mercoledì 8 gennaio 2014

Cinque Stelle in Sardegna

Marianna Rizzini 
Ciao democrazia diretta. Il caso sardo e il ripudio grillino dello sfogatoio web
Il Foglio, 8 gennaio 2013

In principio fu l’assemblea. Come quella del liceo, come quella di un film di Nanni Moretti: l’assemblea come idolo. Ma ora anche i Cinque Stelle, che all’assemblea perenne avevano eretto un altare simbolico, si stanno accorgendo che il cosiddetto “problema di metodo” è di merito: la democrazia diretta non può essere così minuziosamente diretta, pena l’inconcludenza (e, più che altro, l’irrilevanza). Capita infatti che in Sardegna Beppe Grillo – padre-padrone, sì, ma dal suo punto di vista per fortuna – salvi gli attivisti da se stessi, negando alle fazioni litiganti l’uso del simbolo per le regionali, nonostante i risultati delle politiche (Cinque Stelle primo partito nell’isola).
E capita che, sempre in Sardegna, la deputata di M5s Emanuela Corda dica parole che mesi fa sarebbero state infilzate dai compagni parlamentari in streaming: “…Avrei voluto abbandonare il tavolo. Temo che alcuni abbiano scambiato il Movimento per uno sfogatoio dove poter fare il proprio comodo, senza curarsi del fatto che, in certi contesti, occorra rispettare delle elementari regole di buona educazione… ‘Uno vale uno’ non significa che chiunque possa irrompere in un’assemblea e metterla a soqquadro. Non significa che ‘uno vale l’altro’ e che chi urla di più ha infine ragione”. E’ il re nudo, un tempo neppure guardabile dai neoparlamentari grillini (pena la crisi prematura d’identità). Ma è soprattutto l’ultima pietra lungo la via della disillusione: dalla democrazia diretta, dalla democrazia del Web, dall’idea che il Web che vomita qualsiasi suggestione epidermica sia panacea e rigenerazione. Visti poi i recenti incidenti da malaugurio twitteriano d’ogni provenienza (contro Pier Luigi Bersani in ospedale e contro la studentessa malata, viva grazie a esperimenti su animali) una parte dei Cinque Stelle eletti si è detta: ma questo è troppo. Troppo anche per un Web ideale da pianeta Gaia (quello di Gianroberto Casaleggio).
“Non siamo pronti… c’è troppo livore, troppa incoscienza, troppo protagonismo nell’esternare ai quattro venti un malessere che è figlio primariamente delle nostre debolezze”, ha detto Emanuela Corda, e a questo punto ci si chiede che cosa l’abbia finora trattenuta dal denunciare una realtà lampante fin dal primo giorno di permanenza dei Cinque Stelle sulla ribalta nazionale, e dal trarne le conseguenze: la maleducazione è acuita proprio dal fatto di sentirsi legittimati dall’esistenza teorica della democrazia diretta (“uno vale uno” dunque io comando come te e comunque non comandi tu). Lo specchio, agli occhi di molti eletti, quotidianamente alle prese con le orde di “fan” anche insultanti sui social network, non rimanda più l’immagine dei cittadini candidi, migliori di chiunque possa lontanamente essere accomunato per status o pensiero alla fantomatica “casta”. Ma lo specchio, agli occhi degli attivisti, rimanda l’immagine di uno spreco: ma come, dite no a qualsiasi accordo sulla legge lettorale? Ma come, non vi presentate dove eravate primo partito? E infatti ieri, sul Web, era profluvio di critiche contro i parlamentari a Cinque Stelle sardi, rei, per la base, di mancata “consultazione” e “compattazione” dei gruppi locali (commento più gentile: “Dalle stelle alle stalle”).
Ed è il pavimento che va in pezzi sotto ai piedi, per chi, emerso dal web grazie a un clic, si ritrova perennemente inchiodato da un clic (ne sa qualcosa l’ex grillino poi espulso Antonio Venturino, bersaglio, su Facebook, degli indignati della pizza: se un eletto proprio deve mangiarla, la pizza, che almeno sia margherita, ché la capricciosa costa troppo). Grillo ha tolto il simbolo e basta (“partecipare non è obbligatorio”, ha detto ieri), ma il fatto scatena dietrologie. “E’ una mossa per non perdere in vista delle Europee”, dicevano ieri, smentiti dai vertici a Cinque Stelle che annunciano liste in Abruzzo, gli osservatori anche benevoli che continuano a vedere in Grillo un pensoso stratega politico (peccato che Grillo continui a restare prima di tutto un attore).

lunedì 6 gennaio 2014

Sergio Rizzo, Roma


Sergio Rizzo
Roma, deficit a quota un miliardo
Il peccato capitale di una città in dissesto
La città? Ha più dipendenti della Fiat
Assunzioni record per Atac, Ama e Acea: 31 mila occupati

