martedì 16 luglio 2013

Primo Levi partigiano, il valore di un testo

Mimmo Franzinelli
Sergio Luzzatto, Partigia. Una storia della resistenza, pp. 373, € 19,50, Mondadori, Milano 2013
recensione per l'Indice

Accade talvolta che il lancio di un volume ne snaturi il contenuto, con l’appiattimento su un particolare aspetto del libro, il più ghiotto sul piano dell’uso pubblico della storia, a scapito della complessità e problematicità del testo. Partigia è, a questo proposito, un caso da manuale.
L’indagine storiografica su un episodio rimosso e misconosciuto della biografia di Primo Levi (la fase partigiana, dal settembre al dicembre 1943, e la misteriosa sorte di due suoi compagni, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano) si è via via estesa al gruppo di cui Levi faceva parte, per poi ricostruire l’offensiva fascista che sgominò la piccola formazione dislocata in Val d’Aosta, e analizzare i rapporti di partigiani e repubblichini con i civili. La narrazione si spinge nel dopoguerra, sul binario parallelo degli ex ribelli e degli ex fascisti, tra l’amnistia Togliatti e il difficile ritorno alla normalità.
Ricostruita l’odissea del gruppo valdostano e la tragica “giustizia partigiana” che tronca la vita di due giovani ribelli, Luzzatto si inoltra lungo i sentieri della memoria resistenziale, dalla fase catacombale sino alla consacrazione nella dimensione dell’ufficialità (con lapidi e cippi, intestazione di scuole e cerimonie reducistiche). E ci mostra l’inevitabile scarto tra l’evento storico e la sua trasmissione, nella monumentalizzazione che ha smarrito e confuso segmenti di identità, per la propensione al “politicamente corretto”. Terminata la lettura, resta in bocca il sapore della cenere, con il dislivello tra gli ideali e la realtà. Quella stessa amarezza, d’altronde, suggerì a Primo Levi giudizi profondamente autocritici e svalutativi su quella fase della sua vita. Partigia è un prezioso lavoro di microstoria, il cui rilievo è amplificato dal carattere paradigmatico della formazione dislocata in Val d’Aosta, che contiene in sedicesimo i caratteri di larga parte della Resistenza nelle vallate alpine e agevola dunque la comprensione delle difficoltà, degli eroismi, delle viltà e dei sacrifici che accompagnarono i ribelli nell’avventura alla macchia. Con azzeccata intuizione editoriale, il volume si apre con l’elencazione di nomi e qualifiche dei personaggi principali (una cinquantina), suddivisi per gruppi: “Ebrei in fuga”, “Partigiani torinesi”, “Partigiani casalesi e monferrini”, “Partigiani valdostani”, “Altri partigiani” e “Collaborazionisti”, funzionale alla lettura di vicende assai intricate.
Primo LeviPrimo LeviLevi risulta essenzialmente come “attore non protagonista”: più di lui, infatti, attirano l’attenzione Fulvio e Luciano, “giustiziati” per inaffidabilità. Spiccano nel libro, quali artefici della raffinata e brutale strategia che irretisce i partigiani, il prefetto di Aosta Cesare Augusto Carnazzi e il suo fiduciario Edilio Cagni (alias tenente Redi). Quest’ultimo è l’artefice della cattura del gruppo e risalta in dimensione luciferina: nel dopoguerra confonderà ruoli e carte processuali, sfuggendo alle proprie pesantissime responsabilità forse anche con l’aiuto dei servizi segreti alleati, suoi nuovi padroni. Luzzatto, insomma, coglie la complessità della situazione, con un approccio globale, in un testo che sarebbe limitativo ricondurre alla sola storia della Resistenza.
Le polemiche seguite all’uscita del libro danno l’impressione che sia stato più commentato che studiato. Ignorando la profondità della ricerca e le sue rilevanti acquisizioni, si è ridotto Partigia a operazione iconoclasta, con valutazioni preconcette che non fanno onore a recensori perfettamente in grado (se solo non inforcassero gli occhiali dell’ideologia) di trarre giovamento, in quanto storici del 1943-45, dal volume così faziosamente criticato. In questo caso, più che in altri, il recensore deve dunque sollecitare il lettore a entrare nel libro, interrogarlo e analizzarlo: lo valuti insomma con il proprio metro, e si cali nelle tormentate storie di vita e di morte, di oppressione e di liberazione, attraversate dall’Italia nella dura lotta di liberazione dalla dittatura mussoliniana e dall’occupazione tedesca.

