buio, e ci affrettammo a partire, sistemandoci come nel venire. Avrei potuto, se ne avessi avuto l'ardire, cambiare quell'ordine, perché lo sguardo della signorina Galley mi aveva acceso il cuore; ma non osai dir nulla, e non toccava a lei proporlo. Andando dicevamo che era un peccato che la giornata finisse, ma, anziché lamentarci della sua brevità, notammo come avessimo avuto il potere di renderla lunga, con tutte le piacevolezze di cui avevamo saputo colmarla.
Le lasciai press'a poco dove mi avevano trovato. Con che dispiacere ci separammo! E con che piacere progettammo di rivederci! Dodici ore trascorse insieme valevano per noi secoli di intimità. Il dolce ricordo di quella giornata non costava nulla a quelle amabili fanciulle; la tenera unione che regnava fra noi tre valeva i piaceri più intensi, e con essi non sarebbe potuta sussistere: ci amavamo senza misteri e senza vergogna, e volevamo amarci sempre così. L'innocenza dei costumi ha la sua voluttà, che vale quanto l'altra, giacché non conosce interruzioni e premia di continuo. Quanto a me, so che il ricordo di un giorno tanto bello mi commuove di più, mi incanta di più, mi torna di più al cuore d'ogni altro piacere gustato in vita mia. Non sapevo bene che cosa cercassi in quelle due deliziose persone, ma mi attraevano molto entrambe. Non dico che, fossi stato padrone di scegliere, il mio cuore si sarebbe diviso; avvertivo una certa preferenza. Sarei stato felice di avere per amante la signorina di Graffenried; ma, dovendo scegliere, credo che l'avrei preferita come mia confidente. Comunque, mi parve nel lasciarle che non avrei più potuto vivere senza l'una e senza l'altra. Chi avrebbe detto che non le avrei mai più riviste, e che lì sarebbero finiti i nostri effimeri amori?
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Je m'étais insensiblement éloigné de la ville, la chaleur augmentait, et je me promenais sous des ombrages dans un vallon le long d'un ruisseau. J'entends derrière moi des pas de chevaux et des voix de filles qui semblaient embarrassées, mais qui n'en riaient pas de moins bon cœur. Je me retourne, on m'appelle par mon nom, je m'approche, je trouve deux jeunes personnes de ma connaissance. Mlle de Graffenried et Mlle Galley, qui, n'étant pas d'excellentes cavalières, ne savaient comment forcer leurs chevaux à passer le ruisseau. Mlle de Graffenried était une jeune Bernoise fort aimable, qui, par quelque folie de son âge, ayant été jetée hors de son pays, avait imité Mme de Warens, chez qui je l'avais vue quelquefois ; mais, n'ayant pas eu une pension comme elle, elle avait été trop heureuse de s'attacher à Mlle Galley, qui, l'ayant prise en amitié, avait engagé sa mère à la lui donner pour compagne jusqu'à ce qu'on la pût placer de quelque façon. Mlle Galley, d'un an plus jeune qu'elle, était encore plus jolie : elle avait je ne sais quoi de plus délicat, de plus fin ; elle était en même temps très mignonne et très formée, ce qui est pour une fille le plus beau moment. Toutes deux s'aimaient tendrement et leur bon caractère à l'une et à l'autre ne pouvait qu'entretenir longtemps cette union, si quelque amant ne venait pas la déranger. Elles me dirent qu'elles allaient à Thônes*, vieux château appartenant à Mme Galley ; elles implorèrent mon secours pour faire passer leurs chevaux, n'en pouvant venir à bout elles seules. Je voulus fouetter les chevaux ; mais elles craignaient pour moi les ruades et pour elles les haut-le-corps. J'eus recours à un autre expédient. Je pris par la bride le cheval de Mlle Galley, puis, le tirant après moi, je traversai le ruisseau ayant de l'eau jusqu'à mi-jambes, et l'autre cheval suivit sans difficulté. Cela fait, je voulus saluer ces demoiselles, et m'en aller comme un benêt : elles se dirent quelques mots tout bas, et Mlle de Graffenried s'adressant à moi : Non pas, non pas, me dit-elle, on ne nous échappe pas comme cela. Vous vous êtes mouillé pour notre service ; et nous devons en conscience avoir soin de vous sécher : il faut, s'il vous plaît, venir avec nous : nous vous arrêtons prisonnier. Le cœur me battait, je regardais Mlle Galley. Oui, oui, ajouta-t-elle, en riant de ma mine effarée, prisonnier de guerre ; montez en croupe derrière elle ; nous voulons rendre compte de vous. - Mais Mademoiselle, je n'ai point l'honneur d'être connu de Madame votre mère : que dira-t-elle en me voyant arriver ? - Sa mère, reprit Mlle de Graffenried, n'est pas à Thônes, nous sommes seules ; nous revenons ce soir, et vous reviendrez avec nous.