Corriere della Sera, 6 gennaio 2014

È dura da credere. Ma c’è un farmacista, in Italia, che vendendo le medicine riesce perfino a rimetterci una barca di soldi. Si tratta del Comune di Roma. Le farmacie comunali hanno 362 dipendenti e il Campidoglio ha già tirato fuori 15 milioni per tappare i buchi pregressi. Ma per rimetterle in sesto ce ne vorranno altri 20. Dice tutto la verifica affidata alla Ernst & Young che si è resa necessaria per comprendere la reale situazione. Gli esperti hanno scoperto uno scostamento di 7,3 milioni nell’attivo rispetto ai dati scritti nel bilancio 2011. Quasi tre milioni solo la differenza fra le «rimanenze di magazzino» contabilizzate e quelle accertate: 9,1 milioni contro 6,2. Sono cifre rivelate da un dossier che il consigliere comunale radicale Riccardo Magi sta per pubblicare sul sito internet Opencampidoglio.it. Il primo di una serie di fascicoli scottanti dedicati allo scenario impressionante delle municipalizzate romane.
Ventisei società, più una marea di controllate: oltre cinquanta quelle di Acea (energia e acqua), Ama (rifiuti) e Atac (trasporti). Tre gruppi che da soli hanno qualcosa come 31.338 dipendenti, ovvero l’85 per cento del personale di tutte le partecipate comunali, che si aggira intorno alle 37 mila unità. Circa diecimila in più rispetto ai 26.800 dipendenti degli stabilimenti Fiat in Italia. Senza contare i 25 mila dipendenti diretti dell’amministrazione comunale.
Sostengono i tecnici che Roma Capitale ha un disavanzo strutturale di circa 1,2 miliardi l’anno. Ed è proprio sulla galassia delle società comunali che gravano le responsabilità maggiori di una situazione, in assenza di interventi, ai limiti del dissesto. L’Atac, per esempio. Con un numero di stipendi paragonabile a quello dell’Alitalia ha accumulato in dieci anni perdite per 1,6 miliardi. Negli ultimi cinque anni si sono avvicendati al suo vertice ben quattro amministratori delegati e un numero imprecisato di presidenti e consiglieri, senza riuscire a rimetterla in carreggiata. Il contratto di servizio costa al Comune una cifra che si aggira intorno ai 400 milioni l’anno, ma per il 2014 la richiesta era di oltre 500.
La verità è che queste aziende, e non è certo una particolarità di Roma, sono state spesso interpretate dalla politica, anche con pesanti complicità sindacali, alla stregua di poltronifici o gigantesche macchine clientelari, piuttosto che strumenti per fornire servizi essenziali alla città da gestire oculatamente. Salvo poi trovarsi di fronte a sorpresine al pari di quella spuntata nell’ultimo bilancio dell’Ama, che dà notizia di una raffica di arbitrati innescati dalla società titolare della discarica di Malagrotta. Alcuni dei quali già conclusi nel 2012 in primo grado con la condanna dell’azienda pubblica a pagare alla ditta che fa capo a Manlio Cerroni, tenetevi forte, la bellezza di 78,3 milioni di euro. Ma leggere l’elenco delle controversie in cui è incappata la municipalizzata dei rifiuti, indebitata con le banche per 670 milioni, somma paragonabile ai ricavi di un anno, e capace di assumere 1.518 persone fra il 2008 e il 2010, strappa anche qualche amaro sorriso: quando salta fuori che fra le innumerevoli cause in cui è protagonista l’Ama ce n’è persino una con l’Atac. Che va avanti da almeno sette anni, fra sentenze ricorsi e controricorsi, per la gioia degli avvocati. E chissà quanto durerà ancora.
Il tempo del presidente Piergiorgio Benvenuti, esponente di Fratelli d’Italia, scade invece giovedì 9 gennaio, quando l’assemblea dovrà nominare il suo successore: incrociamo le dita. Al contrario il presidente dell’Acea Giancarlo Cremonesi, nominato dal centrodestra, seduto su una dozzina di poltrone metà delle quali pubbliche nonché socio di un gruppo di imprese edili e immobiliari, è in una botte di ferro. Questo perché in piena campagna elettorale la precedente amministrazione comunale procedette elegantemente al rinnovo dei vertici, confermando in blocco tutto il consiglio.
Con clausole tali che la sostituzione prematura comporterebbe comunque il pagamento dei loro emolumenti fino all’aprile 2016. E che emolumenti. Al presidente Cremonesi, 408 mila euro l’anno. All’amministratore delegato e direttore generale Paolo Gallo, un milione 318 mila euro più un appartamento da 4.300 euro al mese ai Parioli e automobile adeguata. Agli altri sette consiglieri, una media di 120 mila euro ciascuno. Chi sono? Due rappresentanti del socio francese Gdf, una dirigente del Comune, l’ex parlamentare del Pdl ed ex assessore della giunta Alemanno Maurizio Leo, Francesco Caltagirone junior, il consorte dell’ex Guardasigilli Paola Severino nonché ex commissario Consob (l’Acea è quotata in Borsa) Paolo Di Benedetto, e il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy.
Da una società del genere sarebbe naturale attendersi utili a palate. Invece nel 2012 i profitti netti sono stati di appena 77 milioni e anche se nei primi nove mesi del 2013 hanno superato i 100, restano striminziti. Certi fatti, del resto, parlano da soli. Negli ultimi cinque anni i debiti sono cresciuti di circa un miliardo, toccando 2 miliardi e mezzo. Ed è di qualche mese fa la scelta di fondere due società energetiche del gruppo, una delle quali (Acea energia spa) ha accumulato in 18 mesi perdite per 56 milioni.
Ma tutto va avanti come nulla fosse. Almeno se è vero che l’ufficio del personale diretto da Paolo Zangrillo, incidentalmente fratello del medico personale di Silvio Berlusconi, ha proceduto qualche giorno fa all’assunzione di un nuovo capo della comunicazione nella persona di Stefano Porro, ex capoufficio stampa del ministro dello Sviluppo dell’ultimo governo del Cavaliere, Paolo Romani, Passera e Zanonato. Accade mentre è da un mese senza incarico il vecchio responsabile Maurizio Sandri, licenziato due anni fa dopo essere stato parcheggiato a lungo su un binario morto per ragioni politiche (aveva collaborato in passato con amministrazioni di centrosinistra), e reintegrato all’inizio di dicembre dal giudice del lavoro. E accade in una struttura, quella delle relazioni esterne, dove sono in 25. Compreso il capo ufficio stampa Salvo Buzzanca, incidentalmente fratello minore dell’attore Lando Buzzanca nonché, ha ricordato Ferruccio Sansa sul Fatto Quotidiano, zio di Massimiliano Buzzanca: figlio di Lando e compagno di Serena Dell’Aira, collaboratrice di Cremonesi.

domenica 5 gennaio 2014

Rossanda, venti interviste

Tommaso di Francesco
Rossana Rossanda, una stagione grande e aperta
il manifesto, 4 dicembre 2013

La forma dell’intervista è una com­pli­cità «fra due che si par­lano»: così Ros­sana Ros­sanda intro­duce il suo libro «Quando si pen­sava in grande. Tracce di un secolo. Col­lo­qui con venti testi­moni del Nove­cento» (Einaudi, pp 243 euro 17,50). Venti inter­vi­stati, tutti uomini per­ché, sot­to­li­nea l’autrice, que­sta è la sto­ria della poli­tica che ha escluso le donne. Non un «come era­vamo» ma un monito: a pen­sare. E in grande, ripro­po­nendo i non con­clusi temi del «secolo breve» che, già nel primo decen­nio del nuovo secolo mostrano la loro cogente attua­lità e urgenza. Aggre­gato per temi piut­to­sto che cro­no­lo­gi­ca­mente — le inter­vi­ste, uscite su il mani­fe­sto quo­ti­diano comu­ni­sta tranne quella a Sar­tre pub­bli­cata nel set­tem­bre 1969 sul Mani­fe­sto rivi­sta, vanno dal 1965 al 1998.
Per Ros­sana Ros­sanda il nodo della crisi delle società del capi­ta­li­smo maturo è ancora all’ordine del giorno in epoca glo­bale, non biso­gna abban­do­nare il campo della rifles­sione sull’89 (sul tra­monto dei socia­li­smi rea­liz­zati nell’est euro­peo), ma anche sulla caduta dei com­pro­messi social­de­mo­cra­tici. In buona sostanza torna d’attualità la domanda sul comu­ni­smo. Con nuovi stru­menti cri­tici a sini­stra, sapendo che «con il vol­gere del secolo, di sini­stra, anche della più mode­rata, non rimane nulla», arresa com’è al libe­ri­smo. E man­te­nendo aperta la porta ai para­digmi cul­tu­rali affatto diversi dal movi­mento ope­raio tra­di­zio­nale: il fem­mi­ni­smo e le que­stioni di genere e le cor­renti eco­lo­gi­ste rel­ative ai limiti dello svi­luppo — qui l’intervista a Ignacy Sacs è illuminante.

