domenica 30 novembre 2025

Una profezia di Hannah Arendt

Budapest 1956, il popolo ungherese nella sua ora più gloriosa 

Federigo Argentieri
Hannah Arendt non conosceva la parola genocidio

Corriere della Sera, 30 novembre 2025

Johannah Arendt, assai meglio nota come Hannah, nacque il 14 ottobre 1906 a Hannover, all’epoca Impero germanico. Il caso volle che il 19 marzo di quell’anno, nella cittadina di Solingen, situata a 260 chilometri di distanza, fosse nato Adolf Eichmann, il famigerato responsabile della «soluzione finale», al cui processo Arendt avrebbe dedicato il suo libro forse più famoso, per l’appunto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (ultima edizione Feltrinelli, 2023).
Rileggendo questo scritto, tanto fondamentale quanto controverso, affiorano dettagli curiosi e non comunemente noti: ad esempio, che una giovane guardia del carcere dove il gerarca nazista fu rinchiuso, appena arrivato in Israele dall’Argentina, dove si era rifugiato ed era stato rapito dal Mossad, guardia «incaricata del suo benessere mentale e psicologico», per distrarlo gli diede una copia di Lolita, il romanzo di Vladimir Nabokov. Eichmann glielo restituì dopo due giorni, dicendo che era un libro unerfreuliches, ovvero «sgradito». Oppure, che sia Reinhard Heydrich che Hans Frank, rispettivamente principale architetto della «soluzione finale» e governatore generale nazista della Polonia, avevano sangue ebraico e trascorsero i loro ultimi giorni — il primo in un ospedale praghese e il secondo in un carcere di Norimberga — nel rimorso per gli spaventosi delitti commessi verso il «loro» popolo.
Rileggere questo libro porta anche a chiedersi per quale motivo Arendt, fuggita dalla Germania nel 1933 e riparata a Praga, Parigi e infine New York, dove morì cinquant’anni fa il 4 dicembre 1975 (vedi la recentissima e completa biografia di Thomas Meyer: Hannah Arendt. Una vita filosofica, Feltrinelli), non avesse probabilmente mai sentito parlare di Raphael Lemkin, anch’egli ebreo rifugiato nella stessa città, che nel 1944 aveva coniato ex novo il termine «genocidio»; il quale inoltre aveva lavorato instancabilmente per farne inserire il concetto in appendice alla Carta dell’Onu nel dicembre 1948. Questo termine non è mai usato da Arendt, probabilmente a causa della scarsa notorietà di Lemkin, personaggio tanto meritevole quanto forse restìo alle apparizioni pubbliche. Ancora più deludente il fatto che Arendt non avesse avuto notizia, o non si fosse accorta, del grande raduno di rifugiati ucraini svoltosi a New York il 18 gennaio 1953, per ricordare il ventesimo anniversario dello Holodomor, nel corso del quale Lemkin parlò apertamente e per la prima volta di genocidio sovietico in Ucraina, un evento che apparteneva a pieno titolo alla grande riflessione storica contenuta ne Le origini del totalitarismo di Arendt, la cui prima edizione era apparsa due anni prima.
I due testi citati, di gran lunga e a buon diritto i più noti dell’autrice, ebbero inizialmente fortuna diversa in Italia. Quello su Eichmann fu subito tradotto e pubblicato, forse perché non presentava, in particolare per il Pci, i seri problemi di contenuti nell’altro, la cui prima edizione italiana vide la luce soltanto nel 1967, per iniziativa delle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti. Inoltre, va detto senza infingimenti che il termine «totalitarismo» fu respinto per decenni dall’area culturale del Pci, poiché implicava l’equiparazione tra il nazismo e lo stalinismo.
Per quanto riguarda il fascismo italiano — con il quale Arendt è forse troppo generosa nel libro su Eichmann, in relazione alla politica antisemita di Mussolini — esso, come il periodo leninista in Urss, non viene da lei incluso nel fenomeno totalitario, ma «relegato» a semplice dittatura, per due motivi principali: la mancata distruzione completa dell’ordine sociale precedente, resa peraltro impossibile dalla presenza della monarchia e della Chiesa cattolica, e l’assenza di un regime di terrore permanente, condito da «purghe» periodiche, nonché di un sistema concentrazionario paragonabile ai campi di lavoro e di sterminio, che tra il 1939 e il 1945 si estendevano dalla Baviera alle estreme propaggini siberiane. Tale interpretazione è stata contestata dallo storico Emilio Gentile, il quale espose il suo punto di vista in un ottimo programma televisivo Rai di una decina di anni fa, che si trova in rete. In buona sostanza, se Arendt riconobbe che con le leggi razziali del 1938 anche Mussolini rientrò nella categoria del totalitarismo, il termine fu usato per la prima volta nel 1923 da Giovanni Amendola e Gentile ritiene che, nonostante quanto sostenuto da Arendt, il regime fascista fu totalitario dall’inizio.
Naturalmente, l’opera di Hannah Arendt è molto più ampia dei suoi due libri più famosi e, dopo le iniziali difficoltà editoriali, è da tempo completamente disponibile in traduzione italiana presso vari editori, a testimonianza della vivacità e dell’attualità del suo pensiero.
A questo proposito, va segnalata la recente e lodevole iniziativa dell’editore Raffaello Cortina, che lo scorso anno ha dato alle stampe un libro dal titolo La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario, a cura di Simona Forti e Gabriele Parrino. Si tratta di una seconda versione leggermente riveduta che era già uscita (con un’altra traduzione) sulla rivista «MicroMega» n. 3, 1987, su segnalazione del sottoscritto. Ma esiste anche una prima stesura del saggio di Arendt (pubblicata su «The Journal of Politics» nel febbraio 1958) che ho incluso nel mio volume Il proletariato contro la dittatura (Golem edizioni, 2021).
In questa analisi di un altro evento contemporaneo, Arendt dette prova di un approccio ispirato a Rosa Luxemburg, non distante dalle posizioni di un socialismo radicale, ma democratico, professate dalla dirigente tedesca, uccisa assieme a Karl Liebknecht quando Hannah aveva tredici anni. L’enfasi nei confronti dei consigli operai ungheresi, sorti in maniera spontanea in opposizione al regime, quello sì totalitario, dell’Ungheria satellite, era il segnale di un entusiasmo non dissimile da quello espresso dal suo quasi omonimo e più moderato Raymond Aron, che Arendt aveva conosciuto a Parigi prima dell’invasione nazista. Ma il punto più importante di questo articolo stava nel paragone tra l’imperialismo coloniale della borghesia capitalistica occidentale, costretto infine a recedere sia di fronte al desiderio di indipendenza dei Paesi assoggettati, che in base ai propri princìpi di autodeterminazione e democrazia, e l’assenza di ogni scrupolo esibita dall’imperialismo sovietico, pronto a ricorrere ripetutamente alla forza bruta per mantenere il proprio dominio sui cosiddetti Paesi satelliti.
Il saggio si concludeva con una profezia assai lucida: «Se i drammatici avvenimenti della Rivoluzione ungherese (...) promettono qualcosa, è più un crollo drammatico e improvviso dell’intero regime (...). Un tale catastrofico sviluppo (...) non comporterebbe necessariamente il caos — sebbene sarebbe piuttosto incauto aspettarsi dal popolo russo, dopo quarant’anni di tirannia e trent’anni di totalitarismo, lo stesso impeto e la stessa alacrità politica che il popolo ungherese ha dimostrato nella sua ora più gloriosa».

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