Elena Pulcini, Introduzione (J. J. Rousseau: l’immaginario e la morale) alla Giulia o la Nuova Eloisa, Bur, Milano 1994.
Les Confessions, Livre IV
Mi ero insensibilmente allontanato dalla città; il caldo aumentava, e passeggiavo all'ombra di un vallone lungo un ruscello. Odo alle mie spalle uno scalpitare di cavalli e voci di ragazze che parevano in difficoltà, e nondimeno ridevano di cuore. Mi volto, mi chiamano per nome, mi avvicino, e vedo due fanciulle di mia conoscenza, la signorina di Graffenried e la signorina Galley, che, non essendo cavallerizze provette, non sapevano come convincere i loro cavalli ad attraversare il ruscello. La signorina di Graffenried era una giovane bernese graziosissima, che, scacciata dal suo paese per qualche follia della sua età, aveva imitato la signora di Warens, presso la quale l'avevo vista qualche volta; ma non disponendo come lei di una pensione, era stata ben felice di appoggiarsi alla signorina Galley, che, avendola presa in amicizia, aveva persuaso la madre a dargliela come compagna, finché non si fosse potuto sistemarla altrimenti. La signorina Galley, di un anno più giovane, era ancora più bella; aveva un non so che di più delicato, di più fine; era insieme molto minuta e ben formata: il momento più bello di una fanciulla. Entrambe si amavano teneramente, e il buon carattere dell'una e dell'altra non poteva che prolungare quell'unione, se qualche amante non fosse sopraggiunto a turbarla. Mi dissero che andavano a Thônes, antico castello della signora Galley, e implorarono il mio aiuto per far guadare i cavalli, non venendone a capo da sole. Volli frustare le bestie, ma le fanciulle temevano i calci per me, e gli sbalzi per loro. Ricorsi a un altro espediente. Afferrai per la briglia il cavallo della signorina Galley, poi tirandomelo appresso, attraversai il ruscello con l'acqua a metà gamba, e l'altro cavallo seguì docilmente. Ciò fatto, volli salutare le signorine e andarmene come uno sciocco; esse si scambiarono qualche parola sottovoce, e la signorina di Graffenried, rivolta a me, disse: «No, no: non ci sfuggirete così. Vi siete inzuppato per aiutarci; e a noi spetta in coscienza la cura di asciugarvi. Bisogna, per piacere, che veniate con noi: siete nostro prigioniero.» Il cuore mi batteva, e guardavo la signorina Galley. «Sì, sì,» aggiunse lei, ridendo della mia aria smarrita, «prigioniero di guerra. Montate in groppa dietro a lei: vogliamo rispondere di voi.» «Ma, signorina, io non ho l'onore d'essere conosciuto dalla signora vostra madre: che dirà vedendomi arrivare?» «Sua madre,» rispose la signorina di Graffenried, «non è a Thônes, siamo sole; torniamo questa sera e tornerete con noi.»
L'effetto dell'elettricità non è più fulmineo di quello che produssero su di me quelle parole. Balzando sul cavallo della signorina de Graffenried, tremavo di gioia, e quando bisognò che l'abbracciassi per sorreggermi, il cuore mi batteva tanto forte che lei se ne accorse; mi disse che anche il suo batteva per la paura di cadere, ed era quasi, in quella posizione, un invito a verificare il fatto. Non osai, e per l'intiero tragitto le mie braccia le servirono da cintura, strettissima in verità, ma senza spostarsi un istante. Ogni mia lettrice mi schiaffeggerebbe volentieri, e non avrebbe torto.