Una fon­da­men­tale «ontologia»

Con György Lukacs — que­sta prima inter­vi­sta non è della «comu­ni­sta ere­tica e ses­san­tot­tina tar­diva» ma dall’ancora espo­nente del comi­tato cen­trale del Pci — si parla di let­te­ra­tura, ma è un espe­diente. In realtà al cen­tro ci sono l’ombra del XX Con­gresso, la tra­ge­dia unghe­rese del ’56, i limiti della pia­ni­fi­ca­zione deri­vata dall’Urss e la cri­tica alle cate­go­rie della psi­ca­na­lisi e dell’esistenzialismo intese come pos­si­bili «inte­gra­tori» del mar­xi­smo. Si può già indi­vi­duare un punto cen­trale da cui ripar­tire? Chiede Ros­sana Ros­sanda. «Marx ha comin­ciato dall’analisi della strut­tura e anche noi dob­biamo ripar­tire da qui — risponde Lukacs, rive­lando che in quel periodo sta scri­vendo la sua opera fon­da­men­tale Onto­lo­gia dell’essere sociale — occorre una teo­ria valida della ripro­du­zione in un sistema socialista…Le nostre pia­ni­fi­ca­zioni sono fal­lite per­ché nel periodo sta­li­niano è stata can­cel­lata dalla teo­ria la dia­let­tica tra valore di cam­bio e valore d’uso, annul­lando con ciò di fatto la pos­si­bi­lità stessa di una teo­ria della riproduzione…».
Il filo­sofo mar­xi­sta unghe­rese è per Ros­sanda «la mia gente»; non lo era pro­prio il mostro sacro del comu­ni­smo fran­cese e della poe­sia tran­sal­pina, Louis Aragon, pro­ta­go­ni­sta dell’incontro più sgra­de­vole del libro e insieme più iro­nico. Dove si pavo­neg­gia l’intellettuale nazio­nale, «uomo bel­lis­simo», vani­toso dei suoi versi, ricco per meriti di par­tito dal quale «prese tutto senza dare nulla», che vive nell’agio nel cuore della Parigi ricca. Espo­nente di quel Pcf diven­tato alla fine nemico giu­rato del nuovo e dei movi­menti emersi nel ’68 e che, nell’intervista, non perde occa­sione di sfer­zare il «fra­tello minore Pci». L’intervistatrice non ne può più e, men­tre Ara­gon si parla addosso, lei tenta di uscire dalla sala dell’incontro, ma quello la riac­ciuffa con la sua sicu­mera. Quando alla fine riu­scirà a gua­da­gnare la strada, Ros­sana sarò così fra­stor­nata da cadere per terra ai primi passi tra le foglie bagnate, sopraf­fatta dal tanto peso di sé di un essere umano. Chie­den­dosi: «Che comu­ni­smo era il suo?”

Incon­ci­lia­bi­lità e punti ciechi

Punti focali del libro le inter­vi­ste a Jean-Paul Sar­tre e a Louis Althus­ser. La prima, Par­titi e movi­menti due realtà incon­ci­lia­bili, del set­tem­bre ’69, rea­liz­zata nell’imminente radia­zione del gruppo del Mani­fe­sto dal Pci, anti­cipa l’elaborazione che sul Mani­fe­sto rivi­sta la stessa Ros­sanda fece con il titolo Da Marx a Marx, sui limiti della forma par­tito e sulla neces­sità di un nuovo, cen­trale ruolo, e insieme qua­lità, dei movi­menti di massa. Con l’elaborazione di quella che si chiamò «stra­te­gia con­si­liare». A rileg­gerla tra­spare come una pro­fe­zia sull’universo informatico-telematico dei nostri giorni. Per­ché Sar­tre, nel ren­dere evi­dente l’elemento vin­cente del par­tito rispetto ai soli gruppi infor­mali, li chiama «in fusione», rico­no­scen­done però la loro imme­dia­tezza e rap­pre­sen­tanza diretta: come non pen­sare allo sta­tus delle nuove mobi­li­ta­zione poli­ti­che e gruppi nati e codi­fi­cati su web? Con la loro con­su­ma­bi­lità momen­ta­nea e cadu­cità tem­po­ra­nea, senza una memo­ria lunga che, pur non essendo neces­sa­ria­mente del «par­tito», non sia tut­ta­via solo seriale ma dura­tura e supe­riore alla rap­pre­sen­tanza poli­tica che non c’è più.
La seconda ad Althus­ser, Il punto di cieco di Marx, la que­stione dello Stato, è dell’aprile 1978 e prende spunto dalle sue affer­ma­zioni fatte al con­ve­gno del Mani­fe­sto di Vene­zia (novem­bre 1977) sull’inesistenza in Marx di una teo­ria dello Stato. Qui insi­ste sul comu­ni­smo «come ten­denza e realtà inter­sti­ziale» al capi­ta­li­smo in crisi, come sulla neces­sità di non ren­dere «vaga» la per­ce­zione di que­sta ten­denza, di dirlo insomma il comu­ni­smo nei suoi obiet­tivi pro­gram­ma­tici. Mate­ria­li­sti­ca­mente e non idea­li­sti­ca­mente come fosse una evo­ca­zione «feti­ci­sta». Ma l’equivoco più grande è lo Stato, al quale tutto, società poli­tica, par­tito e sin­da­cato — per­dendo così la loro natura di classe -, si riduce. E non ci sono dis­si­mu­la­zioni sulla pre­sunta novità dello «Stato allar­gato»: «Lo Stato è sem­pre stato allar­gato». Nell’introduzione l’autrice parla della sua impe­ri­tura ami­ci­zia con Althus­ser e con la moglie Hélène Ryt­man, fino alla prova estrema: «Le cir­co­stanze mi por­ta­rono a essere vicina a loro due nei giorni in cui egli la uccise; resto per­suasa che non volesse affatto la sua morte, ma non fosse in grado di ascol­tare quel che lei pen­sava di avere sco­perto pro­prio allora sull’origine della sua malat­tia e aveva impru­den­te­mente deciso di dirgli».
Ecco la luce affet­tiva della spe­ranza. Quella del mili­tante ses­san­tot­tino Etienne Grum­bach, cuore pul­sante delle agi­ta­zioni ope­raie alla Renault di Flins, che non dismette mai l’impegno del suo «pes­si­mi­smo attivo». Così come spe­ranza e pas­sione tra­spa­iono dagli incon­tri di due mas­simi ana­li­sti delle crisi inter­na­zio­nali, Maxime Rodin­son del Medio Oriente e Paul Sweezy degli Stati Uniti.