domenica 14 luglio 2013

Primo Levi partigiano

Luciano Allegra
Sergio Luzzatto, Partigia. Una storia della resistenza, pp. 373, € 19,50, Mondadori, Milano 2013
recensione per l'Indice

Una piccola banda partigiana che operava in Val d’Aosta nel 1943 decide di giustiziare due suoi giovani uomini. Efficacemente infiltrata, dopo pochi giorni viene sgominata e la gran parte dei suoi membri subisce l’arresto. Tre di loro, ebrei, verranno immediatamente instradati verso Auschwitz, via Fossoli: due, fra cui Primo Levi, faranno ritorno; la terza no. All’indomani della liberazione, dei due partigiani uccisi si costruirà una falsa memoria: si dirà che erano caduti per il fuoco fascista e li si onorerà come martiri. Questo, in estrema sintesi, è il contenuto di Partigia di Sergio Luzzatto, un libro che vuole essere, programmaticamente, la storia della Resistenza attraverso una storia della Resistenza.
La ricerca ha preso le mosse proprio dalle pagine che Levi ha dedicato all’episodio. Sono pagine letterarie, pagine ben note, nelle quali Luzzatto ritiene si celi un terribile segreto che avrebbe accompagnato e angosciato lo scrittore per tutta la vita: essere stato corresponsabile di un assassinio, quello dei due partigiani, deciso forse con leggerezza e comunque sproporzionato rispetto all’entità della colpa. Lungo questo filo rosso, che tiene insieme tutto il lavoro, vediamo scorrere una ridda di personaggi che ci parlano dalle carte d’archivio dei processi, dai giornali del tempo, o attraverso la viva voce delle interviste rilasciate all’autore. E man mano cresce nel lettore che le segue l’ansia di sapere che cosa accadde davvero in quei gelidi giorni di dicembre a Levi, alle due vittime, agli altri componenti della banda. Chi decise l’esecuzione? Chi la eseguì? Quale fu il coinvolgimento di Levi? Ma, soprattutto, per quali motivi si giunse a tanto? Queste domande, per la delusione del lettore, rimangono senza risposta. Dopo più di trecento pagine continuiamo a non sapere se quella scelta sia originata da ragioni più o meno futili, oppure “gravi”, come lo stesso Levi ebbe a dichiarare. La verità dunque non viene a galla, e di conseguenza il caso clamoroso, lo scoop inseguito con palpabile trepidazione da Luzzatto, scoppia come una bolla di sapone. A quel punto sarebbe stato logico abbandonare la pista Levi e concentrarsi sull’episodio in sé, per collocarlo nella storia più generale della lotta di liberazione, quella che non ama i clamori e non necessita di “provocazioni”. In questo modo però sarebbe venuto meno il richiamo maggiore, perché la figura di Levi garantiva spettacolarità e quindi doveva essere tenuta in ballo a tutti i costi.
Primo LeviPrimo LeviPer riuscirvi, Luzzatto è ricorso a tre dispositivi: ha accusato Levi di essere stato colpevolmente reticente in merito; ha cercato di farlo passare come un testimone inattendibile perché impreciso; ha forzato la lettura di certi suoi passi per mostrare l’esistenza di un’angoscia irredimibile e latente legata a quell’episodio. Fingendo che quella non fosse la cifra di Levi, Luzzatto comincia dunque con il confondere la densità essenziale delle sue parole (che definisce “avarizia narrativa”) con la reticenza e la vergogna, senza però chiedersi che cos’altro avrebbe dovuto dire lo scrittore nell’evocare l’episodio, o che cos’altro avrebbe potuto, trovandosi all’interno di un contesto narrativo (il racconto Oro del libro Il sistema periodico). Il fatto stesso che Levi avesse rievocato quell’esperienza, per di più in un’epoca contrassegnata dalla monumentalizzazione della Resistenza, sembrerebbe suffragare la dolorosa consapevolezza dei limiti della giustizia sommaria in tempo di guerra, piuttosto che celare un senso di colpa individuale. Strano segreto, del resto, questo “brutto segreto”, visto che era stato lo stesso Levi a propalarlo. Forse conscio della sostanziale insussistenza dell’accusa di reticenza, Luzzatto è allora ricorso, per rinforzarla, a un altro artificio retorico: il discredito del testimone attraverso l’insinuazione e l’enfasi di contraddizioni irrilevanti. Vediamone due esempi fra i tanti. Levi accenna, nel corso di due distinte interviste, all’esistenza di bande che operavano nella stessa zona della sua: quella dei casalesi, che riteneva ben munita di “armi e camion”, e quella di Piero Urati, dalla fama ambigua. La prima, in realtà, non disponeva di tutta quella potenza di fuoco e quindi non era stata né il movente né l’obiettivo del rastrellamento nel quale Levi venne catturato; la seconda invece si sarebbe formata di lì a poco, essendo Urati prigioniero dei tedeschi a Torino. Queste contraddizioni inducono Luzzatto a bollare come “fallace” e “impreciso” Levi, sentenziando come, nel suo caso, riesca “poco utile un’interrogazione della memoria che valga da criterio di storia”.
