mercoledì 19 novembre 2025

L'egemonia selvaggia

Giuseppe De Rita, intervista a Il Dubbio, 10 luglio 2018

In questo scenario se il populismo ha il suo mantra nel popolo sovrano le élites hanno ancora una funzione?

Le élites vivono un momento difficilissimo, perché si viene subito etichettati come casta. So di andare controcorrente, ma ritengo che le élites siano necessarie. Non esiste una società, specialmente complessa, che non abbia bisogno delle élites. Nella nascita dell’Italia sono state determinanti: ragionavano sulla società di allora. Gioberti diceva “l’Italia è un Paese di sabbia”. Un intellettuale risorgimentale, Angelo Camillo De Meis, la descriveva come fatta da due popoli: il primo che sfanga la vita e il secondo che pensa al sentimento del primo. Il primo è la sabbia, il secondo pensò al sentimento e ne divenne il sovrano. Oggi abbiamo lo stesso problema, non la chiamiamo “società di sabbia”, ma citiamo Bauman che la descrive “fluida” o il sottoscritto che la definisce “molecolare”. È una società difficile da comporre, ma se non ci fosse stata l’élite rinascimentale l’Italia sarebbe rimasta davvero un Paese di sabbia, non coagulato, senza sintesi e senza identità. Oggi nessuno ha l’idea che un Paese “molecolare” abbia bisogno di una élite, si pensa che possa essere “fluida” e viene lasciate a se stessa. Nei giorni scorsi sono usciti due libri di Bauman: uno intitolato “L’amore liquido”, l’altro “La paura liquida”. Non a caso l’uomo della liquidità parla non di istituzioni, organizzazioni, ma di sentimenti. E Bauman non è élite. Oggi in Italia le élites dovrebbero riproporsi. Quando si legge Manzoni che parla di “società benevolente” e poi si sente parlare Salvini si capisce che ci stiamo perdendo. Manzoni parlava di un popolo oppresso e incattivito e lo sforzo era quello di far crescere i Renzo Tramaglino, il primo popolo che “sfanga il quotidiano”. La bravura della Dc a cavallo tra gli anni 40 e 50 è stata proprio quella di dire al primo popolo fai da solo, rifate gli stabilimenti industriali da soli e così è stato. Il primo popolo per la prima volta si è sentito potente e lo ha fatto. La Prima repubblica è la repubblica del primo popolo che ha realizzato il miracolo italiano.

Oggi, politicamente e socialmente, chi cerca di capire come può essere coagulato il primo popolo?

Dovrebbe essere l’élite che, però, ha paura di esporsi per evitare attacchi pesanti e personali sui social di qualsiasi tipo. Bisogna capire che la nostra società deve puntare non sull’etica delle buone intenzioni, che storicamente ha prodotto il nazismo, il fascismo e il comunismo, ma sull’etica della responsabilità. Purtroppo oggi viviamo con una élite che o moraleggia o propone solo buone intenzioni. Non pensa al primo popolo che sfanga la vita, ma a se stessa. Se non c’è un po’ di coraggio di fare élite, di pensare per ridare a questo primo popolo un meccanismo di coesione, non certo per esserne il sovrano, si rischia di abbandonare il popolo di sabbia alle sue paure e ai suoi amori. Alla sua liquidità, che scorre e non si sa dove va.



Francesco Antonelli
Zygmunt Bauman, attraverso le ferite della modernità
il manifesto, 18 novembre 2025

Ne La condizione postmoderna (1979) il filosofo Jean-François Lyotard annunciava, tra i primi, l’apertura di una nuova epoca segnata dal tramonto delle grandi narrazioni prodotte dalla modernità. Vale a dire quei discorsi totalizzanti e unificanti – come l’emancipazione del genere umano, la rivoluzione o il progresso scientifico – che nella società post-industriale, frammentata, preda dell’individualismo e dominata dalla tecnologia, non sarebbero più stati in grado di fornire un senso alla realtà.

Quelle narrazioni, osservava Lyotard, tenevano insieme destino individuale e collettivo orientandoli verso un futuro radioso. La loro crisi ci consegna invece un mondo che, da una parte, ha cercato di sostituirle con nuove (e spesso tragiche) epiche locali, fondate su identità culturali, etniche o religiose; e dall’altra ci affida il peso di ritrovare dentro noi stessi il senso della nostra esistenza, sperimentando continuamente l’insufficienza di ogni cornice interpretativa. Anche il soggetto diventa più malinconico, disincantato, spaesato. Soprattutto il soggetto-intellettuale che, da aspirante «legislatore» sociale, si trasforma in un più modesto ma forse più efficace interprete: sia della realtà che osserva, sia del nesso tra quella realtà e la propria traiettoria biografica.

SIAMO DUNQUE CONDANNATI all’intimismo e all’impolitica leggerezza dell’essere? Non necessariamente, se riusciamo a trasformare le sofferenze e gli spaesamenti individuali – nati dall’incrocio tra vicende personali e storia collettiva – in un linguaggio universale ed empatico, capace di far specchiare ciascuno nell’altro e di ricostruire così un terreno comune per un nuovo agire politico e intellettuale.