Le crisi attra­ver­sate e infinite

L’intervista a Rodin­son è del 5 ago­sto 1982, pochi giorni prima del mas­sa­cro a Bei­rut di Sabra e Cha­tila. Egli non avverte che la nega­zione di una solu­zione, anzi la can­cel­la­zione da parte dell’Occidente e di Israele della crisi di tutte le crisi, quella pale­sti­nese, e il suo abban­dono all’occupazione mili­tare israe­liana, alle colo­nie che si espan­dono e al Muro dell’apartheid, avrebbe com­por­tato — insieme ad una frat­tura anche vio­lenta del movi­mento pale­sti­nese stesso — una radi­ca­liz­za­zione ideo­lo­gica, nella fat­ti­spe­cie isla­mica, in tutti i Paesi arabi, con il ritorno della guerra impe­riale all’ordine del giorno. Così come Paul Sweezy non com­prende che gli Stati uniti, pur man­te­nendo «le spese mili­tari come ele­mento essen­ziale della sta­bi­lità ame­ri­cana» ave­vano deciso il ritiro dal Viet­nam — a que­sto pun­tava il viag­gio del ’71 di Nixon a Pechino — e che quella vit­to­riosa lotta di popolo matu­rava un ridi­se­gno del con­flitto glo­bale nella Guerra fredda: in Asia con la guerra civile in Cam­bo­gia e la svolta epo­cale cinese, in Africa con lotta al neo­co­lo­nia­li­smo, in Ame­rica Latina con i golpe.
Così, un bri­vido si prova alle parole del pre­si­dente cileno Sal­va­dor Allende che Ros­sana incon­tra nel ’71 nel palazzo della Moneda. Si avverte la sua soli­tu­dine, lo sforzo immane, l’equilibrio dif­fi­cile per soste­nere il «cam­bia­mento socia­li­sta». E la sua tra­gica e mal­ri­po­sta fidu­cia nella lealtà dei mili­tari. Men­tre se la prende con il nipote del Mir che, attac­cando l’esercito, «gioca col fuoco». Per­ché «…qui se l’esercito esce dalla lega­lità è la guerra civile. È l’Indonesia. Cre­dete che gli ope­rai si lasce­ranno togliere le indu­strie? E i con­ta­dini le terre? Ci saranno cen­to­mila morti, sarà un bagno di san­gue». Sap­piamo com’è andata.
Stessa emo­zione per l’incontro a Lisbona con il mag­giore Erne­sto de Melo Antu­nes, lea­der della rivo­lu­zione dei garo­fani, nel disa­dorno palazzo del par­la­mento di San Bento. «Quel che oggi pos­siamo fare è cam­biare il modo in cui finora si è pen­sato lo svi­luppo, e cioè sem­pre e solo in ter­mini di acce­le­ra­zione di pro­du­zione e inve­sti­menti. Noi pre­fe­riamo par­lare di una via socia­liz­zante…». Era il gen­naio del 1975. Noi, al seguito, assi­ste­vamo ai semi­nari di Ros­sana Ros­sanda al Cen­tro Gubel­kian, il dopo­la­voro dello stato mag­giore por­to­ghese, sui pro­cessi di tran­si­zione. A segnora — così la chia­ma­vano — par­lava appas­sio­nata e fuori mon­ta­vano la guar­dia gio­va­nis­simi che­gue­vara bar­buti, sol­dati in mime­tica e mitra­glia in spalla, appena rien­trati dall’Angola e dal Mozam­bico. Quanto poteva durare? E non durò. Non capimmo, anche per l’enfasi reto­rica dei tanti arri­vati da tutta Europa a «diri­gere» con pre­sun­tuose cer­tezze la rivo­lu­zione che, al con­tra­rio, chie­deva, come faceva Ros­sana, di inter­ro­garsi insieme a noi. Che le scon­fitte alla fine — e vale anche per noi, adesso — non siano il ter­reno più fer­tile da seminare?

sabato 4 gennaio 2014

Selfie parola dell'anno

Selfie
L’ansia di riempire il vuoto interiore
L’autoscatto condiviso da semplice passatempo adolescenziale diventa pratica dei grandi del mondo, come è accaduto ai funerali di Mandela
E l’Oxford Dictionary la consacra parola dell’anno
Dietro questo fenomeno si nasconde un rischio il sentimento di non avere una personalità vera

la Repubblica, 29 dicembre 2013

In un film che ha fatto epoca titolato Zelig (1983), Woody Allen ha raccontato con la sua indubbia maestria tragica e ironica la patologia di un uomo che doveva assimilarsi all’ambiente e ai personaggi che frequentava per dare valore alla sua vita. Questa caricatura del soggetto – camaleonte impegnato in continui trasformismi per ridurre il suo senso di profonda estraneità trova un corrispettivo clinico preciso in una patologia che la psicoanalisi degli anni Cinquanta aveva definito con il termine di “personalità come se” (as if) (Helene Deutsch). Di cosa si trattava? Un soggetto senza mondo interiore, vuoto, staccato dall’energia vitale del suo desiderio, privo di un senso proprio dell’identità, poteva trovare una identità posticcia solo identificandosi a chi lo circondava, vivendo conformisticamente come fanno gli altri, adottando una maschera sociale rigida per colmare quel senso inestinguibile di superfluità che portava con sé. In questo caso la patologia mentale non consisteva più in una deviazione dalla norma, in una frattura con l’ordine costituito delle cose (come accadeva nella follia delirante studiata da Michel Foucault e da Franco Basaglia), ma in un eccesso di adattamento alla realtà, in una esasperata assimilazione alla normalità. In tutti questi nuovi quadri clinici in gioco sarebbe una patologia narcisistica con un fondo depressivo: il soggetto che sente di non avere alcun valore in sé (depressione) cerca di recuperarlo identificandosi a figure ideali che gli consentirebbero di edificare un Io più amabile (narcisismo). Ecco allora la ragione delle metamorfosi infinite di Zelig, che come un camaleonte cambia continuamente pelle. Di volta in volta, egli è un artista, un medico, un suonatore di jazz nero, uno psicoanalista...
Una versione aggiornata ai nuovi social network della figura di Zelig si può forse trovare nei cosiddetti “Selfie”, ovvero in coloro che tendono a fotografarsi di fianco a personaggi illustri o meno e in circostanze pubbliche di particolare valore storico o cronachistico, ma anche a riprodurre pubblicamente, grazie a Internet, i momenti più privati della loro vita per poi esibire a un loro pubblico questa specie di reliquia post-moderna. Tutto avviene “come se”: per un verso, i nuovi Zelig si autoriproducono con una solerzia incessante riducendo illusoriamente la distanza che li separa dal nome del personaggio o dall’evento ritratto come se facessero parte della loro vita; per un altro verso, provano a innalzare l’ordinarietà della loro stessa vita come se fosse il senso del mondo facendo degli spettatori una sorta di suo specchio ideale. Se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla propria esistenza. È il sintomo clinico prevalente delle personalità come se: la percezione diffusa della propria inesistenza, l’assenza del sentimento della vita.
Di nuovo troviamo al centro il binomio depressione narcisismo che è, a mio giudizio, un binomio decisivo per intendere più in generale le mutazioni antropologiche del nostro tempo. La nostra immagine è tristemente vuota (gli ideali collettivi e soggettivi sono evaporati) e può essere riempita solo grazie al cemento narcisistico offerto da un valore aggiunto: il personaggio famoso, l’evento imperdibile, l’uso della vetrina di Facebook, la moltiplicazione anonima delle amicizie, ma anche la pura esibizione della propria persona di fronte al pubblico anonimo dei social network.
La dimensione autoreferenziale di questo foraggiamento narcisistico di un soggetto in realtà tristemente vuoto è evidente, già tutto contenuto nella parola “autoscatto”. Non si fotografa più il mondo, ma il mondo serve come sfondo per una iniezione narcisistica a un soggetto che si vive come insignificante. Non si tratta di psichiatrizzare una pratica che oggi ha assunto il carattere di una epidemia virale e che coinvolge anche figure come quella del Presidente degli Stati Uniti. Ma è indubbio che in molte di queste fotografie vediamo emergere un profondo senso di tristezza. È quella stessa sensazione che circonda la vita del povero Zelig di Woody Allen. Sotto la maschera non c’è niente: apparire prende il posto dell’essere rivelandoci che l’essere che esso ricopre è una realtà inconsistente. Esibire la propria vita non perché essa assume il valore universale di una testimonianza – è questo il punto di scaturigine di ogni opera d’arte –, ma perché senza questa esibizione essa correrebbe il rischio di non esistere, di essere solamente un’ombra senza vita. Il contrario siderale di quella “capacità di stare soli” con la quale Winnicott definiva la condizione minima della salute mentale.

