sabato 25 maggio 2013

Georges Moustaki, Lo straniero

 È morto Georges Moustaki. Il cantante, greco di nascita e francese di adozione, aveva 79 anni e soffriva da tempo di problemi respiratori che gli impedivano di cantare. Nato ad Alessandria d'Egitto il 3 maggio 1936 - il suo vero nome era Giuseppe Mustacchi; lo aveva mutuato nel nome d'arte con cui è conosciuto in omaggio a Georges Brassens, conosciuto a Parigi negli anni Cinquanta - aveva scritto tante canzoni popolari, tra le quali la celebre Milord, uno dei successi della divina Edith Piaf. In Italia lo si ricorda soprattutto per la sua interpretazione di Lo straniero


Con questa faccia da straniero
sono soltanto un uomo vero
anche se a voi non sembrerà.
Ho gli occhi chiari come il mare
capaci solo di sognare
mentre ormai non sogno più.
Metà pirata metà artista
un vagabondo un musicista
che ruba quasi quanto dà
con questa bocca che berrà
a ogni fontana che vedrà
e forse mai si fermerà.
Con questa faccia da straniero
ho attraversato la mia vita
senza sapere dove andar
e' stato il caldo dell'estate
e mille donne innamorate
a maturare la mia età.
Ho fatto male a viso aperto
e qualche volta ho anche sofferto
senza però piangere mai
e la mia anima si sa
in purgatorio finirà
salvo un miracolo oramai.
Sarai regina e regnerai,
le cose che tu sognerai
diventeranno realtà
il nostro amore durerà
per una breve eternità
finché la morte non verrà.
Sarai regina e regnerai,
le cose che tu sognerai
diventeranno realtà
il nostro amore durerà
per una breve eternità
finché la morte non verrà.
Il nostro amore durerà
per una breve eternità
finché la morte non verrà .


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 Le métèque

Avec ma gueule de métèque,
De Juif errant, de pâtre grec
Et mes cheveux aux quatre vents,
Avec mes yeux tout délavés
Qui me donnent l'air de rêver,
Moi qui ne rêve plus souvent,
Avec mes mains de maraudeur,
de musicien et de rôdeur
Qui ont pillé tant de jardins,
Avec ma bouche qui a bu,
Qui a embrassé et mordu
Sans jamais assouvir sa faim...
Avec ma gueule de métèque,
De Juif errant, de pâtre grec,
De voleur et de vagabond,
Avec ma peau qui s'est frottée
Au soleil de tous les étés
Et tout ce qui portait jupon,
Avec mon coeur qui a su faire
Souffrir autant qu'il a souffert
Sans pour cela faire d'histoires,
Avec mon âme qui n'a plus
La moindre chance de salut
Pour éviter le purgatoire...
Avec ma gueule de métèque,
De Juif errant, de pâtre grec
Et mes cheveux aux quatre vents,
Je viendrai, ma douce captive,
Mon âme soeur, ma source vive,
Je viendrai boire tes vingt ans
Et je serai Prince de sang,
Rêveur ou bien adolescent,
Comme il te plaira de choisir;
Et nous ferons de chaque jour
Toute une éternité d'amour
Que nous vivrons à en mourir.
Et nous ferons de chaque jour
Toute une éternité d'amour
Que nous vivrons à en mourir.

venerdì 24 maggio 2013

Di Nanni dalla leggenda alla storia

Il 17 maggio 1944, il giovane partigiano Dante Di Nanni insieme ai compagni Pesce, Bravin e Valentino effettuò un attacco ad una stazione radio sulla Stura, che disturbava le comunicazioni di Radio Londra. Prima di farla saltare, il commando gappista, disarmò e graziò i nove militi che la presidiavano con la promessa che non avrebbero dato l'allarme. I gappisti tuttavia furono traditi e sorpresi da un reparto nemico. Nello scontro vennero tutti feriti, Bravin e Valentino verranno catturati ed in seguito impiccati, il 22 luglio a Torino insieme a Vian, nel frattempo catturato anche lui. Tuttavia Pesce riuscì a recuperare Di Nanni, ferito gravemente da sette proiettili al ventre, alla testa e alle gambe, portandolo prima in una cascina e poi nella base di via San Bernardino 14 a Torino. Qui verrà visitato da un medico antifascista che ne consiglierà l'immediato ricovero in ospedale. Pesce, allontanatosi per organizzare il trasporto, al suo ritorno vide la casa circondata dai fascisti e dai tedeschi, avvertiti da una spia.

« Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l'ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L'ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c'è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell'attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio. »
(Giovanni Pesce, Senza tregua - La guerra dei GAP, pag.144-145, Feltrinelli, 1967, ristampa 2005)
Nonostante le ferite subite, Di Nanni si asserragliò nell'appartamento ed ingaggiò un lungo scontro a fuoco con le truppe nazifasciste, supportate pure da un'autoblindo e da un carro armato. Dopo essere riuscito ad eliminare numerosi soldati nemici, riuscì anche a mettere fuori uso i due veicoli corazzati lanciando cariche di tritolo e bombe a mano dal suo balcone. L'assedio durò quasi tre ore ed una volta terminate le munizioni, pur di non consegnarsi vivo, si trascinò verso la ringhiera del balcone e, dopo aver salutato la folla col pugno chiuso e col grido "Viva l'Italia", si gettò nel vuoto. Questa la versione più generalmente nota dei fatti. Tratta con poche modifiche di ordine formale da Wikipedia.

Ora Nicola Adduci ha stabilito che le cose non andarono esattamente così ("Il mito e la storia: Dante Di Nanni", in Studi Storici, 2012, n. 4, pp. 957-999). Giovanni Pesce accompagnò l'azione partigiana contro la stazione radio senza parteciparvi nella fase decisiva. I due compagni catturati vennero messi sotto tortura e più di ventiquattro ore dopo l'episodio uno di loro svelò l'indirizzo di Di Nanni, il quale non immaginò questo sviluppo, credeva che i due fossero morti. Si fece quindi trovare in casa. Si difese con delle bombe a mano e sparando. Poi si rifugiò nella canna della pattumiera. Fu dopo alcune ore scovato e ucciso a colpi di mitra da un fascista. Il resoconto di Giovanni Minetto, vigile del fuoco, dice:
"Questo Di Nanni per poter scampare, s'era buttato lì nella pattumiera e allora s'era tenuto, ma purtroppo si vede che gli sono mancate le forze e allora è sceso un po' e [...] c'erano i repubblichini sopra un balcone e han sentito quel fruscìo e [...] come han detto i colleghi perché eran lì, dice che lui s'è messo a dire: "Non sparate, non sparate vengo fuori!" Qualcuno ha messo un mitra e ha sparato".
Molto ci sarebbe da dire su come e perché nacque la leggenda. Nicola Adduci ha pagine e pagine e pagine su questo. L'eroismo resta, viene meno l'immagine del sacrificio pubblico e spettacolare suggellato dall'invocazione alla patria.

Nicola Adduci ha anche scritto il profilo biografico di Di Nanni per il repertorio dell'Istituto per la storia della Resistenza. Eccone il testo:
Abitante prima in via del Carmine e successivamente nella casa popolare di via Cimarosa 30, il 1° settembre 1942 si arruolò volontario negli avieri motoristi presso la scuola di Varese; dopo l'armistizio rimase alla macchia sino al 10 dicembre 1943, quando rientrò a Torino. Attraverso l'amico Francesco Valentino, abitante nella stessa casa, il giovane entrò a far parte del Gap comandato da Giovanni Pesce. Il 15 febbraio rimase ferito in un'azione contro i nazifascisti nei pressi di corso Francia e fu costretto all'inattività per qualche tempo. La notte del 16 maggio 1944, insieme ad altri compagni, partecipò ad un'azione contro la cabina Eiar di corso Giulio Cesare. L'assalto riuscì e l'antenna radio venne distrutta, ma il gruppo di gappisti, intercettato dalla Gnr, fu in parte catturato.
Di Nanni, riuscito a far perdere le proprie tracce, si rifugiò nella casa di via San Bernardino 14, usata come base, ma ventiquattr'ore dopo, il suo nascondiglio fu scoperto dai militi della Gnr che tentarono di arrestarlo. Di Nanni si difese strenuamente con il lancio di bombe a mano. Solo dopo oltre tre ore i fascisti riuscirono ad aver ragione del giovane che trovò la morte sopraffatto da ingenti forze nel frattempo sopraggiunte.

martedì 21 maggio 2013

Un essere superfluo: il bibliotecario

Il bibliotecario non pesa nelle battaglie per il potere all'interno dell'Università. Tra l'altro è una figura ormai quasi inesistente negli organici. A fronte di pochi lavoratori assunti a tempo indeterminato, la distribuzione del libri come il prestito sono affidati in genere a persone che dipendono da cooperative esterne. Persone che diventano merce di scambio in un mondo dominato dal calcolo mercantile più miope. Le cooperative licenziano o minacciano di licenziare, l'Università non c'entra, o finge di non avere a che fare con il problema, il servizio peggiora: ma questo è un particolare secondario in un paese in cui le biblioteche non hanno più i soldi per comprare i libri.

Giulia Ferrario
Come tigre in gabbia: prosegue la mobilitazione dei bibliocooperativisti torinesi
Nuova Società, 20 maggio 2013
 