L'allegria del viaggio e il cinguettio delle ragazze eccitarono a tal punto il mio che sino a sera, e finché restammo insieme, non smettemmo un momento di parlare. Mi avevano messo così perfettamente a mio agio che la mia lingua parlava quanto i miei occhi, benché non esprimesse le stesse cose. Solo per qualche istante, quando mi trovavo a tu per tu con l'una o con l'altra, la conversazione s'impacciava un poco; ma l'assente tornava prestissimo e non dava all'impaccio il tempo di chiarirsi.
Arrivati a Thônes, e io ben asciugato, facemmo colazione. Poi bisognò procedere all'importante operazione di preparare il pranzo. Le due signorine, mentre cucinavano, baciavano di tanto in tanto i figli della castalda, e il povero sguattero guardava, mordendo il freno. Dalla città erano state inviate delle provviste e c'era di che preparare un pranzo eccellente, soprattutto in fatto di ghiottonerie; ma sfortunatamente avevano dimenticato il vino. La dimenticanza non era strana per le ragazze che non bevevano; ma io ne fui seccato, perché avevo un po'contato su quell'aiuto per farmi coraggio. Anch'esse ne furono seccate, forse per lo stesso motivo, ma non posso giurarlo. La loro allegria vivace e deliziosa era l'innocenza stessa; e, d'altra parte, che cosa avrebbero fatto di me, tra loro due? Mandarono dappertutto, nei dintorni, a cercare del vino; non se ne trovò, tanto i contadini di quel cantone sono sobri e poveri. Siccome mi esprimevano il loro disappunto, dissi di non preoccuparsene tanto, ché non avevano bisogno di vino per inebriarmi. Fu l'unica galanteria che azzardai in tutta la giornata; ma credo che le furbette vedessero come quella galanteria rispondesse a verità.
Pranzammo nella cucina della castalda, le due amiche sedute sulle panche ai due lati della lunga tavola, e l'ospite in mezzo a loro, su uno sgabello a tre piedi. Che pranzo! Che ricordo affascinante! Come si può, potendo gustare a così poco prezzo piaceri tanto puri e tanto veri, pretendere di cercarne altri? Mai cena parigina in ambienti galanti uguagliò quel pranzo, non dico soltanto in allegria, nella dolce gioia; dico anche nella sensualità.
Dopo pranzo facemmo un'economia. Anziché prendere il caffé, che ci restava dalla colazione, lo serbammo per gustarlo a merenda con la panna e i pasticcini che esse avevano portato; e per mantener sveglio l'appetito, andammo nel frutteto a completare il nostro pranzo con le ciliege. Io salii sull'albero, e ne lanciavo giù a mazzettini, di cui esse mi rispedivano i noccioli attraverso i rami. Una volta, la signorina Galley, sollevando il grembiule e spostando indietro la testa, si offrì così bene al bersaglio, e io mirai così giusto, che le feci cadere un mazzetto giusto nel seno; e la risata! Dicevo dentro di me: «Perché le mie labbra non sono ciliege! Come gliele getterei volentieri!»
La giornata trascorse così, a folleggiare con la massima libertà e sempre con la maggior decenza. Non una sola parola equivoca, non uno scherzo arrischiato; e questa decenza non ce la imponevamo affatto, veniva spontanea, obbedivamo al tono che ci dettavano i cuori. Infine la mia modestia, altri diranno la mia ottusità, fu tale che la più audace intimità che mi sfuggì fu di baciare una sola volta la mano della signorina Galley. È vero che la circostanza rese prezioso questo lieve favore. Eravamo soli, io respiravo a fatica, lei teneva gli occhi bassi. Anziché cercare parole, la mia bocca scelse di posarsi sulla sua mano, che lei dolcemente ritirò dopo il bacio, guardandomi con un'espressione che nulla aveva d'irato. Non so che cosa avrei potuto dirle: la sua amica entrò, e in quel momento mi parve orribile.