venerdì 3 gennaio 2014

Il revisionismo come battaglia ideologica: Paolo Mieli

Miguel Gotor
Paolo Mieli e il terzismo come categoria storica
“I conti con la storia”, il nuovo saggio del presidente di Rcs libri

la Repubblica, 2 gennaio 2013
 
L’espressione «uso pubblico della storia» fu utilizzata per la prima volta nel 1986 da Jürgen Habermas nel corso di un dibattito sul tema delle responsabilità tedesche nella Shoah. Egli se ne servì per distinguere il lavoro scientifico dello storico dal dibattito pubblico sui mezzi di comunicazione di massa, privilegiando la dimensione etico-civile del primo a discapito del secondo. Nel corso degli ultimi trent’anni, a seguito della rivoluzione tecnologica che ha caratterizzato in modo particolare il settore dei mass media, questa distinzione in negativo è andata sfumando e si è affermata un’accezione positiva del concetto che includerebbe tutto ciò che di storico è veicolato al di fuori dei luoghi deputati alla ricerca scientifica: dai giornali alle televisioni, ai monumenti, alle cerimonie pubbliche.
Tra i principali artefici dell’uso pubblico della storia in Italia è certamente l’attuale presidente di Rcs libri Paolo Mieli, ex direttore deLa Stampa e del Corriere della Sera, che svolge da anni un ruolo di filtro e di mediazione fra il grande pubblico e la ricerca storica. All’inizio egli ha adempiuto a questa funzione rispondendo alle lettere del Corriere al posto che fu di Indro Montanelli, poi vestendo i panni del recensore di libri di storia. Il suo ultimo volume I conti con la storia. Per capire il nostro tempo raccoglie per l’appunto un’ampia selezione di articoli e rappresenta una sorta di biblioteca ideale e di guida alla lettura utile non solo al grande pubblico, ma anche agli studiosi della materia che spazia dall’antica Grecia al fascismo, da Spartaco a Gramsci, dall’Inquisizione al Risorgimento, da Bismarck alla guerra civile spagnola. È interessante soffermarsi sui criteri generali adottati da Mieli nella scelta dei libri da recensire e dunque da divulgare presso un pubblico di non specialisti perché ciò aiuta a riflettere sui meccanismi di funzionamento dell’uso pubblico della storia in Italia, una delle principali coordinate su cui oggi opera lo storico della contemporaneità, all’incrocio tra il mondo della politica e quello della comunicazione. La prima costante è la centralità del tema della memoria e della sua contraddittorietà. Mieli è consapevole che storia e memoria sono due binari paralleli destinati a correre insieme senza però incontrarsi mai. Resiste quindi alla retorica imperante della memoria condivisa e si schiera a favore dell’utilità di un benefico oblio valorizzando la “messa a distanza” critica del passato, mettendone in luce la complessità.
La seconda costante è la centralità della vittima come testimone di un trauma, il nuovo eroe del racconto storico di oggi. Mieli, sulla scorta di alcune suggestive riflessioni del filosofo Mario Perniola, nota come le odierne civiltà della colpa tendano a trasformare la politica in etica dilatando enormemente le categorie di responsabilità. L’ipertrofia della morale, però, produce il trionfo del cinismo e della spudoratezza: se ognuno di noi è moralmente corresponsabile di tutti i mali del mondo, allora non lo è più nessuno e si produce una generale autoassoluzione in cui il politico si limita a cambiare il nome alle cose piuttosto che proporsi di cambiarle veramente.
La terza costante è la centralità del revisionismo come battaglia ideologica, in particolare contro il paradigma interpretativo di derivazione gramsciano-azionista della storia d’Italia. In effetti, la stragrande maggioranza dei libri recensiti da Mieli che riguardano i principali nodi della storia nazionale, dalla Riforma protestante all’Inquisizione romana, dal Risorgimento alla Resistenza, dal fascismo all’antifascismo, è funzionale a cogliere quest’obiettivo che tende a valorizzare le zone grigie dell’agire umano, il momento della contraddizione a discapito di quello della decisione. L’ultimo ventennio di uso pubblico della storia sui giornali è stato dominato da questo canto “terzista” che si è ormai trasformato a sua volta in un canone da rivedere perché ha esaurito la sua funzione di puntellare sul piano ideologico e di moderare su quello politico l’egemonia culturale del berlusconismo. Proprio questa è la principale ricchezza del libro di Mieli: da un lato, serve come non mai a «capire il nostro tempo», ma dall’altro ci dice che un’intera stagione è ormai giunta al tramonto.