È sbalorditivo però che non si chieda come Levi avesse potuto attingere quelle (false) informazioni: ovvero che non abbia presente il magistrale Les fausses nouvelles de la guerre di Marc Bloch, abc di chiunque voglia misurarsi con un’interpretazione non ingenua né letterale di fonti così delicate. Ma, ancora. Il 13 dicembre del ’43, con i repubblichini all’uscio che stanno per catturarlo, Levi nasconde la sua rivoltella “nella cenere della stufa”, o almeno così racconta. Nel 2010 un testimone, Yves Francisco, sostiene invece di averla nascosta lui, quella pistola, “in un interstizio del sottotetto”. La futilità del particolare non invoglia certo ad almanaccare su quale delle due versioni sia quella più vicina alla verità, se quella del Sistema periodico o quella dell’ottantottenne Francisco. Ma l’effetto è assicurato: il lettore, a quel punto, avrà l’ennesima conferma che Levi è un testimone inaffidabile. Sarà addirittura portato a dubitare di lui come persona e (perché no?), non appena i negazionisti si impadroniranno di questa discordanza cominceranno a dire che anche Se questo è un uomo è pura menzogna. Un “effetto collaterale” ampiamente prevedibile, di cui però Luzzatto si mostra del tutto inconsapevole o noncurante se, non ancora soddisfatto delle due mani di belletto con cui ha cercato di tenere in piedi la sua ipotesi- fantasma, ricorre a una terza ipotesi, improvvisandosi, lui, semiologo letterario. E dunque cercando in ogni anfratto degli scritti di Levi conferme di quell’atroce segreto che avrebbe angosciato l’intera sua esistenza – altro che Auschwitz. Ne trova ovunque: non c’è racconto o poesia che non ne rechi traccia evidente, o non la celi fra le righe. Perfino Se non ora, quando? sarebbe pervaso di indizi, beninteso manifesti solo a lui (“così visibile che nessuno lo ha visto”; sugli abbagli della sua lettura vedi le belle pagine di Alberto Cavaglion in http://ehess.dynamiques.fr/usagespublicsdupasse).
Fra gli altri non irrilevanti effetti collaterali emerge poi un’immagine della Resistenza caricaturale, fatta di persone scriteriate o goffe, di improvvisatori e pasticcioni, di ebrei snob e di giustizialisti implacabili, di fronte ai quali campeggia una sola figura: quella di Edilio Cagni, l’autentico eroe nero della vicenda, che sembra attirare tutta l’ammirazione dell’autore. Non che mancassero figure come quelle, ovviamente, né che i partigiani non commettessero errori, ingiustizie, violenze: la favola del lupo contro l’agnello gli storici non se la raccontano più da un pezzo. E non a caso negli ultimi anni sono apparsi in merito molti fondamentali contributi, alcuni proprio sulle esecuzioni sommarie delle bande. La vicenda di Partigia avrebbe dovuto farvi esplicito riferimento, perché le cause, le forme, i modelli di quei comportamenti e di quelle azioni erano di volta in volta diversi e costituiscono oggi un campo di indagine fra i più promettenti. Nel libro, però, a essi neanche un accenno, tranne quello, fugace, a Pansa, che non basta ad assolvere il compito. E così, omettendo di affrontare nella sua complessità e nella sua generalità il tema quanto mai rilevante della violenza e della giustizia partigiana, Partigia non riesce a uscire dalle secche della storia locale. Nella quale finisce la costruzione di una falsa memoria all’indomani della guerra, un processo che, tanto fra le file dei fascisti quanto fra quelle dei partigiani, coinvolse migliaia di persone, stendendo una coltre di ambiguità sulla nascente repubblica. Anche in questo caso ci si ferma alla storia delle due vittime, come se il fenomeno non fosse generale e non richiedesse, per comprenderne tutta la complessità, una formalizzazione e un approccio comparato.
A fine lettura ci si chiede quale sia, al di là del crisma retorico e artificiale rappresentato da Primo Levi, il problema centrale attorno al quale ruota il libro e il fine per il quale è stato scritto. Non si trovano risposte diverse da quella che Luzzatto stesso ha più volte confessato: per liberarsi da certe sue ossessioni. Non pare però che ci sia riuscito, visto che continua a menare fendenti contro “i devoti di Primo Levi”. Ci sono terapie più efficaci che scrivere brutti libri di storia.