Terzo giorno di sciopero "selvaggio, ma pacifico", come loro stessi tengono a sottolineare, dei lavoratori e le lavoratrici che si sono organizzati contro i licenziamenti decisi da Coop Culture di Torino. In giornata odierna alle 11 i bibliocooperativisti si sono dati appuntamento nell'atrio Palazzo Nuovo per un'assemblea nella quale hanno ribadito le ragioni della mobilitazione e hanno deciso e annunciato le prossime mosse. Dopodiché si sono mossi in corteo fino alla sede della cooperativa, in via Sant'Anselmo 6, per esporre nuovamente le proprie rivendicazioni.
Filo conduttore di tutti gli interventi in assemblea, il rifiuto categorico di quella che nel volantino intitolato "Like a tiger in a cage" ("Come tigre in gabbia"), definiscono brutalità del licenziamento, affiancata alla brutalità dell'essere lavoratori esternalizzati, e a quella dello smantellamento dei servizi universitari, dal taglio delle borse di studio alle oggettive deficienze strutturali e organizzative del nuovo campus universitario. L'intervento di Franco Bungaro, bibliotecario organico dell'Università, fornisce ulteriori strumenti per comprendere la situazione. Interpreta la posizione dell'ente accademico: «La proroga decisa in sede di CdA è una proroga effettiva, per cui di fatto i licenziamenti non avrebbero alcun fondamento. Oltretutto – aggiunge - alla domanda postale dai responsabili dell'Università se intenda proseguire o meno nel rapporto di appalto, Coop Culture ha risposto positivamente, in netta contraddizione con i licenziamenti!».
Università e cooperativa, in buona sostanza, si rimpallano le responsabilità. «Ma se quelle della Coop Culture - secondo il rappresentante sindacale Stefano Capello - sono evidenti, e stanno nell'aver deciso arbitrariamente e senza concertazione il licenziamento in tronco di 33 lavoratori che in quanto tali sono anche soci della cooperativa stessa, a fronte di un contratto d'appalto che invece è stato ufficialmente rinnovato, non bisogna sottovalutare le responsabilità dell'Università – ribadisce Andrea Guazzo, uno dei biblocooperativisti licenziati - da anni non vengono indetti concorsi per permettere l'assunzione di bibliotecari, ma la quasi totalità del servizio è esternalizzata, delegata alle cooperative che sostanzialmente funzionano da mediatori, per cui i lavoratori si vedono costretti a una condizione precaria e a essere per questo continuamente ricattabili».
La solidarietà già raccolta nei giorni scorsi tra studenti e dipendenti di altre cooperative si sta estendendo a tutto il personale universitario e agli utenti, che si vedono depauperati di un servizio indispensabile. Interviene Germana Berlantini, studentessa di Palazzo Nuovo: «siamo solidali con i lavoratori in lotta perché non condividiamo l'atteggiamento di Coop Culture e Università nei loro confronti, ma anche perché ci sentiamo direttamente coinvolti, anche noi vittime del progressivo smantellamento e della riduzione della dei servizi per cui continuiamo a pagare le tasse. Ci troviamo costretti a gestire noi stessi le biblioteche chiuse dall'Università, come la Ruffini, e a rinunciare a ore di studio o ricerca perché quelle aperte hanno orari ridotti rispetto al passato, come la Bobbio, nel nuovo campus, che chiude al pubblico alle 18». Dello stesso segno gli interventi successivi, di studenti e di lavoratori del sociale, anch'essi assunti tramite cooperativa e perciò precari e in mobilitazione quasi perenne.
Il prossimo appuntamento è per domani alle 11 per un corteo che partirà dal novo campus e arriverà in Rettorato dove si trasformerà in un presidio in occasione della riunione del Senato Accademico, «in cui - ci dice il professor Enrico Pasini, rappresentante del Dipartimento di Filosofia che incontriamo prima dell'inizio dell'assemblea - mi preoccuperò di portare la questione all'attenzione del Senato, in modo che esca una posizione chiara e univoca per voce del Prorettore che possa sollecitare la risoluzione della faccenda». «L'Università – aggiunge – deve lavorare nell'ottica di ampliare il servizio e quindi la richiesta di personale o monte ore, non certo in senso opposto».
Resta da augurarsi che si trovi il modo di non far pagare ai lavoratori le questioni tra cooperativa e università.

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 ... i licenziamenti sono stati poi ritirati.

Alessandro Ferretti

“…ci vediamo costretti ad operare il licenziamento collettivo di nr.33 unità di personale a tempo indeterminato”. Licenziati in tronco, senza ammortizzatori sociali, tramite un fax senza firma. Così inizia questa storia, giovedì scorso a Torino: ben poco originale, in questi tempi austeri.
I licenziati sono soci di una delle due cooperative che forniscono il servizio di reference delle 49 biblioteche dell’Università di Torino: stanno al bancone, accolgono gli utenti e porgono i libri. UniTo ha da anni appaltato il servizio (rimettendoci dei soldi): oltre ai 33 dipendenti di CoopCulture ci sono altri 39 esternalizzati.
Tra i licenziati ci sono persone che lavorano per la cooperativa da 15 anni: hanno famiglie, spese e affitti da pagare. Nella lettera di licenziamento si legge che le “condizioni economiche … attuali non consentono all’azienda l’equilibrio economico della gestione”. Una storia simile si ripete ogni anno, al rinnovo dell’appalto. Il lavoratore esternalizzato è il vaso di coccio tra un’azienda che vuole massimizzare i profitti e un’università che vuole risparmiare, ma stavolta è peggio: mai si era arrivati al licenziamento in tronco di massa.
La notizia è una mazzata violenta, ma stavolta cade su un’incudine davvero dura. I bibliocoop in anni di precarietà hanno imparato che, rimanendo uniti e agendo insieme, sopravvivere alle incertezze della loro condizione è possibile. Due anni fa si sono mobilitati in massa contro i licenziamenti di tre colleghi e sono riusciti a sventarli con scioperi partecipati, coinvolgendo la comunità universitaria ed evitando la riduzione degli orari di apertura delle frequentatissime biblioteche.
E così, alla mazzata fa seguito una reazione decisa e immediata. Giovedì stesso viene indetto uno  sciopero a oltranza, fino al ritiro di tutti i licenziamenti. Il giorno dopo, venerdì 17, c’è il tracollo del sistema: le biblioteche sono praticamente tutte chiuse. Oltre a tutti i 33 licenziati hanno scioperato anche la grande maggioranza dei lavoratori dell’altra cooperativa; i bibliotecari dipendenti diretti dell’università sono solidali e non estendono le loro mansioni per mettere una toppa sui disservizi. Pure le copisterie intorno alle sedi universitarie notano che è successo qualcosa di strano: nessuno è andato a fare fotocopie!
Gli scioperanti non stanno però certo a casa a far flanella. Si ritrovano alle 9 alla sede CUB (molti dopo una notte in bianco), discutono e decidono di dirigersi, con un corteo improvvisato, alla sede torinese della Coop Culture. Contattata sul posto, la sede centrale veneziana rifiuta di ritirare i licenziamenti. I bibliocoop si dirigono quindi alla divisione bibliotecaria di UniTo, l’altra morsa della tenaglia, che si dice subito disponibile a cercare ogni soluzione per garantire la continuità lavorativa.
I bibliocoop fanno il punto in un’assemblea nei locali della divisione. A parlare sono persone comuni, che hanno imparato sulla loro pelle la vulnerabilità della condizione di esternalizzato, ma sono consapevoli della propria professionalità e dell’importanza del lavoro che svolgono. Arrivano anche studenti dei collettivi e altri solidali: dopo un po’ il locale non contiene tutti e si va a parlare in strada. Alla fine si conferma lo sciopero, discutendo la situazione in assemblea il lunedì seguente insieme a ricercatori, precari e studenti.
Dopo un inquieto weekend, alla fine dell’assemblea gli scioperanti vanno in corteo al Rettorato dove è in corso una seduta del Senato Accademico. Viene diffusa la notizia che CoopCulture avrebbe ritirato i licenziamenti, ma non c’è nessuna comunicazione ufficiale al riguardo. Le biblioteche rimangono chiuse o con orari fortemente ridotti; ogni giorno i bibliocoop diffondono aggiornamenti della situazione.  Studenti, docenti e precari non se la prendono con gli scioperanti per il disservizio e in molti si mostrano partecipi.
Il giorno dopo nuovo corteo dal Campus Einaudi fino in Rettorato per “intervenire” dall’esterno alla seduta del CdA. Finalmente arriva una notizia positiva: il CdA decide che i prossimi appalti del servizio avranno durata triennale, dando più continuità al servizio e più serenità ai lavoratori. Spunta anche l’ipotesi di cancellare subito 30 licenziamenti e mantenerli solo per 3 persone, ma il rifiuto è netto: tutti al lavoro o nessuno al lavoro.
Mercoledì i precari del CPUniTo, che conoscono appieno il dramma della precarietà, mostrano la loro solidarietà in modo tangibile: devolvono 500 euro (prendete esempio!) al fondo cassa di solidarietà per gli scioperanti. Infine, la perseveranza viene premiata: al quinto giorno di sciopero, ieri pomeriggio Coop Culture ritira tutti e 33 i licenziamenti.
Don Gallo se n’è andato più o meno in quello stesso momento. Penso che gli avrebbe fatto piacere conoscere questa piccola storia piena di voglia, di lotta, di speranza e di dignità. Questo articolo è dedicato a lui e a Beppe Ambare: un grazie per tutto e un abbraccio, spero che stiate già facendo amicizia.

Torino, l’Università che resiste: bibliotecari rispediscono i licenziamenti al mittente
 Il Fatto quotidiano, 23 maggio 2013

Amore senza eros nei Promessi sposi

Le ragioni del silenzio 

Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d’una vergine non più acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n’abbia), e di anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca di tenere occupato il cuor suo coll’idea dei suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e colle speranze che il mondo non può dare né torre; ditemi un po’che bell’acconcio potrebbe fare a questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti.
Ponete il caso che un giovane prete...
Fermo e Lucia, II, 2
 


Il ritratto di Lucia 

Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perchè si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare.
I Promessi Sposi, capitolo 2
Lucia nei pensieri di Renzo

Tre sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d’ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera e una barba bianca.
...  Che notte, povero Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual serie di giorni! — Quel che Dio vuole, — rispondeva ai pensieri che gli davan più noia: — quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto in isconto de’ miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo! —
...  Renzo si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. — Ah! ne son proprio fuori! — fu il suo primo pensiero. — Sta’ lì, maledetto paese, — fu il secondo, l’addio alla patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull’acqua che gli scorreva [a’ piedi, e pensò — è passata sotto il ponte! —
pensieri di Renzo durante la fuga, capitolo 17


Una parola impossibile da proferire o anche solo da evocare allusivamente

Gertrude la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta lungamente, compiacendosi dell’ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia s’andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che sufficienti a spiegar ciò che c’era d’un po’ strano nelle maniere della sua benefattrice; tanto più con l’aiuto di quella dottrina d’Agnese su’ cervelli de’ signori. Per quanto però si sentisse portata a contraccambiare la confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi fosse quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle domande curiose di quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non eran ragioni di prudenza. Era perchè alla povera innocente quella storia pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’era tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sè; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore!
cap. 18

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Alberto Arbasino, Solo per te, Lucia, in Certi romanzi, Einaudi, Torino 1971, p. 270:
Nella figura di Lucia, [...] convergono apertamente le due pulsioni fondamentali dei Promessi Sposi. La  prima dev'essere la cupidigia sessuale, anche se non si sente, perché dopo tutto è questa che mette in moto la trama con le voglie di Don Rodrigo, e poi la ricarica a metà romanzo con le pâmoisons della monaca di Monza. La seconda sarà evidentemente la religiosità che affanna e consola e dunque può risolvere un buon numero di problemi come uno stimolante o un tranquillante 'che fa miracoli'.

domenica 19 maggio 2013

Il realismo socialista in pittura

Daniela Ciabattini

"Un'arte comprensibile per le masse". In questo breve assunto di Lenin, formulato negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione Proletaria, appare chiara la sua posizione nei confronti dell'arte, che secondo Vladimir Il'ič doveva essere "lontana dagli eccessi formalistici dell'astrazione futurista" per diventare, appunto, comprensibile a tutti.