Si ricordarono infine che non bisognava aspettare la notte per rientrare in città. Ci restava appena il tempo per arrivare prima di buio, e ci affrettammo a partire, sistemandoci come nel venire. Avrei potuto, se ne avessi avuto l'ardire, cambiare quell'ordine, perché lo sguardo della signorina Galley mi aveva acceso il cuore; ma non osai dir nulla, e non toccava a lei proporlo. Andando dicevamo che era un peccato che la giornata finisse, ma, anziché lamentarci della sua brevità, notammo come avessimo avuto il potere di renderla lunga, con tutte le piacevolezze di cui avevamo saputo colmarla.
Le lasciai press'a poco dove mi avevano trovato. Con che dispiacere ci separammo! E con che piacere progettammo di rivederci! Dodici ore trascorse insieme valevano per noi secoli di intimità. Il dolce ricordo di quella giornata non costava nulla a quelle amabili fanciulle; la tenera unione che regnava fra noi tre valeva i piaceri più intensi, e con essi non sarebbe potuta sussistere: ci amavamo senza misteri e senza vergogna, e volevamo amarci sempre così. L'innocenza dei costumi ha la sua voluttà, che vale quanto l'altra, giacché non conosce interruzioni e premia di continuo. Quanto a me, so che il ricordo di un giorno tanto bello mi commuove di più, mi incanta di più, mi torna di più al cuore d'ogni altro piacere gustato in vita mia. Non sapevo bene che cosa cercassi in quelle due deliziose persone, ma mi attraevano molto entrambe. Non dico che, fossi stato padrone di scegliere, il mio cuore si sarebbe diviso; avvertivo una certa preferenza. Sarei stato felice di avere per amante la signorina di Graffenried; ma, dovendo scegliere, credo che l'avrei preferita come mia confidente. Comunque, mi parve nel lasciarle che non avrei più potuto vivere senza l'una e senza l'altra. Chi avrebbe detto che non le avrei mai più riviste, e che lì sarebbero finiti i nostri effimeri amori?
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Je m'étais insensiblement éloigné de la ville, la chaleur augmentait, et je me promenais sous des ombrages dans un vallon le long d'un ruisseau. J'entends derrière moi des pas de chevaux et des voix de filles qui semblaient embarrassées, mais qui n'en riaient pas de moins bon cœur. Je me retourne, on m'appelle par mon nom, je m'approche, je trouve deux jeunes personnes de ma connaissance. Mlle de Graffenried et Mlle Galley, qui, n'étant pas d'excellentes cavalières, ne savaient comment forcer leurs chevaux à passer le ruisseau. Mlle de Graffenried était une jeune Bernoise fort aimable, qui, par quelque folie de son âge, ayant été jetée hors de son pays, avait imité Mme de Warens, chez qui je l'avais vue quelquefois ; mais, n'ayant pas eu une pension comme elle, elle avait été trop heureuse de s'attacher à Mlle Galley, qui, l'ayant prise en amitié, avait engagé sa mère à la lui donner pour compagne jusqu'à ce qu'on la pût placer de quelque façon. Mlle Galley, d'un an plus jeune qu'elle, était encore plus jolie : elle avait je ne sais quoi de plus délicat, de plus fin ; elle était en même temps très mignonne et très formée, ce qui est pour une fille le plus beau moment. Toutes deux s'aimaient tendrement et leur bon caractère à l'une et à l'autre ne pouvait qu'entretenir longtemps cette union, si quelque amant ne venait pas la déranger. Elles me dirent qu'elles allaient à Thônes*, vieux château appartenant à Mme Galley ; elles implorèrent mon secours pour faire passer leurs chevaux, n'en pouvant venir à bout elles seules. Je voulus fouetter les chevaux ; mais elles craignaient pour moi les ruades et pour elles les haut-le-corps. J'eus recours à un autre expédient. Je pris par la bride le cheval de Mlle Galley, puis, le tirant après moi, je traversai le ruisseau ayant de l'eau jusqu'à mi-jambes, et l'autre cheval suivit sans difficulté. Cela fait, je voulus saluer ces demoiselles, et m'en aller comme un benêt : elles se dirent quelques mots tout bas, et Mlle de Graffenried s'adressant à moi : Non pas, non pas, me dit-elle, on ne nous échappe pas comme cela. Vous vous êtes mouillé pour notre service ; et nous devons en conscience avoir soin de vous sécher : il faut, s'il vous plaît, venir avec nous : nous vous arrêtons prisonnier. Le cœur me battait, je regardais Mlle Galley. Oui, oui, ajouta-t-elle, en riant de ma mine effarée, prisonnier de guerre ; montez en croupe derrière elle ; nous voulons rendre compte de vous. - Mais Mademoiselle, je n'ai point l'honneur d'être connu de Madame votre mère : que dira-t-elle en me voyant arriver ? - Sa mère, reprit Mlle de Graffenried, n'est pas à Thônes, nous sommes seules ; nous revenons ce soir, et vous reviendrez avec nous.