sabato 13 luglio 2013

Il discorso del papa a Lampedusa

 OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Campo sportivo "Arena" in Località Salina
Lunedì, 8 luglio 2013


Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta per favore. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà! Grazie! Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto, il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco signora Giusi Nicolini, grazie tanto per quello che lei ha fatto e che fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che oggi, alla sera, stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. A voi: o’scià!
Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.
«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello!
Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio! E una volta ancora ringrazio voi abitanti di Lampedusa per la solidarietà. Ho sentito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!
Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto.
«Adamo dove sei?», «Dov’è il tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. «Chi ha pianto?». Chi ha pianto oggi nel mondo?
Signore, in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo Padre perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore!
Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».

Al termine della Celebrazione il Santo Padre ha pronunciato le seguenti parole:
Prima di darvi la benedizione voglio ringraziare una volta in più voi, lampedusani, per l'esempio di amore, per l'esempio di carità, per l'esempio di accoglienza che ci state dando, che avete dato e che ancora ci date. Il Vescovo ha detto che Lampedusa è un faro. Che questo esempio sia faro in tutto il mondo, perché abbiano il coraggio di accogliere quelli che cercano una vita migliore. Grazie per la vostra testimonianza. E voglio anche ringraziare la vostra tenerezza che ho sentito nella persona di don Stefano. Lui mi raccontava sulla nave quello che lui e il suo vice parroco fanno. Grazie a voi, grazie a lei, don Stefano.