Con il passare del tempo il pensiero di Lenin andò via via prendendo forma fino a trovare la sua massima espressione durante la dittatura di Stalin, con la formulazione ufficiale del Realismo socialista, ovvero l'unico tipo di arte permessa dallo Stato nel periodo dell'Unione Sovietica. La nascita ufficiale del Realismo socialista si ebbe nel 1934 durante il Congresso degli Scrittori Sovietici di Mosca: lo scrittore Maksim Gor'kij sancì il principio secondo il quale l'arte doveva avere una forma realista e un contenuto socialista, in accordo con la dottrina marxista-leninista.
La massima affermazione del Realismo socialista si ebbe durante lo Ždanovismo: Andrej Ždanov, fido collaboratore di Stalin, proclamò il Realismo socialista unica forma d'arte ammessa dallo Stato e sciolse i movimenti artistici indipendenti, formando delle Unioni degli artisti strettamente controllate dal potere sovietico.


I principi del Realismo socialista sono molto semplici: gli artisti dovevano rappresentare in modo concreto la rivoluzione e la realtà socialista in modo da educare i lavoratori secondo gli ideali del partito; pertanto, tra i soggetti prediletti di questi artisti c'erano la grande guerra patriottica, il futuro glorioso dell'Urss e la vittoria del Comunismo. Le opere di questo periodo rappresentavano scene trionfalistiche di partito, culto della personalità dei maggiori esponenti politici, ritratti di famiglie sane e felici, contadini lieti di lavorare per la collettivizzazione, insomma: propaganda politica allo stato puro. Gli artisti che si rifiutavano di seguire i dettami dell'arte di regime venivano esiliati o esclusi dagli incarichi pubblici, praticamente privati della possibilità di esprimersi e, nei fatti, di lavorare.


Ovviamente il Realismo socialista non è rimasto fermo monoliticamente sulle sue posizioni, bensì si è evoluto con il tempo, ad esempio, nel tardo dopoguerra, alle scene di collettivi agricoli si sono sostituiti motivi di carattere nazionalista in reazione alle influenze straniere. Dopo la morte di Stalin, e la successiva destalinizzazione operata da Chruščev, il Realismo socialista rimase arte di regime ma con notevoli attenuazioni, fino alla fine del movimento artistico dopo il periodo di Brežnev.

sabato 18 maggio 2013

Emergenza abitativa a Torino: la storia di Mohamed


foto di Stefano Bertolino

Anna Cordioli

La storia di Mohamed e della sua famiglia è simile a quella di molte altre che, in questo drammatico momento, stanno vivendo l’emergenza della perdita della casa.
Mohamed arriva in Italia clandestinamente nel 2004, grazie a un viaggio costato settemila euro, i risparmi di una vita, quelli che suo padre ha accantonato a fatica per lui, il primogenito, per permettergli di venire qui, dove le possibilità di lavorare sono maggiori e la prospettiva di vita è migliore. Il viaggio è lungo e pericoloso, specie se fatto insieme ad altre quaranta persone stipate in un container a bordo di una nave, ma con un po’ di fortuna arriva in Spagna e da lì, in taxi, raggiunge l’Italia, Torino. Qui cerca in fretta un posto dove stare e un lavoro, in modo da poter ottenere il permesso di soggiorno, ma il primo impiego che trova è al mercato di Porta Palazzo, per 13 euro al giorno, soldi che gli permettono appena di pagare un posto letto all'interno di una casa con altri ragazzi clandestini. Per avere i documenti bisogna disporre di molti soldi e in fretta, di conseguenza per molti di loro l’unica soluzione è quella di lavorare nel mondo della criminalità organizzata. Mohamed non vuole assolutamente farlo, così cerca disperatamente una nuova casa da condividere con persone oneste come lui e un nuovo lavoro, prima come lavapiatti in alcuni locali della città e dal 2006 come volantinante. Ben presto diventa il responsabile di un team pubblicitario, impiego che offre buoni guadagni e che gli permette, nel 2008, di acquistare un furgone con il quale poter lavorare. Conosce Khadija e nel 2009 si sposano, hanno una bella casa, presto nasce il primo figlio e ottengono il tanto atteso permesso di soggiorno. Dal 2011 il lavoro inizia a calare e quello che guadagna basta appena a pagare l’affitto finché, nel febbraio del 2012 Mohamed non ce la fa più. La prima intimazione di sfratto per morosità non viene ricevuta e così non si presenta all'udienza fissata il 31 luglio 2012. Riceve una la prima lettera a settembre e una seconda a dicembre che fissa lo sfratto in data 15 gennaio. Al primo accesso Mohamed oppone resistenza e riceve così una proroga di tre mesi, ma conoscendo la situazione economica del proprietario, si mette nei suoi panni e decide di non continuare con la resistenza. Dal 16 aprile 2013 lui e la sua famiglia non hanno più una casa.
Torino detiene il triste primato nazionale di sfratti, sono circa duecentocinquanta ogni mese per morosità incolpevole, ma sono in aumento anche i pignoramenti bancari dovuti all'impossibilità di pagare le rate del mutuo.
Il consigliere comunale Michele Curto sostiene che il Comune dispone, attraverso l’ATC (Agenzia Territoriale per la Casa), di molte proprietà che non vengono messe a disposizione perché non ritenute in condizioni idonee, anche se gli sfrattati potrebbero auto-recuperare queste strutture. Il consigliere ha inoltre aggiunto che «il Sindaco potrebbe addirittura fare ricorso allo stato di emergenza che costringerebbe i grandi privati (banche e istituti di credito) a fornire l’enorme quantità di case di cui sono proprietari». Eppure nulla di tutto ciò è finora stato fatto, anzi, sempre più spesso gli sfratti vengono eseguiti a sorpresa, nel cuore della notte, per evitare i picchetti che alcuni ragazzi organizzano per resistere insieme alle famiglie interessate.
Mohamed è disperato, sta cercando un impiego, ma senza grandi risultati: ha trovato un’offerta per raccogliere mandarini a 2 euro l’ora oppure per lavorare come clown in un circo itinerante a 500 euro al mese (lavoro che per altro lo terrebbe lontano da casa).
Dal 29 aprile al 5 maggio ha vissuto, in segno di protesta, in Piazza Palazzo di Città, insieme ad altre quindici famiglie magrebine che si trovano in una situazione simile alla sua. Il Comune gli ha infine concesso un incontro, lo scorso 8 maggio, dal quale non ha ottenuto molto. Gli è stato spiegato che non può far parte degli aventi diritto al programma “emergenza abitativa” poiché non è riuscito a dimostrare un calo del reddito (problema comune a molti che si sono sempre mantenuti grazie al lavoro nero). A fine anno potranno partecipare al bando per l’assegnazione di una casa popolare, ma per avere un punteggio maggiore (e quindi salire in graduatoria) gli assistenti sociali hanno proposto loro di vivere per almeno un anno separati, questo significa che Mohamed dovrebbe “arrangiarsi” mentre la moglie e i due bambini potrebbero stare in una comunità, soluzione che è stata nei giorni scorsi ritrattata dagli stessi servizi sociali che, a causa del sovraffollamento delle strutture, potrebbero ospitare i soli bambini.
Lui e Khadija non sono disposti a separarsi e per questo motivo stanno lottando giorno dopo giorno per trovare una soluzione alternativa. Non vogliono tornare in Marocco «là ci sentiamo stranieri», il loro Paese è questo ed è lo stesso per i loro bambini, che sono nati qui.
Il gruppo di famiglie che hanno vissuto per una settimana in Piazza Palazzo di Città ora hanno deciso di unirsi in un’associazione per poter gestire meglio il problema dell’emergenza casa. Sarà aperta a tutti gli stranieri che hanno bisogno d’aiuto e in una sola settimana hanno già raccolto l’adesione di ventitré famiglie. Non hanno la certezza che questa associazione possa cambiare la loro condizione attuale, ma sono determinati a portare avanti la loro “battaglia” in modo trasparente e legale. Inoltre sono convinti che questo legame li renderà meno invisibili, quando saranno in cento famiglie davanti al comune non si udirà più solo un grido, il loro sarà un boato.

Manet e Tiziano a Venezia

Valentina Tosoni
la Repubblica, 26 aprile 2013

Eccole una vicina all'altra entrambe sdraiate e rilassate, ma con lo sguardo vigile, attento nel fissarti dritto negli occhi, senza indugio. Basta solo questa visione a decretare l'eccezionalità della mostra che ha ''invitato'' a Palazzo Ducale di Venezia ''l'Olympia '' di Manet, che per la prima volta lascia la Francia e la ''Venere di Urbino'' del Tiziano (prestito eccezionale dalla Galleria degli Uffizi), due cortigiane, donne emancipate e fuori dagli schemi.  Entrambe arrivate per presenziare nell'esposizione ''Manet, ritorno a Venezia'', che si candida a essere una delle principali attrattive della Serenissima, proprio ora che si appresta a essere invasa anche dall'arte contemporanea; tra meno di un mese la prossima Biennale conquisterà i Giardini, l'Arsenale e non solo.



Come si sa, tornando ai capolavori di prima, la più antica fanciulla ispirò la più recente, non per questo, però riuscì a evitarle tutta una serie di scandali che segnarono il suo destino. ''L'Olympia'', dipinta da Manet nel 1863, fu rifiutata al Salon del '65, da allora quello spirito di sconvenienza e di difficile accettazione l'accompagnò sempre, come quel malizioso nastrino che le cinge il collo, d'un nero ''ineludibile e poco impressionistico'', come scrive nel testo in catalogo Skira, Roberto Calasso. Manet venne in Italia a studiare l'arte antica e in particolare  apprezzò la pittura di Tiziano, la descrizione delle forme così vivide e naturali, sempre accompagnate da un peso psicologico intrinseco, valori che trovò manifesti e perfettamente interpretati nella splendida Venere, che lo colpì a tal punto da volerne reiterare l'intensità, trasportandola nella sua contemporaneità. C'è chi sostiene che in realtà Manet si formò principalmente in Spagna, dove pure si recò da giovane, e si abbeverò davanti a Goya, El Greco e Velasquez. Sicuramente quell'educazione pose le sue fondamenta e lo strutturò, ma la mostra veneziana con le sue 80 tele straordinarie, fa capire quanto quell'imprinting dovette poi fondersi con altri influssi.

Manet per ben tre volte soggiornò a Venezia, assimilò Giorgione, Veronese e Guardi, come da Firenze portò con sé il tratto dolce dei ''manieristi'' e fu ingordo del nostro Rinascimento. La prima volta che vide la laguna fu nel settembre del 1853, poco più che ventenne, e nello stesso anno vi ritornò per un secondo viaggio. L'ultimo fu invece nel 1874, stesso anno della famosa mostra dell'Impressionismo a Parigi. Esposizione a cui non partecipò, si lasciò invece cullare dalla fantastica luce italiana e realizzò varie vedute del Canal Grande.