lunedì 30 dicembre 2013

Hannah Arendt: la politica, il nuovo, la libertà

Laura Boella
La politica ha senso in se stessa: il mito della polis ateniese
Europa, 13 agosto 2013
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Meritano una rilettura le pagine di Vita activa in cui alla «condizione umana» viene restituita la sua massima prerogativa, quella di «dare inizio», di introdurre il «miracolo» del nuovo nel mondo. L’attuale crisi della politica ha dei tratti inconfondibilmente nuovi, e non si tratta semplicemente di rileggere un “classico”. Occorre piuttosto cogliere fino in fondo l’effetto straniante (Arendt fu acuta lettrice di Brecht), lucido e per nulla idealizzante, della concezione arendtiana di politica.
Vita activa si propone di ridefinire il concetto di azione. Dopo averla distinta dal “lavoro” – l’attività dell’animal laborans che corrisponde allo scambio organico tra uomo e natura necessario per la riproduzione della vita biologica – e dall’«opera» – l’attività di fabbricazione attraverso cui l’uomo crea una «seconda natura», producendo beni durevoli, dagli oggetti d’uso alle opere d’arte – l’«azione» nel senso autentico del termine rappresenta la massima espressione della dignità umana, l’attività attraverso cui l’individuo dà senso alla propria esistenza, riscattandosi dai vincoli biologici e affermando la propria unicità. Ne sono esempio la virtù del cittadino della polis, il coraggio dell’eroe omerico. L’azione diventa propriamente principio dell’agire politico quando si coniuga con la pluralità e con il discorso. Nasce così lo «spazio pubblico», ossia la forma di comunità che per Arendt ha la realtà dell’«agire di concerto» nel mondo comune. Si tratta di una realtà radicalmente intersoggettiva e relazionale. Non coincide con alcun territorio o spazio determinati, sta prima delle varie forme di governo o di organizzazione della vita pubblica, e coincide essenzialmente con la possibilità dell’essere insieme.
Nello spazio pubblico così delineato si configura un’accezione di politica radicalmente contrastante con la tradizione del pensiero moderno. La politica non soggiace alla logica mezzo-fine, e non è ispirata al principio della sovranità, bensì ha il suo fine in se stessa, nel consentire agli esseri umani di riconoscersi e di attestare la realtà del mondo come spazio di visibilità e di discorso. La politica è una possibilità sempre aperta per chiunque, ma intrinsecamente fragile, è esercizio di un “potere” di iniziativa che non ha nulla a che vedere con la forza o con la violenza, bensì è tutt’uno con la libertà.
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testi http://machiave.blogspot.it/2013/01/hannah-arendt-unidea-alta-della-politica.html


domenica 29 dicembre 2013

Rousseau, l'idillio delle ciliege

Il tratto saliente che caratterizza il legame di Rousseau con le donne amate risulta essere la delega di ogni iniziativa e dell’'intera gestione del rapporto amoroso all’'altra, in una sorta di rinuncia a priori ad un confronto sentito come inquietante, fonte di seducenti promesse, ma anche di imprevedibili minacce.
Elena Pulcini, Introduzione (J. J. Rousseau: l’immaginario e la morale) alla Giulia o la Nuova Eloisa, Bur, Milano 1994. 


Les Confessions, Livre IV

Mi ero insensibilmente allontanato dalla città; il caldo aumentava, e passeggiavo all'ombra di un vallone lungo un ruscello. Odo alle mie spalle uno scalpitare di cavalli e voci di ragazze che parevano in difficoltà, e nondimeno ridevano di cuore. Mi volto, mi chiamano per nome, mi avvicino, e vedo due fanciulle di mia conoscenza, la signorina di Graffenried e la signorina Galley, che, non essendo cavallerizze provette, non sapevano come convincere i loro cavalli ad attraversare il ruscello. La signorina di Graffenried era una giovane bernese graziosissima, che, scacciata dal suo paese per qualche follia della sua età, aveva imitato la signora di Warens, presso la quale l'avevo vista qualche volta; ma non disponendo come lei di una pensione, era stata ben felice di appoggiarsi alla signorina Galley, che, avendola presa in amicizia, aveva persuaso la madre a dargliela come compagna, finché non si fosse potuto sistemarla altrimenti. La signorina Galley, di un anno più giovane, era ancora più bella; aveva un non so che di più delicato, di più fine; era insieme molto minuta e ben formata: il momento più bello di una fanciulla. Entrambe si amavano teneramente, e il buon carattere dell'una e dell'altra non poteva che prolungare quell'unione, se qualche amante non fosse sopraggiunto a turbarla. Mi dissero che andavano a Thônes, antico castello della signora Galley, e implorarono il mio aiuto per far guadare i cavalli, non venendone a capo da sole. Volli frustare le bestie, ma le fanciulle temevano i calci per me, e gli sbalzi per loro. Ricorsi a un altro espediente. Afferrai per la briglia il cavallo della signorina Galley, poi tirandomelo appresso, attraversai il ruscello con l'acqua a metà gamba, e l'altro cavallo seguì docilmente. Ciò fatto, volli salutare le signorine e andarmene come uno sciocco; esse si scambiarono qualche parola sottovoce, e la signorina di Graffenried, rivolta a me, disse: «No, no: non ci sfuggirete così. Vi siete inzuppato per aiutarci; e a noi spetta in coscienza la cura di asciugarvi. Bisogna, per piacere, che veniate con noi: siete nostro prigioniero.» Il cuore mi batteva, e guardavo la signorina Galley. «Sì, sì,» aggiunse lei, ridendo della mia aria smarrita, «prigioniero di guerra. Montate in groppa dietro a lei: vogliamo rispondere di voi.» «Ma, signorina, io non ho l'onore d'essere conosciuto dalla signora vostra madre: che dirà vedendomi arrivare?» «Sua madre,» rispose la signorina di Graffenried, «non è a Thônes, siamo sole; torniamo questa sera e tornerete con noi.»

L'effetto dell'elettricità non è più fulmineo di quello che produssero su di me quelle parole. Balzando sul cavallo della signorina de Graffenried, tremavo di gioia, e quando bisognò che l'abbracciassi per sorreggermi, il cuore mi batteva tanto forte che lei se ne accorse; mi disse che anche il suo batteva per la paura di cadere, ed era quasi, in quella posizione, un invito a verificare il fatto. Non osai, e per l'intiero tragitto le mie braccia le servirono da cintura, strettissima in verità, ma senza spostarsi un istante. Ogni mia lettrice mi schiaffeggerebbe volentieri, e non avrebbe torto.
L'allegria del viaggio e il cinguettio delle ragazze eccitarono a tal punto il mio che sino a sera, e finché restammo insieme, non smettemmo un momento di parlare. Mi avevano messo così perfettamente a mio agio che la mia lingua parlava quanto i miei occhi, benché non esprimesse le stesse cose. Solo per qualche istante, quando mi trovavo a tu per tu con l'una o con l'altra, la conversazione s'impacciava un poco; ma l'assente tornava prestissimo e non dava all'impaccio il tempo di chiarirsi.
Arrivati a Thônes, e io ben asciugato, facemmo colazione. Poi bisognò procedere all'importante operazione di preparare il pranzo. Le due signorine, mentre cucinavano, baciavano di tanto in tanto i figli della castalda, e il povero sguattero guardava, mordendo il freno. Dalla città erano state inviate delle provviste e c'era di che preparare un pranzo eccellente, soprattutto in fatto di ghiottonerie; ma sfortunatamente avevano dimenticato il vino. La dimenticanza non era strana per le ragazze che non bevevano; ma io ne fui seccato, perché avevo un po'contato su quell'aiuto per farmi coraggio. Anch'esse ne furono seccate, forse per lo stesso motivo, ma non posso giurarlo. La loro allegria vivace e deliziosa era l'innocenza stessa; e, d'altra parte, che cosa avrebbero fatto di me, tra loro due? Mandarono dappertutto, nei dintorni, a cercare del vino; non se ne trovò, tanto i contadini di quel cantone sono sobri e poveri. Siccome mi esprimevano il loro disappunto, dissi di non preoccuparsene tanto, ché non avevano bisogno di vino per inebriarmi. Fu l'unica galanteria che azzardai in tutta la giornata; ma credo che le furbette vedessero come quella galanteria rispondesse a verità.
Pranzammo nella cucina della castalda, le due amiche sedute sulle panche ai due lati della lunga tavola, e l'ospite in mezzo a loro, su uno sgabello a tre piedi. Che pranzo! Che ricordo affascinante! Come si può, potendo gustare a così poco prezzo piaceri tanto puri e tanto veri, pretendere di cercarne altri? Mai cena parigina in ambienti galanti uguagliò quel pranzo, non dico soltanto in allegria, nella dolce gioia; dico anche nella sensualità.