Messidoro, il calendario della Rivoluzione

Uno degli aspetti piu' curiosi e intriganti della Rivoluzione fu l'invenzione di un nuovo calendario. L'esigenza di voltare pagina con le superstizioni e le false credenze del passato e di instaurare un altro ordine sociale, basato soprattutto su elementi naturali piu' che metafisici, arrivò per questa via a colpire la sfera del tempo e con esso lo strumento che lo rappresenta: il calendario. Istituito anche per accelerare l'opera di scristianizzazione, il calendario rivoluzionario rimase in vigore, complessivamente, tredici anni: dal 22 settembre 1792 al 31 dicembre 1805.
Essendo la data del 22 settembre, il giorno della proclamazione della Repubblica e quindi lo spartiacque tra Vecchio e Nuovo, questo diventa anche il Primo giorno della Nuova Era e dunque il Capodanno del Nuovo Calendario.
I mesi rimasero 12 ma tutti di 30 giorni. I restanti cinque (o sei, se si trattava di anno bisestile) furono chiamati, a partire dal 7 Fruttidoro anno III (24 agosto 1795) , Sanculottidi in onore dei sanculotti parigini. Questi cinque giorni erano quelli destinati al festeggiamento rispettivamente della Virtu', del Genio, del Lavoro, dell'Opinione, delle Ricompense. Il sesto giorno, che si aggiungeva negli anni bisestili, era il giorno Sans - Culottide per eccellenza. I sanculottidi erano inseriti fra la fine del mese di Fruttidoro e l'inizio di Vendemmiaio.
Si operava allo stesso modo se ci si trovava di fronte ad un anno bisestile. Infatti il giorno "in piu'" non veniva aggiunto nel corso dell'anno (in quanto tutti i mesi erano formati di 30 giorni) ma alla fine. In altre parole, anziche' avere un giorno corrispondente al 29 febbraio del calendario gregoriano, si praticava un'operazione che, di fatto, instaurava nel calendario un 32 dicembre. Cio' significa che il Capodanno Rivoluzionario non cadeva sempre il 22 settembre, ma negli anni 1795, 1799, 1800 - 1802, 1804 - 1805 il Primo dell'anno fu festeggiato il 23 settembre, mentre nell'anno 1803 il giorno di Capodanno, addirittura, cadde il 24 settembre.


Fabre d'Églantine... d eġlãtìn›, Philippe-François-Nazaire. - Attore e commediografo francese (Carcassonne 1750 - Parigi 1794). Al suo cognome volle aggiungere quello di "d'Églantine", per aver vinto l'églantine ("rosa selvatica") d'or ai giochi floreali di Tolosa. Dopo una vita errabonda di attore, si recò a Parigi e vi fece rappresentare alcune sue commedie (Les gens de lettres, 1787; Le présomptueux, 1789), senza successo. Con maggior favore furono accolte le sue pièces di poeta rivoluzionario e giacobino (Le convalescent, L'intrigue épistolaire, 1791), e fu un vero trionfo la rappresentazione del Philinte de Molière ou la suite du Misanthrope (22 febbraio 1790). Amico di Danton e di C. Desmoulins, si distinse nei club e nelle assemblee (fu deputato di Parigi alla Convenzione) per la sua oratoria. Implicato nella questione della Compagnia delle Indie, fu dichiarato nemico della patria e ghigliottinato. Di tutte le sue commedie, solo Le Philinte fu rappresentata ancora per molto tempo; oggi è ricordato soprattutto per avere inventato i nomi dei mesi del calendario repubblicano, e come autore della canzone Il pleut, il pleut, bergère, tuttora popolare.
  • Estate (Suffisso -idor in francese, -idoro in italiano)

     
    Date famose 

    Il nome termidoro è diventato celebre per via del 9 termidoro anno II, data in cui avvenne il colpo di stato che pose fine al periodo del Terrore di Robespierre (il 27 luglio1794 secondo il calendario gregoriano). Tale evento, che culminò con la morte di Robespierre, ghigliottinato il giorno seguente, è noto anche tout court come Termidoro. 
    Nella Francia postmonarchica, il colpo di Stato del 18 brumaio, anno VIII della Rivoluzione (9 novembre1799), compiuto da Napoleone Bonaparte, segnò la fine del Direttorio - già fautore di un colpo di Stato il 18 fruttidoro dell'anno V (4 settembre1797) - e della Rivoluzione stessa, dando inizio al Consolato guidato dalle personalità di Bonaparte, Sieyès e Ducos.
    Anche germinale è rimasto nella memoria. L'inizio della primavera è nell'immaginario un'epoca di rinascita, di fioritura, di germogli e di nuove foglie. Si può dunque leggere l'intenzione di Zola di raccontare nel romanzo Germinal la primavera dell'uguaglianza operaia, i germogli della rivoluzione. A supporto di questa idea, nell'epilogo del romanzo, Zola accosta i minatori ai vegetali che escono dalla terra e germogliano: la fioritura delle piante diventa allora la metafora della rivolta operaia. 
    Al 3 marzo 1794 (13 ventoso anno II) risaliva invece il secondo dei decreti detti appunto di Ventoso; il primo c'era stato il 26 febbraio dello stesso anno, 8 ventoso. Voluti da Saint Just in particolare questi decreti prevedevano il sequestro e la distribuzione ai più indigenti dei beni appartenenti agli emigrati e ai sospetti. Alla morte di Robespierre avevano solo cominciato a trovare una prima, timida applicazione.
    Degna di nota infine la rivolta del 13 vendemmiaio anno IV. Repressa da  Bonaparte, gli valse il soprannome di generale Vendemmiaio.