La mostra, sapientemente congegnata da Stéphane Guéguan e voluta da Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, riserva grandi emozioni: sono molti i capolavori prestati dal Museo D'Orsay, dal ''Balcon'' realizzato tra il 1868 e il 1869, opera importante che accenna e anticipa quella modernità che poi sarebbe esplosa senza mezzi termini, il celeberrimo pifferaio ''Le fifre'' del 1866 e ancora una copia dell'epocale ''Déujeuner sur l'herbe'' del 1863, che nonostante l'impianto compositivo classico, fece gridare allo scandalo per l'utilizzo di abiti moderni e per le proporzioni della donna nuda in primo piano; ci pensò la storia a tramutare il dipinto dai morbidi contrasti cromatici, in uno dei più significativi capolavori del XIX secolo.

L'impianto critico della mostra è volto a sostenere che non solo la pittura spagnola influenzò l'arte di Manet, ma in buona parte fu proprio l'arte italiana a plasmare l'impianto linguistico del grande artista francese. Oltre a ciò, però è stato realizzato: ''Un grande sogno, che ha comportato un anno e mezzo di lavoro'', ha dichiarato Gabriella Belli in conferenza stampa, e ha poi aggiunto ''Si è concretizzato un desiderio che tutti i direttori di museo, storici dell'arte come me, hanno: riunire nella stessa sala due capolavori, l'uno nato di conseguenza all'altro, siamo riusciti a mettere finalmente a confronto 'Olympia e la 'Venere di Urbino''. Due immensi dipinti che nonostante i 300 anni di distanza, dialogano con estrema modernità.

venerdì 17 maggio 2013

Valduga/Catullo, Baciami

Patrizia Valduga


Baciami; dammi cento baci, e mille:
cento per ogni bacio che si estingue,
e mille da succhiare le tonsille,
da avere in bocca un'anima e due lingue.

da "Cento quartine"



Catullo


Dobbiamo mia Lesbia vivere, amare,

le proteste dei vecchi tanto austeri

tutte, dobbiamo valutarle nulla.

Il sole può calare e ritornare,

per noi quando la breve luce cade

resta una eterna notte da dormire.

Baciami mille volte e ancora cento

poi nuovamente mille e ancora cento,

e dopo ancora mille e ancora cento,

e poi confonderemo le migliaia

tutte insieme per non saperle mai,

perché nessun maligno porti male

sapendo quanti sono i nostri baci
.

-----------------------------------------------------
Vivamus mea Lesbia,atque amemus,

Rumoresque senum severiorum

Omnes unius aestimemus assis.

Soles occidere et redire possunt;

Nobis cum semel occidit brevis lux,

Nox est perpetua una dormienda.

Da mi basia mille, deinde centum,

Dein mille altera, dein seconda centum,

Deinde usque altera mille, deinde centum.

Dein, cum milia multa fecerimus,

Conturbabimus illa, ne sciamus,

Aut ne quis malus invidere possit,

Cum tantum sciat esse basiorum. 

mercoledì 15 maggio 2013

Tornano le Lettere dal carcere

Donatello Santarone
Lo stile ritrovato di una scelta di vita, il Manifesto, 14 maggio 2013
Riproposta da Sellerio dopo quasi venti anni di assenza l'edizione completa delle lettere dal carcere. Un libro che introduce a un'opera che ha segnato il clima culturale dell'Italia repubblicana
«La storia è ciò che ci tocca più direttamente ... perché costituisce l'unico oggetto di studio in cui gli uomini si presentano davanti a noi nella loro interezza». Queste parole di Erich Auerbach possono aiutarci a penetrare nei pensieri e nella sofferta (ma anche a tratti felice) umanità delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. La frase del filologo tedesco ci rammenta che un corretto approccio alle Lettere, come ai Quaderni e agli scritti precedenti il carcere, non può non considerare l'interezza dell'uomo, dell'intellettuale marxista e del militante comunista, in cui la molteplicità e la ricchezza delle questioni affrontate si comprendono restituendole alla storia. Solo dopo questa paziente ricostruzione, il lascito di Gramsci può divenire, come è ormai accaduto in tante parti del mondo, l'opera di un «classico», capace di parlare al presente anche in contesti storici diversi da quelli che l'hanno generata.
Va salutata perciò con gioia la ricomparsa nelle librerie italiane della più completa raccolta dell'epistolario carcerario gramsciano, che l'editore Sellerio ripropone nell'edizione critica curata nel 1996 da uno dei maggiori studiosi al mondo di Gramsci, Antonio A. Santucci (Lettere dal carcere 1926-1937, Sellerio, pp. 886, euro 28). Si tratta di un corpus di 478 lettere a cui se ne aggiungono 16 indirizzate ad autorità giudiziarie, ministeriali e governative, ed altre 12 indirizzate a Gramsci da parte di Tatiana e Giulia Schucht, Giuseppe Berti, Ruggero Grieco e una inviata da Umberto Cosmo a Piero Sraffa, utili, scrive il curatore, per «consentire la ricostruzione immediata di alcuni scambi significativi del carteggio gramsciano».

La lima sottile del carcere

Immergersi nella lettura di queste pagine rappresenta una straordinaria avventura dello spirito, consente di misurarsi con alcuni fondamentali problemi dell'esistenza umana, facendo conoscere a un lettore del XXI secolo un viaggio di formazione e di conoscenza che solo un classico può offrirci. Un'opera compiuta, ricorda Santucci nella nota introduttiva, nata dalla condizione di un uomo recluso e privato della libertà dal fascismo, di un uomo che «affida al dialogo epistolare il compito di rallentare gli effetti devastanti della "lima sottile" che disgrega la mente e la volontà del condannato».
Questo dialogo epistolare è un continuo intreccio di autoanalisi e di descrizioni della condizione psico-fisica del prigioniero, a più riprese gravemente sofferente, ma sempre lucidamente consapevole delle ragioni storiche della sua condizione. Scrivendo alla sorella Teresina ed esprimendo preoccupazione per lo stato d'animo della madre, scrive: «Per lei (la mamma) il mio incarceramento è una terribile disgrazia alquanto misteriosa nelle sue concatenazioni di cause ed effetti; per me è un episodio della lotta politica che si combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo» (Lettera 92, 20 febbraio 1928). Gramsci paragona la sua condizione di carcerato e quella di un altro famoso detenuto, il patriota abruzzese Silvio Spaventa, deputato al Parlamento napoletano del 1848, il quale mantenne sempre una grande coerenza di ideali, «né - afferma Gramsci - si diede alla devozione, anzi, come scrive spesso, si andò sempre più persuadendo che la filosofia di Hegel era l'unico sistema e l'unica concezione del mondo razionali e degni del pensiero d'allora» (Lettera 171, 13 gennaio 1930).
L'ostinata volontà di comunicare e dialogare è un tratto precipuo della personalità di Gramsci: «Sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il pensare "disinteressatamente" mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. (...) Ordinariamente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento nessuno stimolo intellettuale. Come ti ho detto una volta, non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti familiari voglio fare dei dialoghi» (Lettera 211, 15 dicembre 1930).
Ci sono poi i temi più esplicitamente politici, storici, filosofici, letterari, pedagogici, nei quali Gramsci, pur dentro quella criptografia carceraria necessaria per eludere la censura, affronta, o semplicemente vi allude, alcune delle questioni approfondite nei Quaderni del carcere. Tra questi vi è quello educativo. Nel tentativo di contrastare la morte di una rosa, che «ha preso una terribile insolazione», e cercando di sostenere la crescita di nuove «pianticelle», Gramsci scrive a Tania: «A me ogni giorno viene la tentazione di tirarle un po' per aiutarle a crescere, ma rimango incerto tra le due concezioni del mondo e dell'educazione: se essere roussoiano e lasciar fare la natura che non sbaglia mai ed è fondamentalmente buona o se essere volontarista e sforzare la natura introducendo nell'evoluzione la mano esperta dell'uomo e il principio d'autorità. Finora l'incertezza non è finita e nel capo mi tenzonano le due ideologie». (Lettera 148, 22 aprile 1929). Questo brano è emblematico di un procedimento molto frequente nelle Lettere: a partire da una descrizione della vita in cella, da un raccontino, da una memoria dell'infanzia in Sardegna, da una vicenda naturale, Gramsci introduce temi di rilevanza teorica, come questo relativo al rapporto educativo, all'alternativa pedagogica (così Mario Alighiero Manacorda volle intitolare un'antologia gramsciana sull'educazione) tra spontaneità e coercizione, individualità e autorità, libertà e necessità.
La fatica intellettuale

In tutta l'opera e l'azione politica di Gramsci il tema della formazione riveste infatti un'importanza particolare, fin dagli anni del movimento consiliare torinese e dell'Ordine nuovo, perché convinto che non è possibile pensare alla politica senza un solido fondamento culturale. La classe operaia, sostiene Gramsci, potrà esercitare una duratura egemonia nella misura in cui essa sarà dotata di una solida coscienza di classe («il rivoluzionario qualificato») frutto di un molecolare e serio tirocinio intellettuale che parta dalle lotte e che si accompagni a momenti di discussione e di studio. A questo proposito va ricordato che curò personalmente le dispense per un corso di formazione dei primi quadri del nascente partito comunista, che si adoperò per la costituzione di club di discussione culturale, che più volte intervenne per ricordare quanta importanza avesse la conquista di una cultura generale di base per la classe operaia necessaria per avere idee generali sul mondo in opposizione alla aridità e alla meccanicità delle vecchie scuole professionali che trasformano i lavoratori in «mostri aridamente istruiti». Così scriveva sull'Avanti! del 24 dicembre 1916: «Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere. Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento».
Costretto a non rivedere più i figli Delio e Giuliano, Gramsci scrive lettere toccanti e piene di umanità ai suoi bambini e alla moglie Giulia, chiedendo notizie sulla loro crescita intellettuale e morale, sulla scuola, sui loro interessi. Il dirigente comunista si interroga sulla funzione educativa del Meccano, indicato come il gioco più vicino alla nuova cultura industriale di quegli anni, sull'importanza dei classici della letteratura per l'infanzia, sui racconti legati alla natura e agli animali, sullo studio della storia, che «riguarda - scrive al figlio Delio - gli uomini viventi (...), tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi» (Lettera 468, data incerta).
Nel frattempo Gramsci matura (otto mesi dopo la lettera sulla rosa) una sua posizione sull'educazione, intimamente connessa alla sua concezione della politica e del partito, in cui centrale è ciò che nei Quaderni definisce il «conformismo dinamico», cioè un processo di acculturazione, istruzione e socializzazione unitario e omogeneo (simile, in questo, ai nuovi processi di standardizzazione industriale del fordismo statunitense e dei piani quinquennali sovietici), solo a partire dal quale è possibile far emergere l'individualità e la creatività. Distante dal puerocentrismo di tanta pedagogia attivistica (non ci si deve abbandonare «alla pura contemplazione estetica del bambino, che viene implicitamente degradato alla funzione di un'opera d'arte»), alla quale pure Gramsci guarda con molta curiosità e considerazione, egli si propone di passare dalla fase della scuola attiva a quella della scuola creativa.