Il grande merito di La mia vita. Un’autobiografia in frammenti (Il Margine, pp. 296, euro 20) sta proprio qui. La curatrice, Izabela Wagner, non si limita a raccogliere gli scritti autobiografici di Zygmunt Bauman: li ordina, li ricostruisce e li monta con grande attenzione filologica ed emotiva, restituendoci non solo un documento biografico, ma una chiave di lettura della sua intera opera. Il lavoro di Wagner è prezioso: fa emergere un Bauman privato e vulnerabile senza tradirne il rigore intellettuale.

La vita del sociologo appare come un vero patchwork di lettere, appunti, memorie e confessioni: un’esistenza segnata da migrazioni forzate, scelte politiche laceranti, delusioni e ripartenze. Ritroviamo l’infanzia ebraica in Polonia, l’antisemitismo viscerale che lo colpirà più volte, la fuga del 1939, l’arruolamento nell’esercito sovietico e poi nel Kbw (il Corpo di Sicurezza Interna della Polonia comunista). Un passato a lungo indicibile e spesso strumentalizzato contro di lui.

Senza tr

Seguono il graduale distacco dal comunismo – ma non dall’idea di socialismo come giustizia sociale – e il trauma dell’espulsione dall’università di Varsavia durante la campagna antisemita del 1968. Inizia un nuovo esilio: prima Israele, poi, grazie ai buoni uffici di Anthony Giddens, l’approdo a Leeds, dove Bauman troverà finalmente un luogo da cui pensare un mondo in trasformazione.
I frammenti autobiografici illuminano in controluce il suo pensiero: la metafora della liquidità, l’idea dell’interregno, la sensibilità per l’estraneità e la fragilità dei legami sociali nascono da un’esperienza personale segnata dall’insicurezza e dalla discontinuità.

IL LIBRO MOSTRA il Bauman privato, vulnerabile, spesso ferito, ma sempre animato da un ostinato ottimismo etico: il desiderio di capire la complessità del presente e di partecipare, attraverso la scrittura, alla vita degli altri. Quattro capitoli sono particolarmente significativi, a questo proposito. Il capitolo due («Il destino di un profugo e di un soldato») ricostruisce gli anni in cui Bauman, adolescente ebreo polacco, fugge con la famiglia dopo l’invasione nazista del 1939. L’esilio nelle zone occupate dall’Urss significa precarietà, fame, lavoro duro e un’identità continuamente messa in discussione. In Unione Sovietica vive la paura del sospetto politico e le difficoltà di adattamento a un nuovo sistema che, però, egli ammirava. Da giovane si arruola nell’esercito polacco sotto comando sovietico, dove sperimenta insieme idealismo e disillusione. L’insieme di queste esperienze – guerra, esilio, violenza istituzionale – plasmerà la sua futura sensibilità verso fragilità, estraneità e insicurezza sociale.

Nel capitolo quattro («Maturazione») Zygmunt Bauman racconta invece il passaggio dall’adolescenza alla prima età adulta, un periodo in cui si intrecciano formazione personale, impegni politici, scelte morali e cambiamenti storici radicali. È un capitolo di snodo, perché segna il momento in cui la sua biografia individuale si fonde definitivamente con la storia europea del Novecento. Centrale è qui la sfera emotiva: il capitolo si sofferma sulla vita famigliare, il rapporto con i genitori e la nascita della relazione con Janina, che diventerà la sua compagna di vita. Questa dimensione affettiva non è un semplice sfondo, ma uno dei motori della sua maturazione: la costruzione di una famiglia, la necessità di mediare tra responsabilità lavorative e aspirazioni intellettuali, la ricerca di stabilità dopo anni di incertezze.

NEL CAPITOLO SEI («Prima del crepuscolo») Bauman riflette sul rapporto fra memoria, responsabilità e identità, intrecciando il proprio vissuto con riferimenti filosofici e letterari, in particolare a Jean Améry, testimone dell’orrore di Auschwitz. L’autore indaga il ruolo dell’intellettuale in tempi di oscurità politica e morale, facendo i conti con le derive autoritarie che hanno attraversato la Polonia e l’Europa. Riemergono episodi biografici legati al 1968, all’antisemitismo e alle campagne d’odio che lo colpirono, ripresentate come monito contro ogni forma di nazionalismo semplificante. Nel «crepuscolo», suggerisce, non c’è resa ma un ultimo esercizio di coraggio intellettuale. Infine, il capitolo conclusivo di questa raccolta, il sette («Guardando al passato, per l’ultima volta»), uno scritto del 2016, assume la forma di un testamento intellettuale.

LA DISTANZA DELL’ETÀ avanzata permette a Bauman di valutare senza rancore la durezza del passato e le sue contraddizioni. Così, l’ultimo sguardo è rivolto alle generazioni future: non come eredità dottrinale, ma come invito a coltivare un’etica della responsabilità, della curiosità e dell’apertura. È il congedo di un autore che ha fatto della propria inquietudine, delle proprie appartenenze e identità multiple, personali e pubbliche, una forma di attenzione al mondo: la stessa che abbiamo oggi, in una fase di profondi ed incerti sconvolgimenti, il dovere di coltivare e rilanciare con forza.


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