martedì 9 luglio 2013

Tina Modotti e Frida Kahlo, una foto

 1928
[A quel tempo] Tina trasforma il suo modo di fotografare, in pochi anni percorre un'esperienza artistica folgorante: dopo le prime attenzioni per la natura (rose, calli, canne di bambù, cactus, ...) sposta l'obiettivo verso forme più dinamiche, quindi utilizza il mezzo fotografico come strumento di indagine e denuncia sociale, e le sue opere, comunque realizzate con equilibrio estetico, assumono di frequente valenza ideologica: esaltazione dei simboli del lavoro, del popolo e del suo riscatto (mani di operai, manifestazioni politiche e sindacali, falce e martello,...). Sue fotografie vengono pubblicate nelle riviste Forma, New Masses, Horizonte. In questo periodo conosce lo scrittore John Dos Passos e l'attrice Dolores Del Rio, ed entra in amicizia con la pittrice Frida Kahlo. 
http://www.comitatotinamodotti.it/
http://www.fridakahlo.it/ 

Vita di Tina Modotti
Fuoco, neve e ombre
di Patricia Albers
postfazione di Roberta Valtorta
postmedia 2003
320 pp.
-- 24 illustrazioni
isbn 9788874900060
 

La prima biografia esauriente dedicata alla leggendaria figura di Tina Modotti. Vita di Tina Modotti. Fuoco, neve e ombre è un bellissimo racconto, dalla lettura accattivante, ma è anche il risultato di una ricerca durata dieci anni grazie alla quale l'autrice Patricia Albers rivela numerosi aspetti inediti attraverso più di trecento documenti tra fotografie, lettere e scritti personali. Il titolo, "Fuoco, neve e ombre" deriva da una poesia di Pablo Neruda, uno dei tanti amici che la fotografa (nata a Udine nel 1896) ha frequentato negli anni trascorsi in Messico insieme a leggende quali Frida Kahlo, Diego Rivera, Edward Weston e Sergey Eisenstein.
Patricia Albers traccia il ritratto di una donna che sembra sfuggire ad ogni definizione (artista, attrice, amante, spia...) seguendo con attenzione e passione tutte le tappe della vita di Tina Modotti, dagli anni della povertà in Italia, al viaggio negli USA, dai tentativi di partecipare come attrice in una Hollywood alle prime luci, all'attività di fotografa di primo piano, dal suo ruolo di attivista politica al matrimonio con il poeta francese Roubaix de l'Abre Richey, dal viaggio in Messico con Edward Weston alla relazione con il rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella.

sabato 6 luglio 2013

Lussu, L'umanità del nemico

Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci compensò dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti, ché le trincee e i traversoni laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra linea, Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?
Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero piú grande degli altri, perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora piú giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale.
Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma cosí, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.


L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.
Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare.
E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere piú calmo, in una camera di casa mia, nella mia città.
Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva piú chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: "Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido " è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, cosí, è assassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, cosí! "
Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo piú chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:
- Sai... cosí... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
- Neppure io.
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.
La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.


Un anno sull'Altipiano, 1938 

Un episodio simile figura anche nel film La Grande Guerra (1959) di Mario Monicelli. Mentre sono in avanscoperta, i due protagonisti vedono - senza essere visti a loro volta - un soldato austriaco che si sta preparando il caffè. Esitano prima di sparare: "Fàmoje bève armeno prima er caffè".  A uccidere il nemico è un altro personaggio sopraggiunto alle loro spalle.