Dopo pranzo facemmo un'economia. Anziché prendere il caffé, che ci restava dalla colazione, lo serbammo per gustarlo a merenda con la panna e i pasticcini che esse avevano portato; e per mantener sveglio l'appetito, andammo nel frutteto a completare il nostro pranzo con le ciliege. Io salii sull'albero, e ne lanciavo giù a mazzettini, di cui esse mi rispedivano i noccioli attraverso i rami. Una volta, la signorina Galley, sollevando il grembiule e spostando indietro la testa, si offrì così bene al bersaglio, e io mirai così giusto, che le feci cadere un mazzetto giusto nel seno; e la risata! Dicevo dentro di me: «Perché le mie labbra non sono ciliege! Come gliele getterei volentieri!»
La giornata trascorse così, a folleggiare con la massima libertà e sempre con la maggior decenza. Non una sola parola equivoca, non uno scherzo arrischiato; e questa decenza non ce la imponevamo affatto, veniva spontanea, obbedivamo al tono che ci dettavano i cuori. Infine la mia modestia, altri diranno la mia ottusità, fu tale che la più audace intimità che mi sfuggì fu di baciare una sola volta la mano della signorina Galley. È vero che la circostanza rese prezioso questo lieve favore. Eravamo soli, io respiravo a fatica, lei teneva gli occhi bassi. Anziché cercare parole, la mia bocca scelse di posarsi sulla sua mano, che lei dolcemente ritirò dopo il bacio, guardandomi con un'espressione che nulla aveva d'irato. Non so che cosa avrei potuto dirle: la sua amica entrò, e in quel momento mi parve orribile.
Si ricordarono infine che non bisognava aspettare la notte per rientrare in città. Ci restava appena il tempo per arrivare prima di buio, e ci affrettammo a partire, sistemandoci come nel venire. Avrei potuto, se ne avessi avuto l'ardire, cambiare quell'ordine, perché lo sguardo della signorina Galley mi aveva acceso il cuore; ma non osai dir nulla, e non toccava a lei proporlo. Andando dicevamo che era un peccato che la giornata finisse, ma, anziché lamentarci della sua brevità, notammo come avessimo avuto il potere di renderla lunga, con tutte le piacevolezze di cui avevamo saputo colmarla.
Le lasciai press'a poco dove mi avevano trovato. Con che dispiacere ci separammo! E con che piacere progettammo di rivederci! Dodici ore trascorse insieme valevano per noi secoli di intimità. Il dolce ricordo di quella giornata non costava nulla a quelle amabili fanciulle; la tenera unione che regnava fra noi tre valeva i piaceri più intensi, e con essi non sarebbe potuta sussistere: ci amavamo senza misteri e senza vergogna, e volevamo amarci sempre così. L'innocenza dei costumi ha la sua voluttà, che vale quanto l'altra, giacché non conosce interruzioni e premia di continuo. Quanto a me, so che il ricordo di un giorno tanto bello mi commuove di più, mi incanta di più, mi torna di più al cuore d'ogni altro piacere gustato in vita mia. Non sapevo bene che cosa cercassi in quelle due deliziose persone, ma mi attraevano molto entrambe. Non dico che, fossi stato padrone di scegliere, il mio cuore si sarebbe diviso; avvertivo una certa preferenza. Sarei stato felice di avere per amante la signorina di Graffenried; ma, dovendo scegliere, credo che l'avrei preferita come mia confidente. Comunque, mi parve nel lasciarle che non avrei più potuto vivere senza l'una e senza l'altra. Chi avrebbe detto che non le avrei mai più riviste, e che lì sarebbero finiti i nostri effimeri amori?