L'effet de l'électricité n'est pas plus prompt que celui que ces mots
firent sur moi. En m'élançant sur le cheval de Mlle de Graffenried je tremblais de joie, et quand il fallut l'embrasser
pour me tenir, le cœur me battait si fort qu'elle s'en aperçut : elle
me dit que le sien lui battait aussi par
la frayeur de tomber : c'était presque, dans ma posture, une invitation
de vérifier la chose ; je n'osai jamais, et durant tout le trajet mes
deux bras lui servirent de ceinture, très serrée à la vérité, mais sans
se déplacer un moment. Telle femme qui lira ceci me souffletterait
volontiers, et n'aurait pas tort.
La gaieté du voyage et le babil
de ces
filles aiguisèrent tellement le mien, que jusqu'au soir, et tant que
nous fûmes ensemble, nous ne déparlâmes pas un moment. Elles m'avaient
mis
si bien à mon aise, que ma langue parlait autant que mes yeux,
quoiqu'elle ne dît pas les mêmes choses. Quelques instants seulement,
quand je me
trouvais tête à tête avec l'une ou l'autre, l'entretien s'embarrassait
un peu ; mais l'absente revenait bien vite, et ne nous laissait pas le
temps d'éclaircir cet embarras.
Arrivés à Thônes, et moi bien séché, nous déjeunâmes. Ensuite il fallut
procéder à l'importante affaire de préparer le dîner. Les deux demoiselles, tout en cuisinant, baisaient de temps
en temps les enfants de la grangère
et le pauvre marmiton regardait faire en rongeant son frein. On avait
envoyé des provisions de la ville, et il y avait de quoi faire un très
bon dîner, surtout en friandises ; mais malheureusement on avait oublié
du vin. Cet oubli n'était pas étonnant pour des filles qui n'en buvaient
guère : mais j'en fus fâché, car j'avais un peu compté sur ce secours
pour m'enhardir. Elles en furent fâchées aussi, par la même raison
peut-être, mais je n'en crois rien. Leur gaieté vive et charmante était
l'innocence même : et d'ailleurs qu'eussent-elles fait de moi entre
elles deux ? Elles envoyèrent chercher du vin partout aux environs ; on
n'en
trouva point, tant les paysans de ce canton sont sobres et pauvres.
Comme elles m'en marquaient leur chagrin, je leur dis de n'en pas être
si
fort en peine, qu'elles n'avaient pas besoin de vin pour m'enivrer. Ce
fut la seule galanterie que j'osai leur dire de la journée ; mais je
crois que les friponnes voyaient de reste que cette galanterie était une
vérité.
Nous dînâmes*
dans la cuisine de la
grangère, les deux amies assises sur des bancs aux deux côtés de la
longue table, et leur hôte entre elles deux sur une escabelle* à trois pieds. Quel dîner ! Quel souvenir plein de charmes ! Comment, pouvant à si peu de frais goûter des
plaisirs si purs et si vrais, vouloir en rechercher d'autres ? Jamais souper des petites maisons de Paris*
n'approcha de ce repas, je ne dis pas seulement pour la gaieté, pour la douce joie, mais je dis pour la sensualité.