Il rumore di fondo della merce

Per questa ragione lo studioso marxista, a proposito dell'educazione del figlio Delio, ha l'impressione che la concezione della moglie e della sua famiglia «sia troppo metafisica, cioè presupponga che nel bambino sia in potenza tutto l'uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente, senza coercizioni, lasciando fare alle forze spontanee della natura o che so io. Io invece penso che l'uomo è tutta una formazione storica ottenuta con la coercizione (intesa non solo nel senso brutale e di violenza esterna) Questo modo di concepire l'educazione come sgomitolamento di un filo preesistente ha avuto la sua importanza quando si contrapponeva alla scuola gesuitica, cioè quando negava una filosofia ancora peggiore, ma oggi è altrettanto superato. Rinunziare a formare il bambino significa solo permettere che la sua personalità si sviluppi accogliendo caoticamente dall'ambiente generale tutti i motivi di vita». (Lettera 170, 30 dicembre 1929).
Questo accoglimento caotico dall'ambiente generale è ciò che il Franco Fortini chiamava il «rumore di fondo», cioè la pervasiva e molecolare penetrazione del capitale attraverso i media e le merci, con tutto il loro carico evocativo e educativo, nella formazione delle persone. E tale penetrazione, ricordava Fortini, accompagnata dalla rinuncia ad opporvisi da parte della maggioranza della sinistra italiana, ha contribuito alla gigantesca rivoluzione passiva che ha segnato la storia d'Italia degli ultimi venticinque anni.

martedì 14 maggio 2013

Oriente e Occidente, la divergenza

Gianni Toniolo
Il Sole 24ore, 29 gennaio 2012

Daniel R. Headrick, Il predominio dell'Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo, il Mulino, Bologna,pagg. 408, € 29,00
Ignazio Musu, La Cina contemporanea, il Mulino, Bologna, pagg. 204, € 13,00

L'evento che definisce la nostra epoca, gli ultimi vent'anni della storia universale, è la fine della "grande divergenza" tra l'Occidente e il resto del mondo, o - se si preferisce - tra le due estremità dell'Eurasia origine delle civiltà che nei secoli sono state più capaci di innovazione e sviluppo economico. La rivoluzione sottesa dalla convergenza iniziata nell'ultimo quarto del secolo scorso è talmente radicale che non stupisce il rinnovato interesse per l'origine e le cause della precedente "grande divergenza". Sul piano meramente quantitativo, non vi sono dubbi che, a partire dalla rivoluzione industriale di fine del '700, Europa e America settentrionale abbiano progressivamente ampliato il divario tra il proprio reddito per abitante, in rapida crescita, e quello del resto del mondo bloccato (con l'eccezione del Giappone) in una crescita nulla o molto modesta. Altrettanto largo consenso esiste nel ritenere che ancora nel quindicesimo secolo l'impero della dinastia Ming, con una popolazione pari a un quarto di quella mondiale, godesse di un reddito pro capite complessivamente pari o di poco inferiore a quello dell'Europa Occidentale e che alcune sue regioni uguagliassero quelle europee più sviluppate. Il disaccordo è, invece, sommo sui secoli compresi tra l'irrompere delle potenze europee nei mari dell'Oriente e l'avvio della rivoluzione industriale inglese. La scuola californiana, capeggiata da Kenneth Pomeranz (The Great Divergence, 2000), sostiene che l'economia cinese ha retto molto bene il confronto con quella europea sino, appunto, al momento in cui la rivoluzione industriale diede all'Occidente un (temporaneo) vantaggio sul resto del mondo. Di opinione opposta sono altri studiosi (con moderazione Rosenthal e Wong, Before and Beyond Divergence, 2011, più radicalmente alcuni storici quantitativi). Nell'ultimo decennio, l'interesse per l'origine della "grande divergenza" ha valicato il confine dei cultori di "storia globale". Era inevitabile che la straordinaria crescita di grandi Paesi di antica civiltà, a lungo emarginati nella dinamica dello "sviluppo economico moderno", producesse una orgogliosa rivisitazione del proprio passato, con toni più o meno velati di nazionalismo anti occidentale. Se fosse provato che Cina e India godevano a fine settecento di livelli di benessere paragonabili a quelli dell'Europa Occidentale, sarebbe assai più facile sostenere che la successiva "grande divergenza" sia stata frutto di un avido imperialismo. È questa, per esempio, la tesi sostenuta ora da un importante studioso indiano (Parthasarathi, Why Europe Grew Rich and Asia Did Not: Global Economic Divergence, 1600-1850, 2012).
Il contributo di Daniel Headrick a questo dibattito consiste nel mostrare come la relazione tra tecnologia e imperialismo sia più complessa di quanto comunemente si pensi. Non vi sono dubbi, per Headrick, sul predominio tecnologico dell'Occidente dal XVI secolo in avanti. Fino alla seconda metà del Quattrocento, la marina cinese era la prima del mondo. Avrebbe potuto continuare a esserlo se, per una serie di motivi, non si fosse deciso di tagliare le enormi spese necessarie a mantenere la flotta militare, limitando drasticamente anche il commercio oltremare. All'inizio del Cinquecento, la migliore tecnologia marittima era ormai in mano ai portoghesi. Bastò, da allora in poi, il predominio tecnico dell'Occidente a garantire anche un dominio "imperiale"? Non sempre. Molto dipese dall'ambiente in cui le diverse tecniche furono impegnate e dalla reazione-imitazione delle popolazioni locali, soprattutto dalla loro capacità di adattare a proprio uso alcune delle tecniche occidentali. La diffusione del vaiolo, da cui gli europei erano immuni, aiutò la loro penetrazione nelle Americhe ma le malattie autoctone africane agirano da potente freno alla penetrazione bianca nel continente. Le "vele e i cannoni" di cui parla Cipolla consentivano di dominare il mare aperto ma non di penetrare nelle acque interne dell'Asia. I cavalli si trasformarono in America da strumento di conquista ad arma di resistenza, una volta che le popolazioni locali impararono ad allevarli e adattarli alle grandi praterie. Francesi, americani e russi impararono a proprie spese in Vietnam e Afghanistan che il predominio dell'aria, decisivo in Kosovo, può anche rivelarsi controproducente. La conclusione di Headrick è che non sempre la tecnologia di frontiera costituisce la migliore risposta a un avversario: l'imperialismo ha avuto fortune altalenanti anche, forse soprattutto, per questo motivo.
Mentre fiorisce il dibattito sull'origine della "grande divergenza", il suo recente ribaltamento irrompe nella storia, nella nostra vita quotidiana. Fatichiamo a orientarci sulle cause della nuova convergenza e soprattutto capire se essa sia destinata a proseguire. L'Oriente, culla del nuovo sviluppo, ci sembra per lo più misterioso e quindi un po' minaccioso, come ai tempi di Marco Polo. Mezzo millennio di eurocentrismo ci ha disabituato a guardare oltre l'orto di casa. Ignazio Musu, da anni frequentatore e studioso della Cina, ci offre un'agile, leggibilissima, introduzione all'economia e alla società cinesi, a partire dalle riforme che stanno all'origine dell'incredibile rincorsa dell'Occidente da parte di un quinto della popolazione mondiale. Mentre discutiamo, anche su questo giornale, sulle debolezze e sul futuro del capitalismo, con la mente quasi ossessivamente focalizzata su Wall Street e dintorni, Musu ci introduce a un "capitalismo" che, malgrado un' apparente somiglianza, è molto lontano dalla più recente incarnazione occidentale. Si può ipotizzare, con tutti i necessari distinguo, che Stato e mercato interagiscano nella società cinese, in modi che assomigliano a quelli dell'Inghilterra del diciottesimo secolo? O a quelli cinesi del quindicesimo secolo? La domanda è azzardata e non piacerà a molti storici, economisti, politologi ma potrebbe aiutare a chiudere il cerchio di mezzo millennio di storia globale e orientare alcune riflessioni sulle opportunità, i rischi e le sfide che Musu vede nel futuro della Cina e non solo.