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Je m'étais insensiblement éloigné de la ville, la chaleur augmentait, et je me promenais sous des ombrages dans un vallon le long d'un ruisseau. J'entends derrière moi des pas de chevaux et des voix de filles qui semblaient embarrassées, mais qui n'en riaient pas de moins bon cœur. Je me retourne, on m'appelle par mon nom, je m'approche, je trouve deux jeunes personnes de ma connaissance. Mlle de Graffenried et Mlle Galley, qui, n'étant pas d'excellentes cavalières, ne savaient comment forcer leurs chevaux à passer le ruisseau. Mlle de Graffenried était une jeune Bernoise fort aimable, qui, par quelque folie de son âge, ayant été jetée hors de son pays, avait imité Mme de Warens, chez qui je l'avais vue quelquefois ; mais, n'ayant pas eu une pension comme elle, elle avait été trop heureuse de s'attacher à Mlle Galley, qui, l'ayant prise en amitié, avait engagé sa mère à la lui donner pour compagne jusqu'à ce qu'on la pût placer de quelque façon. Mlle Galley, d'un an plus jeune qu'elle, était encore plus jolie : elle avait je ne sais quoi de plus délicat, de plus fin ; elle était en même temps très mignonne et très formée, ce qui est pour une fille le plus beau moment. Toutes deux s'aimaient tendrement et leur bon caractère à l'une et à l'autre ne pouvait qu'entretenir longtemps cette union, si quelque amant ne venait pas la déranger. Elles me dirent qu'elles allaient à Thônes*, vieux château appartenant à Mme Galley ; elles implorèrent mon secours pour faire passer leurs chevaux, n'en pouvant venir à bout elles seules. Je voulus fouetter les chevaux ; mais elles craignaient pour moi les ruades et pour elles les haut-le-corps. J'eus recours à un autre expédient. Je pris par la bride le cheval de Mlle Galley, puis, le tirant après moi, je traversai le ruisseau ayant de l'eau jusqu'à mi-jambes, et l'autre cheval suivit sans difficulté. Cela fait, je voulus saluer ces demoiselles, et m'en aller comme un benêt : elles se dirent quelques mots tout bas, et Mlle de Graffenried s'adressant à moi : Non pas, non pas, me dit-elle, on ne nous échappe pas comme cela. Vous vous êtes mouillé pour notre service ; et nous devons en conscience avoir soin de vous sécher : il faut, s'il vous plaît, venir avec nous : nous vous arrêtons prisonnier. Le cœur me battait, je regardais Mlle Galley. Oui, oui, ajouta-t-elle, en riant de ma mine effarée, prisonnier de guerre ; montez en croupe derrière elle ; nous voulons rendre compte de vous. - Mais Mademoiselle, je n'ai point l'honneur d'être connu de Madame votre mère : que dira-t-elle en me voyant arriver ? - Sa mère, reprit Mlle de Graffenried, n'est pas à Thônes, nous sommes seules ; nous revenons ce soir, et vous reviendrez avec nous.
L'effet de l'électricité n'est pas plus prompt que celui que ces mots firent sur moi. En m'élançant sur le cheval de Mlle de Graffenried je tremblais de joie, et quand il fallut l'embrasser pour me tenir, le cœur me battait si fort qu'elle s'en aperçut : elle me dit que le sien lui battait aussi par la frayeur de tomber : c'était presque, dans ma posture, une invitation de vérifier la chose ; je n'osai jamais, et durant tout le trajet mes deux bras lui servirent de ceinture, très serrée à la vérité, mais sans se déplacer un moment. Telle femme qui lira ceci me souffletterait volontiers, et n'aurait pas tort.
La gaieté du voyage et le babil de ces filles aiguisèrent tellement le mien, que jusqu'au soir, et tant que nous fûmes ensemble, nous ne déparlâmes pas un moment. Elles m'avaient mis si bien à mon aise, que ma langue parlait autant que mes yeux, quoiqu'elle ne dît pas les mêmes choses. Quelques instants seulement, quand je me trouvais tête à tête avec l'une ou l'autre, l'entretien s'embarrassait un peu ; mais l'absente revenait bien vite, et ne nous laissait pas le temps d'éclaircir cet embarras.
Arrivés à Thônes, et moi bien séché, nous déjeunâmes. Ensuite il fallut procéder à l'importante affaire de préparer le dîner. Les deux demoiselles, tout en cuisinant, baisaient de temps en temps les enfants de la grangère et le pauvre marmiton regardait faire en rongeant son frein. On avait envoyé des provisions de la ville, et il y avait de quoi faire un très bon dîner, surtout en friandises ; mais malheureusement on avait oublié du vin. Cet oubli n'était pas étonnant pour des filles qui n'en buvaient guère : mais j'en fus fâché, car j'avais un peu compté sur ce secours pour m'enhardir. Elles en furent fâchées aussi, par la même raison peut-être, mais je n'en crois rien. Leur gaieté vive et charmante était l'innocence même : et d'ailleurs qu'eussent-elles fait de moi entre elles deux ? Elles envoyèrent chercher du vin partout aux environs ; on n'en trouva point, tant les paysans de ce canton sont sobres et pauvres. Comme elles m'en marquaient leur chagrin, je leur dis de n'en pas être si fort en peine, qu'elles n'avaient pas besoin de vin pour m'enivrer. Ce fut la seule galanterie que j'osai leur dire de la journée ; mais je crois que les friponnes voyaient de reste que cette galanterie était une vérité.
Nous dînâmes* dans la cuisine de la grangère, les deux amies assises sur des bancs aux deux côtés de la longue table, et leur hôte entre elles deux sur une escabelle* à trois pieds. Quel dîner ! Quel souvenir plein de charmes ! Comment, pouvant à si peu de frais goûter des plaisirs si purs et si vrais, vouloir en rechercher d'autres ? Jamais souper des petites maisons de Paris* n'approcha de ce repas, je ne dis pas seulement pour la gaieté, pour la douce joie, mais je dis pour la sensualité.
Après le dîner nous fîmes une économie. Au lieu de prendre le café qui nous restait du déjeuner, nous le gardâmes pour le goûter avec de la crème et des gâteaux qu'elles avaient apportés ; et pour tenir notre appétit en haleine, nous allâmes dans le verger achever notre dessert avec des cerises. Je montai sur l'arbre, et je leur en jetais des bouquets dont elles me rendaient les noyaux à travers les branches. Une fois, Mlle Galley, avançant son tablier et reculant la tête, se présentait si bien, et je visai si juste, que je lui fis tomber un bouquet dans le sein : et de rire. Je me disais en moi-même : Que mes lèvres ne sont-elles des cerises ! Comme je les leur jetterais ainsi de bon cœur.
La journée se passa de cette sorte à folâtrer avec la plus grande liberté, et toujours avec la plus grande décence. Pas un seul mot équivoque, pas une seule plaisanterie hasardée ; et cette décence, nous ne nous l'imposions point du tout, elle venait toute seule, nous prenions le ton que nous donnaient nos cœurs. Enfin ma modestie, d'autres diront ma sottise, fut telle, que la plus grande privauté* qui m'échappa fut de baiser une seule fois la main de Mlle Galley. Il est vrai que la circonstance donnait du prix à cette légère faveur. Nous étions seuls, je respirais avec embarras, elle avait les yeux baissés. Ma bouche, au lieu de trouver des paroles, s'avisa de se coller sur sa main, qu'elle retira doucement après qu'elle fut baisée, en me regardant d'un air qui n'était point irrité. Je ne sais ce que j'aurais pu lui dire : son amie entra, et me parut laide en ce moment.
Enfin elles se souvinrent qu'il ne fallait pas attendre la nuit pour rentrer en ville. Il ne nous restait que le temps qu'il fallait pour arriver de jour, et nous nous hâtâmes de partir en nous distribuant comme nous étions venus. Si j'avais osé, j'aurais transposé cet ordre ; car le regard de Mlle Galley m'avait vivement ému le cœur ; mais je n'osai rien dire, et ce n'était pas à elle de le proposer. En marchant nous disions que la journée avait tort de finir, mais, loin de nous plaindre qu'elle eût été courte, nous trouvâmes que nous avions eu le secret de la faire longue, par tous les amusements dont nous avions su la remplir.
Je les quittai à peu près au même endroit où elles m'avaient pris. Avec quel regret nous nous séparâmes ! Avec quel plaisir nous projetâmes de nous revoir ! Douze heures passées ensemble nous valaient des siècles de familiarité. Le doux souvenir de cette journée ne coûtait rien à ces aimables filles ; la tendre union qui régnait entre nous trois valait des plaisirs plus vifs, et n'eût pu subsister avec eux : nous nous aimions sans mystères et sans honte, et nous voulions nous aimer toujours ainsi. L'innocence des mœurs a sa volupté, qui vaut bien l'autre, parce qu'elle n'a point d'intervalle et qu'elle agit continuellement. Pour moi, je sais que la mémoire d'un si beau jour me touche plus, me charme plus, me revient plus au cœur que celle d'aucuns plaisirs que j'aie goûtés en ma vie. Je ne savais pas trop bien ce que je voulais à ces deux charmantes personnes, mais elles m'intéressaient beaucoup toutes deux. Je ne dis pas que, si j'eusse été le maître de mes arrangements, mon cœur se serait partagé ; j'y sentais un peu de préférence. J'aurais fait mon bonheur d'avoir pour maîtresse Mlle de Graffenried ; mais à choix, je crois que je l'aurais mieux aimée pour confidente. Quoi qu'il en soit, il me semblait en les quittant que je ne pourrais plus vivre sans l'une et sans l'autre. Qui m'eût dit que je ne les reverrais de ma vie, et que là finiraient nos éphémères amours ?