Après le dîner
nous fîmes une économie. Au
lieu de prendre le café qui nous restait du déjeuner, nous le gardâmes
pour le goûter avec de la crème et des gâteaux qu'elles avaient
apportés ; et pour tenir notre appétit en haleine, nous allâmes dans le
verger achever notre dessert avec des cerises. Je montai sur l'arbre, et
je leur en jetais des bouquets dont elles me rendaient les noyaux à
travers les branches. Une fois, Mlle Galley, avançant son
tablier
et reculant la tête, se présentait si bien, et je visai si juste, que je
lui fis tomber un bouquet dans le sein : et de rire. Je me disais en
moi-même : Que mes lèvres ne sont-elles des cerises ! Comme je les leur
jetterais ainsi de bon cœur.
La
journée se passa de cette sorte à folâtrer avec la plus grande liberté,
et toujours avec la plus grande décence. Pas un seul mot équivoque, pas
une seule plaisanterie hasardée ; et cette décence, nous ne nous
l'imposions point du tout, elle venait toute seule, nous prenions le ton
que nous donnaient nos cœurs. Enfin ma modestie, d'autres diront ma
sottise, fut telle, que la plus grande privauté* qui m'échappa fut de baiser une seule fois la main de Mlle
Galley. Il est vrai que la circonstance donnait du prix à cette légère
faveur. Nous étions seuls, je respirais avec embarras, elle avait les
yeux baissés. Ma bouche, au lieu de trouver des paroles, s'avisa de se
coller sur sa main, qu'elle retira doucement après qu'elle fut baisée,
en
me regardant d'un air qui n'était point irrité. Je ne sais ce que
j'aurais pu lui dire : son amie entra, et me parut laide en ce moment.
Enfin
elles se souvinrent qu'il ne fallait pas attendre la nuit pour
rentrer en ville. Il ne nous restait que le temps qu'il fallait pour
arriver de jour, et nous nous hâtâmes de partir en nous distribuant
comme
nous étions venus. Si j'avais osé, j'aurais transposé cet ordre ; car le
regard de Mlle Galley m'avait vivement ému le cœur ; mais je
n'osai rien dire, et ce n'était pas à elle de le proposer. En marchant
nous disions que la journée avait tort de finir, mais, loin de nous
plaindre qu'elle eût été courte, nous trouvâmes que nous avions eu le
secret de la faire longue, par tous les amusements dont nous avions su
la
remplir.
Je
les quittai à peu près au même endroit où elles m'avaient pris. Avec
quel regret nous nous séparâmes ! Avec quel plaisir nous projetâmes de
nous revoir ! Douze heures passées ensemble nous valaient des siècles de
familiarité. Le doux souvenir de cette journée ne coûtait rien à ces
aimables filles ; la tendre union qui régnait entre nous trois valait
des
plaisirs plus vifs, et n'eût pu subsister avec eux : nous nous aimions
sans mystères et sans honte, et nous voulions nous aimer toujours ainsi.
L'innocence des mœurs a sa volupté, qui vaut bien l'autre, parce qu'elle
n'a point d'intervalle et qu'elle agit continuellement. Pour moi, je
sais que la mémoire d'un si beau jour me touche plus, me charme plus, me
revient plus au cœur que celle d'aucuns plaisirs que j'aie goûtés en ma
vie. Je ne savais pas trop bien ce que je voulais à ces deux charmantes
personnes, mais elles m'intéressaient beaucoup toutes deux. Je ne dis
pas que, si j'eusse été le maître de mes arrangements, mon cœur se
serait partagé ; j'y sentais un peu de préférence. J'aurais fait mon
bonheur
d'avoir pour maîtresse Mlle de Graffenried ; mais à choix, je
crois que je l'aurais mieux aimée pour confidente. Quoi qu'il en soit,
il me semblait en les quittant que je ne pourrais plus vivre sans l'une
et sans l'autre. Qui m'eût dit que je ne les reverrais de ma vie, et que
là finiraient nos éphémères amours ?
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