lunedì 13 maggio 2013

New York Times, Come l'austerità uccide

David Stuckler  Sanjay Basu
New York Times, 12 maggio 2013

All'inizio del mese scorso, un triplice suicidio è stato segnalato nella città balneare di Civitanova Marche, Italia. Una coppia sposata, Anna Maria Sopranzi, 68 anni, e Romeo Dionisi, 62 anni, si era battuta per vivere con una pensione mensile di circa 500 euro (circa $ 650), ed era rimasta indietro per l'affitto.
Poiché il bilancio di austerità del governo italiano aveva alzato l'età pensionabile, il signor Dionisi, ex operaio edile, è diventato uno degli esodati d'Italia (gli espulsi) - i lavoratori anziani immersi nella povertà, senza una rete di sicurezza. Il 5 aprile, lui e sua moglie ha lasciato un biglietto sulla vettura di un vicino per chiedere perdono, poi si sono impiccati in un ripostiglio a casa. Quando il fratello della signora Sopranzi, Giuseppe Sopranzi, 73 anni, ha sentito la notizia, si è annegato nel mare Adriatico.
La correlazione tra disoccupazione e suicidio è stata osservata fin dal 19 ° secolo. Persone in cerca di lavoro hanno circa due volte più probabilità di finire la loro vita rispetto a coloro che un lavoro ce l’hanno.
Negli Stati Uniti, il tasso di suicidi, che era lentamente andato aumentando a partire dal 2000, ha compiuto un salto durante e dopo la recessione 2007-9. In un nuovo libro, si stima che 4.750 suicidi "in eccesso" - vale a dire, le morti sopra quello che le tendenze pre-esistenti potrebbero prevedere – si sono verificati nel 2007-2010. I tassi di questi suicidi erano significativamente maggiori negli stati che hanno registrato le maggiori perdite di posti di lavoro. I morti per suicidio superato quelli per incidenti stradali nel 2009.
Se i suicidi fossero una conseguenza inevitabile della recessione economica, questa sarebbe solo un'altra storia sul costo umano della Grande Recessione. Ma non è così. I paesi che hanno tagliato i bilanci di protezione sanitaria e sociale, come la Grecia, l'Italia e la Spagna, hanno visto i risultati di salute crudamente peggiori di nazioni come la Germania, l'Islanda e la Svezia, che hanno mantenuto le loro reti di sicurezza sociale e hanno optato per stimolo più austerità. (la Germania predica le virtù dell’austerità - per gli altri).
Come studiosi di salute pubblica e di economia politica, abbiamo guardato inorriditi come politici dibattano all'infinito di debiti e deficit, con poco riguardo per i costi umani delle loro decisioni. Negli ultimi dieci anni, abbiamo estratto insiemi di dati enormi da tutto il mondo per capire come shock economici - dalla Grande Depressione alla fine dell'Unione Sovietica alla crisi finanziaria asiatica alla Grande Recessione - influenzano la nostra salute. Quello che abbiamo scoperto è che la gente non si ammala inevitabilmente o muore perché l'economia ha vacillato. La politica fiscale, si scopre, può essere una questione di vita o di morte.
Ad un estremo è la Grecia, che è al centro di un disastro sanitario. Il budget sanitario nazionale è stato ridotto del 40 per cento dal 2008, in parte per raggiungere gli obiettivi di riduzione del deficit fissati dalla cosiddetta troika - il Fondo monetario internazionale, la Commissione europea e la Banca centrale europea - come parte di un pacchetto di austerità 2010. Circa 35.000 medici, infermieri e altri operatori sanitari hanno perso il lavoro. I ricoveri ospedalieri sono saliti alle stelle dopo che i greci hanno evitato di ricorrere a un trattamento di routine o di prevenzione a causa dei lunghi tempi di attesa e dell'aumento dei costi dei farmaci. La mortalità infantile è aumentata del 40 per cento. Le nuove infezioni da HIV sono più che raddoppiate, a seguito del crescente uso di droghe per via endovenosa – dal momento che il bilancio per i programmi di scambio di aghi è stato tagliato. Dopo che i programmi di spruzzo antizanzare sono stati tagliati nel sud della Grecia, i casi di malaria sono stati segnalati in numero significativo, per la prima volta dall’inizio degli anni 1970 .
Al contrario, l'Islanda evitato un disastro sanitario, anche se ha vissuto, nel 2008, la più grande crisi bancaria nella storia, in rapporto alle dimensioni della sua economia. Dopo il fallimento delle tre principali banche commerciali, il debito totale è salito, la disoccupazione è aumentata di nove volte, e il valore della moneta, la corona, è crollato. L'Islanda è diventato il primo paese europeo a chiedere al FMI un piano di salvataggio dal 1976. Ma invece di salvataggio delle banche e tagli di bilancio, come il FMI aveva chiesto, i politici islandesi hanno compiuto un passo radicale: hanno sottoposto l'austerità a un voto. In due referendum, nel 2010 e 2011, gli islandesi hanno votato in modo schiacciante per pagare i creditori stranieri a poco a poco, piuttosto che tutto in una volta attraverso l'austerità. L’ economia islandese ha ampiamente recuperato, mentre quella greca è sull’orlo del crollo. Nessuno ha perso la copertura sanitaria e l'accesso ai farmaci, anche se il prezzo dei farmaci importati è aumentato. Non vi è stato alcun aumento significativo nei suicidi. L'anno scorso, il primo Rapporto mondiale dell'Onu sulla Felicità ha classificato l’Islanda come una delle nazioni più felici del mondo.
Gli scettici potranno puntare a differenze strutturali tra la Grecia e l'Islanda. L’adesione della Grecia alla zona euro reso impossibile la svalutazione della moneta, e il margine politico per respingere i piani di austerità del FMI era più ristretto. Ma il contrasto gioca a favore della nostra tesi che la crisi economica non deve necessariamente comportare una crisi di salute pubblica.
Tra questi due estremi ci sono gli Stati Uniti. Inizialmente, il pacchetto di stimolo 2009 puntellava la rete di sicurezza. Ma ci sono segnali di pericolo - al di là del tasso di suicidi più alto – per cui le tendenze nel campo della salute registravano un deterioramento. Le prescrizioni di antidepressivi erano salite alle stelle. 750mila persone (in particolare giovani disoccupati) si sono dedicati alla pratica delle abbuffate alcoliche [binge drinking = assunzione di 5 o più bevande alcoliche in un intervallo di tempo più o meno breve]. Più di cinque milioni di americani hanno perso l'accesso alle cure sanitarie durante la recessione perché hanno perso il posto di lavoro (e delle due l’una: o non poteva permettersi di estendere l’assicurazione ai sensi della legge Cobra o aveva esaurito la propria ammissibilità). Le visite mediche preventive sono scese di numero perché le persone ritardavano le cure mediche e finivano al pronto soccorso. (L’Obama Care espande la copertura, ma solo gradualmente.)
Il “sequestro” di 85 miliardi di dollari che ha avuto inizio il 1 ° marzo taglierà i sussidi di nutrizione per circa 600.000 donne incinte, neonati e bambini per la fine dell'anno. I budget per alloggi pubblici saranno tagliati da quasi 2 miliardi di dollari quest'anno, mentre per di più 1,4 milioni di case sono in pignoramento. Anche il bilancio dei Centri per il Controllo delle Malattie e la Prevenzione, principale difesa della nazione contro le epidemie come un'epidemia di meningite fungina dello scorso anno, è stato tagliato, per almeno 18 milioni di dollari.
Per testare la nostra ipotesi che l'austerità è mortale, abbiamo analizzato i dati provenienti da altre regioni ed epoche. Dopo che l'Unione Sovietica si è dissolta, nel 1991, l'economia della Russia è crollata. La povertà è salita e l'aspettativa di vita è scesa, in particolare tra i giovani, gli uomini in età lavorativa. Ma questo non si è verificato in tutta l'ex sfera sovietica. La Russia, il Kazakistan e gli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) - che hanno adottato la "terapia shock" dei programmi economici sostenuti da economisti come Jeffrey D. Sachs e Lawrence H. Summers – hanno sperimentato i peggiori aumenti dei suicidi, infarti e morti correlate all’uso di alcol.
Paesi come la Bielorussia, la Polonia e la Slovenia hanno adottato un approccio gradualista diverso, auspicato da economisti come Joseph E. Stiglitz e dall'ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov. Questi paesi hanno privatizzato le loro economie a controllo statale a tappe e ha visto molto migliori risultati di salute rispetto ai paesi vicini che hanno optato per le privatizzazioni e licenziamenti di massa, causando gravi perturbazioni economiche e sociali.
Come la caduta dell'Unione Sovietica, la crisi finanziaria asiatica del 1997 offre casi di studio - in effetti, esperienze sul campo – che vale la pena esaminare. Thailandia e Indonesia, che hanno presentato i piani aggressivi di austerità imposti dal FMI, hanno conosciuto la fame di massa e un forte aumento dei morti per malattie infettive, mentre la Malesia, che ha resistito al consiglio del FMI, ha mantenuto la salute dei suoi cittadini. Nel 2012, il FMI si è formalmente scusato per la sua gestione della crisi, stimando che il danno dalle sue raccomandazioni potrebbe essere stato tre volte maggiore di quanto precedentemente supposto.
L’esperienza dell'America della Depressione è anche istruttiva. Durante la Depressione, i tassi di mortalità negli Stati Uniti sono diminuiti di circa il 10 per cento. Il tasso di suicidi in realtà è salito tra il 1929, quando il mercato azionario crollò, e il 1932, quando Franklin D. Roosevelt fu eletto presidente. Ma l'aumento dei suicidi è stato più che compensato dalla "transizione epidemiologica" - miglioramento delle condizioni igieniche che hanno ridotto le morti per malattie infettive come la tubercolosi, polmonite e influenza - e da un forte calo degli incidenti stradali mortali, dato che gli americani non potevano permettersi di guidare. Confrontando i dati storici dei vari Stati, si stima che per ogni 100 dollari di spesa pro capite connessa al New Deal c’è stato un calo nelle morti di polmonite di 18 per 100.000 persone, una riduzione della mortalità infantile di 18 per 1.000 nati vivi, e un calo dei suicidi di 4 per 100.000 persone.
La nostra ricerca suggerisce che investire un dollaro in programmi di salute pubblica può produrre fino a 3 dollari nella crescita economica. Gli investimenti in salute pubblica non solo permettono di risparmiare la vita in una fase di recessione, ma possono contribuire a stimolare la ripresa economica. Questi risultati suggeriscono che tre principi dovranno guidare le risposte alle crisi economiche.
Primo, non nuocere: se l'austerità sono fosse stata testata come un farmaco in uno studio clinico, sarebbe stata bloccata molto tempo fa, dati i suoi effetti collaterali mortali. Ogni nazione dovrebbe istituire un ufficio indipendente, apartitico di Responsabili per la Salute, composto da epidemiologi ed economisti, per valutare gli effetti sulla salute di politiche fiscali e monetarie.
In secondo luogo, trattare la disoccupazione come la pandemia che è. La disoccupazione è una delle principali cause di depressione, ansia, alcolismo e pensieri suicidi. I politici in Finlandia e Svezia hanno aiutato a prevenire la depressione e suicidi durante le recessioni, investendo in "politiche attive del mercato del lavoro" che hanno investito i nuovi disoccupati e li hanno aiutati a trovare lavoro in fretta, con benefici economici netti.
Infine, espandere gli investimenti nella sanità pubblica quando i tempi sono cattivi. Il luogo comune che un grammo di prevenzione vale una libbra di cura sembra essere vero. E 'molto più costoso controllare un'epidemia che prevenirla. La città di New York ha speso 1 miliardo di dollari verso la metà degli anni 1990 per controllare un focolaio di tubercolosi resistente ai farmaci. Il ceppo farmaco-resistente era stato provocato dal fallimento della città nel garantire che i malati di tubercolosi a basso reddito completassero il loro regime di farmaci generici poco costosi.
Non c'è bisogno di essere un ideologo dell’economia - noi certamente non lo siamo – per riconoscere che il prezzo dell’ austerità può essere calcolato in vite umane. Non stiamo tentando di riabilitare passate decisioni di politica antipovertà o la richiesta di cancellazione del debito universale. Tocca ai politici in America e in Europa capire quale possa essere il giusto mix di politica fiscale e monetaria. Quello che abbiamo scoperto è che l'austerità - gravi, immediati, indiscriminati tagli alla spesa sociale e sanitaria - non è solo autolesionista, ma fatale.

David Stuckler, a senior research leader in sociology at Oxford, and Sanjay Basu, an assistant professor of medicine and an epidemiologist in the Prevention Research Center at Stanford, are the authors of "The Body Economic: Why Austerity Kills".

domenica 12 maggio 2013

Camilleri, il rapporto con il padre

Walter Porcedda
La Nuova Sardegna, 11 maggio 2013

«Tenente Camilleri! Cosa fa? Si defili». Chi dà quell'ordine nei giorni della Grande Guerra fu Emilio Lussu comandante della Brigata Sassari.E così salvò la vita a un ufficiale siciliano. A raccontarlo dopo cento anni è il figlio, lo scrittore Andrea Camilleri. Rivela l'episodio, come in un coup de théâtre, al termine dell’appassionante lezione magistrale, ieri nell'aula magna del Rettorato, rigurgitante di pubblico accorso ad ascoltare le parole del letterato che seguono quelle della laudatio del docente Giuseppe Marci. E’ l’inizio della cerimonia che si concluderà con la consegna allo scrittore, da parte del rettore Giovanni Melis, della Laurea honoris causa in Lingue e letterature moderne europee e americane.
L'aneddoto giunge alla fine di una avvincente analisi sul rapporto tra genitori e figli che ha visto lo scrittore concentrarsi tra Giovanni Verga, Luigi Pirandello, Grazia Deledda e Italo Svevo. E' in questo contesto che emerge quel racconto. Dopo un rapporto contrastato come spesso sono quelli tra un genitore e un figlio, giunge il momento tra i due di dirsi tutto. Accade quando il padre di Camilleri sarà ricoverato per una grave malattia. Lo scrittore allora ultraquarantenne, decide di stargli accanto ogni sera.
Come quella notte. Verso l'alba «aveva aperto gli occhi e, alzatosi mi fissava. A voce alta gridava: "Tenente Camilleri, tenente Camilleri". Io non sapevo cosa rispondere. Continuò a chiamarmi con tono imperioso "Tenente Camilleri". Capii allora che stava rivivendo un momento di guerra e io ero lui. E lui era Lussu. "Signorsì" risposi. "Presto tenente si defili, non vede che è sotto tiro?". Indugiai. Ero commosso, emozionato. Allora lui insistette imperioso: "Si defiliii !".
Molti anni prima gli avevo domandato: "Babbo, ma tu quando andavi all'attacco non provavi paura?" E lui: "Certo! Ma con quella gente lì, se non ti dimostravi coraggioso…".
"Si defili", ripetè. Non sapevo più che cosa rispondere. Allora lui disse: "Si defili, gli ho detto, o vuole insegnarci il coraggio, coglione di un siciliano". "Signorsì”.
Prima di quella notte Camilleri come Zeno di Svevo sentì immediato il bisogno di stare accanto al padre. «Non potevo lasciare che se ne andasse senza avergli spiegato le ragioni di certe mie convinzioni che l'avevano profondamente addolorato. Ero l'unico figlio che aveva, e penso, di averlo deluso da ragazzo e nella prima giovinezza in tante aspettative. Voleva che andassi con lui alle partite di calcio. E io mi rifiutai. Voleva che lo accompagnassi a caccia, qualche volta ci andai ma poi smisi. Voleva insegnarmi a giocare a biliardo, ma non riuscì mai a farmi prendere in mano una stecca. L'amavo intensamente ma non mi piacevano le cose che faceva. Al contrario amavo molto i libri che leggeva. Non era un intellettuale ma un uomo di buone letture. Era stato fascista della prima ora, squadrista, ma non facinoroso, né settario (e infatti sugli ebrei disse che "quella della razza era una tragica buffonata per fare piacere a Hitler"). Fu negli ultimi mesi del ’42 che prese le distanze pubblicamente dal regime. Su per giù nello stesso periodo io maturai segretamente la mia conversione al comunismo».
Adesso sentiva la necessità di un ultimo colloquio con lui che chiudesse il discorso. «Prendendoci per mano ci parlammo. A cuore aperto, sussurrando. Quasi una lunga confessione. Le parole ora scorrevano fra di noi, senza intoppi. Non ci fu una domanda che non ebbe una risposta». Ed è proprio in questo intimo racconto la chiave per comprendere le relazioni tra giovani e vecchi. Camilleri prende le mosse dal "Mastro Don Gesualdo" di Verga focalizzandosi sulla "roba", cioè il patrimonio accumulato che andrà disperso. Sono quelle linee di contrasto di tradizione rintracciabili anche in "L'incendio nell'oliveto" di Deledda in cui viene fuori la paura del nuovo. Lo scontro tra due mondi chiusi sulle proprie certezze, senza dialoghi che possano aprire spiragli.
E solo con il passare dei tempi questa lacerazione muta. Non sta più nell'avere ma nell'essere come in "I vecchi e i giovani" di Pirandello. Ma è proprio in "La coscienza di Zeno", nel quarto capitolo che si legge come questo conflitto sia collegato alla difficoltà di comunicare. Entrambi, dice Camilleri, hanno difficoltà a farlo perché non hanno la stessa età e non condividono le identiche esperienze. Il contatto può avvenire solo se c'è la volontà reciproca di aprire un dialogo. Rendendo omaggio alla memoria del padre, Camilleri ha dimostrato come la letteratura sia il racconto del mondo. Di quello che siamo stati e saremo.
Ed ecco gli ultimi attimi di quei momenti vissuti con il padre.
“Ricadde in un torpore quieto. Io invece ero profondamente scosso. Dopo un po’ vidi alzare la mano all'altezza del viso e credetti che volesse fare qualcosa che non gli riusciva. Pensando che gli dava fastidio il boccaglio dell'ossigeno, gli presi la mano, ma lui a fatica se la portò sulla fronte. Capii che si voleva fare il segno della croce. Aprì gli occhi, mi guardò. Aveva uno sguardo lucidissimo. "Vai via", mi disse, "vai via e torna dopo che ti sei fumato una sigaretta". Ubbidii. E quando, dopo aver fumato, andai verso la sua camera, sapevo che non l'avrei trovato più”.

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Il testo della lectio magistralis esce sul Sole24ore di oggi http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-05-11/camilleri-domani-domenicale-sole-170611.shtml?uuid=AbIdr4uH&fromSearch
Sullo stesso tema, qui, nel blog belfagor
http://machiave.blogspot.it/2013/05/in-mancanza-del-padre-psicologia-e.html
http://machiave.blogspot.it/2013/04/recalcati-la-pastorale-americana.html

sabato 11 maggio 2013

Un'età di gestazione e di trapasso

... non è difficile a vedersi come la nostra età sia un'età di gestazione e di trapasso a una nuova èra; lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi*; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione [...] la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l'indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualcosa di diverso che è in marcia.

Hegel, Fenomenologia dello spirito (1807)

* è difficile dar nome al nuovo, dar nome vorrebbe dire capire in una certa misura. Prevale invece lo spavento associato a una buona dose di pigrizia. Ci si sottrae a quella che Hegel chiamava la fatica del concetto e si ricorre all'insulto:  La gente scambia la volgarità per genuinità; invece è un trucco per sottrarsi alle spiegazioni. Questo scriveva Gian Enrico Rusconi sulla Stampa tempo fa. Da allora è ancora cambiato qualcosa. L'insulto ormai fonda la spiegazione. Sei un buono a nulla, quindi non puoi che portare il paese alla rovina. Sei corrotto, sei venduto, hai già tradito e sei destinato a tradire.
Se siamo arrivati a questo punto una ragione ci sarà. Stiamo passando dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico. Nel nuovo contesto hanno grande importanza le emozioni. Non conta tanto il pensiero quanto il sentimento. La fiducia personale conta più dell'ideologia e si rovescia senza troppe remore in disincanto quando viene meno. Da qui il passaggio all'insulto. Che ha anche un'altra virtù, oltre a quella di farci tutti uguali nel rigetto del male: abolisce la distanza tra noi e il leader, l'insulto maneggiato dal leader lo rende uguale a noi.

Non occorre condurre una indagine demoscopica per sapere che cosa può accadere ora. L'insulto non scomparirà da un giorno all'altro. Una moda non si esaurisce di colpo. Viene abbandonata da quanti capiscono prima degli altri che non procura distinzione o prestigio, anzi ti fa apparire volgare e sguaiato. E poi c'è il fatto che la politica - non i politici, si badi - la politica continua ad avere un senso. Intendendo per politica la policy, le grandi scelte, e non la politics, gli intrighi, gli scambi di basso livello, il chiacchiericcio. Quella che veniva praticata per esempio dal generale de Gaulle, così sprezzante verso la politica dei partiti e verso i politicanti. 
Per quanto la novità non sia sempre agevole da individuare e riconoscere, la politica sta tornando a occupare la scena. I risultati potranno essere deludenti, ma rappresentano pur sempre una utile base di partenza per ulteriori ragionamenti sul futuro. Che cosa si riesce a fare, dove abbiamo sbagliato, che cosa rimane da fare: solo così impareremo a riconoscere il mondo nuovo che incombe. 


venerdì 10 maggio 2013

Donald Sassoon, Necrologio di Giulio Andreotti

Giulio Andreotti, who has died aged 94, was the ultimate insider of Italian political life. For half a century he was at the heart of power. His tenure at the highest echelons of government was unequalled in Europe. From the early 1960s to the early 90s, he was – almost uninterruptedly – either prime minister or a senior minister. Andreotti was in all but six of the 45 governments that ran from May 1947 to April 1992, led seven of them and, at various times, was the minister of defence, foreign affairs (five times), finance, treasury, and interior. He held the post of prime minister for longer than any other postwar Italian politician except Silvio Berlusconi, yet he never led the Christian Democratic party.
His tenacity in remaining at the centre of affairs became a source of fascination in itself. Just as Julius Caesar had become Divo Giulio, the god Julius, so the makers of the 2008 film Il Divo, a biopic about Andreotti, attributed to the infinitely pragmatic modern Giulio seemingly mesmeric powers all the more striking for his superficial drabness.
Andreotti was the most controversial figure in the political life of what came to be known as Italy's First Republic (from 1946 to the political and constitutional turmoil of 1992-94). As a senior Christian Democrat, he played a leading part in all significant political watersheds while never taking a major political initiative. Few of Italy's contentious issues left him untainted, from those surrounding the construction of Rome's Fiumicino airport, which opened in 1961; to the murky banking scandals of Roberto Calvi, found hanging under Blackfriars bridge, London, in June 1982; and Michele Sindona, found poisoned in his cell in 1986 while serving a life sentence for murder.
Magistrates asked parliament 27 times for permission to investigate Andreotti, and 27 times parliament rejected the request. Yet he was never directly implicated, let alone indicted, in the most significant of them all, the mother of all scandals, the great Tangentopoli ("bribesville") affair of the 1990s that brought down the Christian Democratic party along with the other four parties that made up almost all the governments of the First Republic. Andreotti's personality and, above all, his innermost political convictions, remained shrouded in mystery – an extraordinary achievement for someone so frequently in the public eye, so often investigated by the press and magistrates, so often interviewed, and so prolific a writer.
This most powerful of men lived modestly with his wife, Livia, whom he had married in 1945, and with whom he had two sons and two daughters. Andreotti, who had interceded on behalf of endless supplicants like a true padrino (godfather), did not use his power to pursue personal wealth or to enhance the prospects of his closest relatives.
He had a slight malformation of the spine that gave him a stooping gait, which was used by caricaturists to represent him as a malevolent, hunchbacked dwarf (he was actually quite tall) with disproportionately large ears, always dressed in black, lurking in the dark corners of the republic, holding the strings of the political puppet show that unfolded year after year.
He was born in Rome. His father died when Giulio was two, and the family survived on his mother's miserly widow's pension. While at university, he joined the Federation of Italian University Catholic Students and became its president in February 1942. This enabled him to meet and befriend many of the personalities who would dominate post-fascist Italy. Andreotti obtained a first-class law degree from the University of Rome in 1941, specialising in ecclesiastical law. His frail physique prevented him from being drafted, but not from spending most of the second world war establishing a formidable network of connections and making friends of differing political hues. In the dying days of the fascist regime, Andreotti cultivated the entire Catholic establishment vigorously, especially those notables who had spent the years of fascism lying low, waiting for a change of fortune.
Having secured his rear, he set about energetically organising the new generation of Catholic intellectuals and politicians in 1944, at the age of 25, he became a member of the national council of the newly founded Christian Democrats. In 1946 he was elected to the assembly as one of the representatives for Rome. He was subsequently elected in all parliamentary elections until 1991 when he was appointed life senator (one of the five such posts in the gift of the president of the republic).
His control over the Christian Democratic party machine in Rome and beyond was overwhelming. He was widely regarded by the higher echelons of the civil service to be "their" man. He also had the trust of the Vatican, and Rome's most prominent property and banking interests. One of the results of this meticulous and painstaking accumulation of power was that he was usually able to top the chart of personal preference votes at all elections (under the old electoral system, voters could indicate, after voting for a party, which of the candidates on the list they preferred).
In 1947 De Gasperi appointed him undersecretary to the presidency of the council. This non-cabinet post – equivalent to a minister without portfolio – enabled him to be at the centre of all government activities. He was, in effect, the prime minister's main fixer. However, he was also given a practical task: the reorganisation of the cinema industry. Andreotti piloted through parliament legislation giving the government greater power over the economy, which helped the industry to produce, by 1954, some 200 films a year, making Italy the largest producer of films in the world after the US.
His uninhibited attitude towards artistic production contrasted sharply with that of his more traditionalist colleagues: "More legs and fewer rags," he intoned as he censored Vittorio De Sica's 1952 film Umberto D, the dismal story of a struggling pensioner. His wishes were fulfilled as the industry prudently moved away from the sombre neo-realism of the immediate postwar years towards mildly saucy comedies and the sub-De Mille-style epics, set in antiquity with their cast of thousands of buxom Roman ladies. This relaxed pragmatism became his trademark. It permitted him to shift from the left to the right and back again without anyone being particularly surprised.
In 1954, after the death of De Gasperi, Andreotti became his own man, organised his own supporters and became home secretary interior minister in the first of the many governments led by Amintore Fanfani. Between 1955 and 1958 he was minister of finance, then minister of defence, holding this post from 1959 to 1966 – unmoved and unmoveable – while prime ministers succeeded each other: Antonio Segni (1959), Fernando Tambroni (1960), Fanfani (1960-62), Giovanni Leone (1963) and Aldo Moro (1963-66).
He then moved on to the industry ministry (1966-68). Out of government between 1968 and 1972, he "missed" (by luck or supreme cunning) the dying days of the first centre-left government, the student revolt, the rebirth of working-class militancy (the hot autumn of 1969) and the first wave of terrorism. Yet he was far from idle. As leader of the Christian Democrat parliamentary group, he played a leading and mediating role in the incessant factional party infighting.
In the early 1960s he was a pillar of the party's right, whose main objective was to prevent the formation of a coalition government with the Socialist party – the centro-sinistra (centre-left). At the last minute, the swift-footed Andreotti switched his support and rallied round Moro and Fanfani, the architects of the new coalition whose aim was to reform the country while isolating the communists.
Andreotti had thrown his weight behind the new centre-left coalition in 1963 only after ascertaining that it was acceptable to those whose assent he regarded as crucial: the US and the Vatican. He knew them well. As minister of defence, Andreotti was the politician closest to the Americans. As a personal friend of Cardinal Giovanni Battista Montini, who was about to become pope as Paul VI, he was intimately acquainted with Vatican thinking. Andreotti backed novelties only after he had secured the maximum consensus.
For some, politics is the art of bold decisions, striving forward, changing the landscape and making a difference. But for Andreotti, politics was about caution and prudence. It was the art of managing human affairs in an imperfect world. People were fallible and corrupt, flawed and sinful, and one had to accept them as they were. They might be changed by divine intervention, but not by human intercession.
This attitude enabled this genuinely religious man, who went to mass every day and to confession every week, to behave with what may appear as unchecked cynicism. His most celebrated aphorism was his response to a journalist who wondered whether Christian Democrats would ever be weary of wielding power: "Political power wears out only those who haven't got it."
By 1972 the Socialist party had withdrawn its support from the government, and the centre-left coalition came to an end. A period of great political uncertainty unfolded. Without the socialists, it was extremely difficult to form a stable government – even by Italian standards. Andreotti emerged as prime minister (1972-73), leading a weak coalition of the centre-right, thus consolidating his image as a conservative scourge of the left, whether communist or socialist.
That was a time of great changes: the end of the long postwar boom, the oil crisis and the termination of the Bretton Woods system of fixed exchange rates. Italy, a country with few energy resources and a weak currency, reeled under the impact. Terrorism escalated, as did organised crime. But it was also a time of rapid modernisation. Workers and women gained new rights, divorce was legalised, central power was devolved. Andreotti's "rightwing" government did not forcefully oppose these changes. In practice, it facilitated them.
The Communist party made great electoral gains in 1975 and 1976, and called for a "historic compromise" with the Christian Democrats. Moro, now de facto party leader, had come to the conclusion that a deal with the communists was inevitable. It was necessary to proceed gradually. First the communists would be "allowed" to support a Christian Democrat government in parliament, then they would have a major say in its programme, and, eventually, in the fullness of time – after a lengthy apprenticeship, once it had become apparent that they were not bloodthirsty Stalinists but quite reasonable social democrats – they would be brought into government.
For this to succeed, it was indispensable to have a prime minister who would reassure the Vatican, the Americans, the European community, big and small business and Italy's vast bureaucracy. Who better than Andreotti to perform this delicate balancing act? He loyally accepted and led the government from 1976 to 1979.
However, Moro's kidnapping and assassination by the Red Brigades in 1978 caused such a momentous political crisis that the compromise did not survive, though Andreotti did. He used one of his rare absences from government (1979-83) to forge a new alliance with the staunchly anti-communist socialist leader Bettino Craxi and those Christian Democrats who, unlike him, had been hostile to an entente with the communists. When Craxi became prime minister in 1983, Andreotti was back in government as foreign minister, holding the post until 1989. And then, for the seventh and last time, he became prime minister.
Like many before him, Craxi had failed to modernise the country, and during his premiership, moral standards in the conduct of public affairs degenerated further. Andreotti appeared to take less and less interest in domestic matters. This became more evident when, having regained the office of prime minister (1989-92), he repositioned Italy's role in international affairs, enthusiastically supporting Mikhail Gorbachev's programme of perestroika (energetically backed by Pope John Paul II), distancing himself a little from the US (he thought, quite rightly, that Washington had never been able or willing to understand Italian political problems), while remaining staunchly pro-European. He played a key role in the Maastricht treaty (1992), particularly in obtaining Margaret Thatcher's endorsement – no mean feat. As he said, much later: "Mrs Thatcher is a woman of great intelligence … but she has an authoritarian disposition. It is not easy to sit around a table with her."
By 1992 the tocsin bell was ringing for the unlamented First Republic. Andreotti appeared to survive unscathed from the corruption investigations of the Tangentopoli affair, but the past was catching up with him. In March of that year, his righthand man in Sicily, Salvo Lima, was murdered by the mafia in what was seen as an internecine dispute (Lima was also the link between Andreotti and the mafia). Andreotti was later accused by Tommaso Buscetta, a mafia supergrass, of having been involved with organised crime, and of having exchanged a ritual kiss with the capo di tutti i capi (boss of all bosses), Salvatore Riina. The kiss was an unlikely story, but the Palermo court investigating his links with the mafia did accept that such links had existed, but only until 1980, and that he could no longer be prosecuted – not quite the vindication he had hoped for.
That Andreotti had had links with the mafia did not surprise anyone, but his last administration was more decisively anti-mafia than any other postwar Italian government. Much of the credit goes, of course, to brave investigative magistrates such as Giovanni Falcone and Paolo Borsellino, who were both murdered in 1992, but Andreotti too moved firmly against Cosa Nostra. More powers were granted to the police. Co-ordination between the various anti-mafia police "pools" improved. Mafiosi were kept in jail pending appeal (a departure from previous practice). Bidding for public contracts – a traditional source of revenue for the Sicilian and Neapolitan mafia – was made more transparent. Indeed, the murder of Lima was widely regarded as a mafia revenge for Andreotti's decision to call off the pact of mutual tolerance he appeared to have with Cosa Nostra, another instance, claimed his opponents, of his amazing duplicity.
Andreotti was also accused of having ordered the murder of a rightwing journalist, Carmine Pecorelli, in 1979. Pecorelli was the editor of a small-circulation newspaper, allegedly close to the secret services and specialising in scandal-mongering and blackmail. He had, or so it was said, some evidence that both the "secret services" (ie the CIA) and Andreotti had been connected with the killing of Moro – one of the many groundless conspiracy theories that have entertained Italians over the years. The Pecorelli affair lasted, incredibly, for more than 20 years. The connection between Pecorelli and Andreotti was never established, but in 1996 the prosecutors thought they had enough evidence to indict Andreotti.
This time parliament could not protect him and he was brought before the court, along with various neo-fascists and mafiosi. In 1999 the court ruled he was not guilty. In 2002 the court of appeal overturned the verdict and condemned Andreotti to 24 years in jail. He took it philosophically: "To give 24 years to a man who is over 80 is almost like wishing him a long life." Finally, in 2003, the court of cassation (Corte Suprema di Cassazione), the country's court of last resort, overturned the sentence. Once again Andreotti was innocent – at least of this particular crime, thus vindicating those who argued that it was hardly credible that a statesman of Andreotti's standing would risk so much to eliminate a rather pathetic blackmailer.
Until the long and exhausting trial got under way, Andreotti had remained in the international limelight, esteemed and revered. In 1995, invited by Yasser Arafat, he went to Gaza, part of a wider Middle Eastern tour that included Iran, Israel and Syria, and was received with honours normally reserved for a head of state and not to a retired politician facing criminal charges. Gorbachev, after his resignation, sent him an effusive letter, praising him as one of the greatest living international statesmen. Henry Kissinger celebrated Andreotti's "razor-sharp political mind". Few Italian politicians had obtained such international recognition.
Yet these were also the years in which he was being indicted as a mafioso. Those who were incredulous that Andreotti would stoop so low were reminded that his realism might have led him to treat the mafia as he treated anyone who had power – as opponents to be taken seriously, whose interests must be taken on board, and who, if they cannot be eliminated, must be conciliated. He had, after all, consistently exhibited a supreme indifference to the idea of supping with the enemy, and invariably displayed a lack of anger, passion or any desire of revenge.
These traits were well depicted in Il Divo, directed by Paolo Sorrentino, which narrates the events surrounding Andreotti's trials and tribulations of 1991-92. It is said that Andreotti, when watching it, momentarily lost his temper, then admitted that the film was aesthetically remarkable, but that the suggestion that he was somehow responsible for many of the "illustrious corpses" of the First Republic was ludicrous – a fair reaction.
He is survived by Livia and his four children.
• Giulio Andreotti, politician and writer, born 14 January 1919; died 6 May 2013

The Guardian, 6 maggio 2013